Rapporto ISTAT 2017: la spirale della disuguaglianza

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Political and social notes

Il rapporto dell’Istituto nazionale di Statistica per il 2017 era, come ogni anno, atteso con relativa indifferenza dalla classe politica. I suoi dati, ancora una volta, si dimostrano non troppo sorprendenti per gli studiosi e i ricercatori che li monitorano quotidianamente. Sembra appena più ampio il coinvolgimento e il dibattito dei media generalisti, ivi compresi, oramai, i circuiti che si alimentano soltanto attraverso i social e, più genericamente, la Rete. È difficile, oltre che non sempre interessante, ricostruire le ragioni psicologiche di questo maggiore interessamento avvertito nei mezzi di comunicazione più volatili e distanti dalla ricerca scientifica. Probabilmente, ha un ruolo la perdurante onda lunga della crisi economica, che certo non viene corretta e addomesticata solo dai primi semestri di debole risalita del prodotto interno lordo. E un ruolo importante è ricoperto pure dalle caratteristiche sempre più evidenti della comunicazione via web. Tra esse, l’esigenza avvertita dalla più parte degli utenti di stare sul pezzo, di commentare, in modo anche altisonante, la notizia del giorno, di sentirsi e autorappresentarsi come la voce quotidiana che racconta la realtà meglio degli altri. Anche i dati, però, hanno diritto a raccontare la realtà. Ne scopriremmo, se ci mettessimo ad ascoltare con dedizione, che la raccontano persino meglio, soprattutto sulla base di indici che, nei commenti a mezzo stampa, sono stati analizzati in modo troppo sbrigativo.

 

L’elemento più allarmante del quadro tratteggiato dall’ISTAT è certamente costituito dall’indice di grave deprivazione materiale. L’11,9% degli Italiani versa in queste condizioni, in aumento rispetto al 2015 (rapporto 2016), quando il medesimo indicatore si arrestava all’11,5%. Ci pare in questo caso che le sottigliezze percentuali aiutino poco. Un ulteriore, tenue, decremento, come quello incontrato nel 2016, non avrebbe scalfito affatto l’aspetto più preoccupante. Più di un Italiano su dieci vive in povertà. Consideriamo gli indici economici che attestano la posizione dell’Italia nello scenario globale: all’ottavo posto per il PIL nominale, al ventisettesimo per il nominale pro capite, al dodicesimo per il PIL nominale a parità di potere d’acquisto e al trentacinquesimo per il nominale pro capite, sempre a parità di potere d’acquisto. Si tratta di dati complessivamente non negativi se si ricorda che tra il 2000 e il 2014 il PIL italiano ha perso il 7,1%. Se incrociamo questa visione sistemica con quasi il 12% di persone sottoposte a grave deprivazione materiale, risulta largamente confermata una gravissima sperequazione sociale. L’Italia non sta bene, moltissimi italiani stanno male.

 

In ritardo rispetto a tutti i partner per la crescita economica, l’Italia è all’opposto capofila, tra gli Stati membri della UE, per numero dei “neet”: giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non cercano di inserirsi nel settore della formazione o in quello lavorativo. Il dato è in lieve decremento (il 24,3% contro il 25,7% dell’anno prima), ma è comunque l’indice di una grave debacle del sistema sociale, se si guarda alla media europea (14,2%, secondo le annualità sempre oltre dieci punti percentuali sotto il livello italiano). Questo dato interroga le responsabilità della politica, in special modo le politiche della formazione e del lavoro: cosa ha prodotto questo sentimento di paralisi e di alienazione? Quali strumenti sono stati attivati per riscattarlo? Un indice così elevato getta, d’altra parte, pure un’ombra inquietante sul futuro dell’economia italiana nel suo complesso. I giovani “neet”, nei rispettivi contesti familiari, possono mantenere la loro condizione di soggetti che non studiano e non lavorano anche perché il risparmio domestico lo consente loro. Se questa quota di risparmio familiare non è alimentata da nuovo reddito, è destinata in meno di una generazione a ridursi sensibilmente.

La spirale recessiva sembra così coinvolgere anche le dinamiche di composizione dei nuclei familiari, che influiscono su una generale fase di denatalità. Si registra un nuovo minimo storico per le nascite (ferme tra le 474mila e le 475mila unità: un trend che dovrebbe proseguire anche nel prossimo rapporto nazionale, alle prime rilevazioni infra-annuali sul punto, nonostante alcune misure assistenziali normativamente adottate). Il saldo naturale ci inchioda a un passivo ancora tenue, ma socialmente riscontrabile: il differenziale tra le morti e le nascite riconsegna un saldo negativo di circa 134mila unità, non colmato nemmeno dalla maggiore natalità osservabile tra i migranti (indice di figli per donna poco al di sotto di 2 per le donne straniere, all’1,27 per le donne italiane: 1,34 di media). Ricerche mediche e studi antropologici e sociali hanno evidenziato il fenomeno da tempo, sottolineando tre aspetti che, pure non decisivi, non sembrano ancora essere stati adeguatamente affrontati dalle politiche per la famiglia: 1-la natalità nelle comunità di immigrati resta più alta, ma tende comunque a decrescere nel Paese di immigrazione; 2-le condizioni economiche e il mutamento negativo delle aspettative di vita spostano in avanti l’età per il concepimento del primo figlio; 3-questi fattori, normalmente meno incisivi per gli stranieri residenti appartenenti a culture diverse da quella del Paese di immigrazione, finiscono per deprimere a lungo termine anche il tasso di natalità presso le donne straniere.

 

È, inoltre, in aumento il numero degli anziani, al punto che sembra prossimo un correttivo metodologico secondo cui il rilevamento dell’anzianità verrà spostato dai 65 ai 70 anni. Empiricamente il rilievo è corretto, poiché le condizioni di vita nel quinquennio considerato (il passaggio dal sessantaseiesimo anno di vita al settantunesimo) complessivamente lo consentono. L’invecchiamento della popolazione, sul piano del bilancio statale, tradizionalmente produce un aumento, invero enfatizzato e certo mal gestito, della spesa pensionistica. Pare, però, doveroso invitare a una riflessione. L’innalzamento dell’età per il pensionamento, oltre che, più modestamente, l’innalzamento dell’età convenzionalmente utilizzata per misurare il numero degli anziani sulla popolazione totale, sono correttivi particolarmente utili soprattutto nelle fasi espansive (delle condizioni e delle aspettative di vita). Oggi, il trend espansivo sembra essersi arrestato e nella più parte dei Paesi occidentali cominciano a notarsi fenomeni ancora circoscritti di ridimensionamento delle aspettative di vita. L’innalzamento dell’età pensionabile non potrà, perciò, risultare un adeguamento tardivo che rischia oggi di diventare punitivo per la prossima generazione di lavoratori e cittadini anziani?

 

Sia consentita, infine, una malizia, che qualche analisi ha già rilevato, ma che forse non ha denunciato expressis verbis. Il rapporto perviene alla distinzione in nove fasce delle famiglie italiane: lavoratori manuali, famiglie di operai in pensione con reddito medio, famiglie a reddito basso con stranieri, famiglie a reddito basso composte solo da italiani, famiglie tradizionali, gruppi formati da anziane sole e giovani disoccupati, famiglie d’impiegati, famiglie beneficiarie di cd. “pensioni d’argento”, classe dirigente. Sospendiamo pure il giudizio sull’esaustività descrittiva e sulla compiutezza metodologica della categorizzazione. E prendiamo un altro dato: la spesa media per consumo è di 1.697 euro per le famiglie a basso reddito con presenza di stranieri; quella della nostra “classe dirigente” doppia non di molto la cifra, attestandosi a 3.810 euro. Così presentato, il differenziale ci segnala in partenza una sperequazione sociale non indolore. Siamo, però, sicuri che questi dati non debbano allusivamente suggerirci una verità ancora più “dolorosa”, e cioè che per una parte non così residuale dell’imprenditoria italiana “dirigente” si pone un fortissimo problema di elusione ed evasione fiscale?

 

*Università Magna Graecia di Catanzaro

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