Decreto Bankitalia, Mezzogiorno ancora dimenticato

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Political and social notes

Il recente decreto IMU-Bankitalia, la cui conversione in legge ha scatenato a fine gennaio un putiferio nell’aula della Camera dei deputati con durissime contestazioni alla presidente Laura Boldrini, ha conferito un valore economico di mercato a ciò che valore non aveva e cioè le quote di proprietà della Banca d’Italia. Il decreto legge numero 133 del 30 novembre 2013 ha previsto, infatti, l’aumento del capitale della Banca d’Italia dai 300 milioni di lire fissati nel 1938 all’epoca della vecchia legge bancaria, a 7,5 miliardi di euro.

Ma il decreto ha prodotto anche un imprevisto effetto collaterale: il grande vantaggio per Intesa e Unicredit, le principali banche italiane, nel ritrovarsi ad essere le maggiori azioniste della Banca d’Italia, rispettivamente con il 30,3 e il 22,1 per cento del capitale. L’evidente sproporzione con gli altri azionisti della Banca d’Italia – si pensi che le Assicurazioni Generali sono il terzo azionista con il 6,3 per cento – è una diretta conseguenza del modo in cui si è andato realizzando il processo di privatizzazione e di successiva concentrazione del sistema bancario italiano negli anni Novanta del secolo scorso. L’assorbimento degli ex istituti di credito di diritto pubblico del Mezzogiorno, Banco di Napoli e Banco di Sicilia in primis, ha infatti determinato la concentrazione in capo a Intesa e Unicredit delle partecipazioni nel capitale della Banca d’Italia che i banchi meridionali avevano iscritti nei propri bilanci.

Era stato il regime fascista con la riforma della legge bancaria, durata due anni dal 1936 al 1938, ad espropriare le quote acquisite dieci anni prima, nel 1928, dalle Casse di risparmio italiane e ad assegnare quote della “nuova” Banca d’Italia agli istituti di credito di diritto pubblico, alle banche di interesse nazionale e agli istituti italiani di previdenza e di assicurazione. Il regime si preoccupò allora di assicurare un’equa distribuzione territoriale delle quote con un sistema simile a quello federale. Tanto che Renato De Mattia, ricostruendo negli anni Settanta le vicende del capitale della Banca d’Italia, osservò che «sebbene la struttura federale dello Stato non trovasse alcun riscontro nelle istituzioni, l’analogia col sistema della riserva federale americana è abbastanza evidente»[1]. E così quote rilevanti della Banca d’Italia finirono ai banchi meridionali che divennero istituti di credito di diritto pubblico.

Congelate per più di settant’anni e dimenticate durante il “risiko bancario” degli anni Novanta, quelle quote oggi tornano ad avere un rilevante valore per l’economia italiana. La rivalutazione del capitale della Banca d’Italia, genera così un notevole beneficio per gli attuali azionisti, tutti esterni al Mezzogiorno. Certo, si potrebbe sostenere che avere un sistema bancario nazionale più forte è un vantaggio anche per il Sud del Paese, tanto più che nessuno avrebbe potuto immaginare che nel processo di concentrazione del sistema bancario italiano tutti i grandi istituti di credito meridionali sarebbero scomparsi e il Sud sarebbe divenuto, come andava dicendo l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il territorio più «debancarizzato» d’Europa.

Eppure il decreto Bankitalia mentre obbliga alla distribuzione di utili fino al 6 per cento del capitale, per un massimo di 450 milioni di euro, allo stesso tempo fissa al 3 per cento la quota di capitale che può essere possedute da ogni singolo azionista. In particolare, il decreto prevede che per far rispettare il limite del 3 per cento, la Banca d’Italia “può acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime”. Tenendo conto del fatto che gli azionisti che superano il 3 per cento sono Intesa, Unicredit, Assicurazioni Generali, la Cassa di risparmio di Bologna (con il 6, 2 per cento), l’Inps (con il 5 per cento) e Banca Carige (con il 4 per cento), si comprende come l’acquisto di quote proprie da parte della stessa Banca d’Italia riguarda in buona parte risorse corrispondenti alle quote una volta possedute dai banchi meridionali.

Se negli anni Novanta del secolo scorso si cercò di correggere gli squilibri territoriali creati dalla privatizzazione del sistema bancario con l’istituzione della Fondazione per il Sud, sarebbe forse opportuno, continuando su quella strada, pensare a come l’aumento di capitale della Banca d’Italia possa essere vantaggioso anche per il Sud, magari utilizzando la parte di aumento di capitale che resterà sotto il controllo pubblico per sostenere politiche dirette a far ripartire l’economia del Mezzogiorno.

[1] Banca d’Italia, Storia del capitale della Banca d’Italia e degli istituti predecessori, a cura di Renato De Mattia, Roma, 1977, vol. II, p. 55, nota 56.

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