L’Italia è, al tempo stesso, il Paese che – in Europa – ha dato maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro e minore sicurezza a chi perde lavoro. Sul piano normativo, è opportuno ricordare che il nostro ordinamento prevede, in caso di licenziamento, il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni ordinaria o strutturale (a seconda che si tratti di difficoltà aziendali di natura congiunturale o strutturale) e il ricorso alla mobilità nei casi di difficoltà aziendali irreversibili. L’ammontare del sussidio è stabilito in fase di programmazione economica ed è quantificato nella Legge Finanziaria. Vi è poi la possibilità di accedere all’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti per i lavoratori in stato di disoccupazione involontaria, con almeno due anni di assicurazione, che abbiano prestato almeno 78 giornate di lavoro con regolare contribuzione. Nel suo ultimo rapporto, l’OCSE, prevedendo il rischio di una disoccupazione a due cifre in Italia nel 2010, certifica che, al momento, i lavoratori più colpiti dalla crisi sono i giovani e i precari: in un anno l’Italia ha perso 261.000 posti di lavoro temporanei o con contratti atipici (inclusi i collaboratori coordinati e continuativi e occasionali). Il tasso di disoccupazione della fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni è cresciuto di 5 punti percentuali in Italia nell’ultimo anno ed è ora pari al 26,3%. Vi è quindi, a maggior ragione nel contesto recessivo attuale, la necessità e l’urgenza almeno di garantire un reddito di sussistenza alle fasce più deboli della forza-lavoro, espulse dal processo produttivo.
A fronte delle riserve del Governo motivate dalla scarsità di risorse dalle quali attingere, si registra – nel corso degli ultimi mesi – un sostegno deciso da parte di autorevoli economisti e giuslavoristi di orientamento liberista (nonché dall’Unione europea) a politiche che – ispirate all’esperienza danese della flexsecurity – coniughino la flessibilità contrattuale con una presunta ‘sicurezza’ da offrire ai lavoratori nel caso in cui vengano licenziati, secondo un modello noto come flexsecurity[1]. Va detto che, sul fronte liberista, si tratta di una svolta piuttosto significativa rispetto agli orientamenti dominanti nei primi anni Duemila; svolta che può essere spiegata in due modi. Si può ritenere, in primo luogo, che si sia preso atto del fallimento delle politiche di flessibilità del lavoro avviate, in Italia, dalla metà degli anni novanta – con il “Pacchetto Treu” – e che hanno subito una significativa accelerazione con la legge 30/3003 (la cosiddetta Legge Biagi). In effetti, vi è ampia evidenza empirica del fatto che, laddove i lavoratori sono meno protetti, sono minori i salari e, di norma, è minore l’occupazione[2]. In secondo luogo, è possibile che il cambiamento di vedute non sia motivato dalla constatazione del fatto che quelle politiche non hanno generato gli effetti voluti, ma da considerazioni che attengono o all’impopolarità crescente delle politiche di precarizzazione del lavoro o direttamente all’attuale fase congiunturale. In altri termini, appare ragionevole ritenere che coloro che oggi spingono il Governo verso l’attuazione di politiche di flexsecurity – intellettuali comunque di orientamento neoliberista – si siano convinti che il principale problema delle imprese italiane nella crisi attuale è un problema di sbocchi e che, dunque, occorre in qualche modo provare a sostenere la domanda interna. In prima approssimazione, sembrerebbe trattarsi di una politica che avvantaggia sia le imprese, sia i lavoratori.
Si può ritenere, infatti, che l’erogazione di sussidi, accrescendo la domanda aggregata, per il tramite dei consumi, aumenti la produzione e, per questa via, accresca la disponibilità di beni a favore dei lavoratori, occupati e disoccupati. Va, tuttavia, segnalato il rischio che questo effetto non si verifichi, e che la logica che ne è a fondamento sia ribaltata, in contesti nei quali le imprese hanno la possibilità di decidere autonomamente quanto e cosa produrre, indipendentemente dall’andamento della domanda[3]. In una condizione di ‘sovranità del produttore’[4], le imprese hanno potere di fissazione dei prezzi, e i prezzi vengono determinati aggiungendo un margine di profitto considerato normale ai costi di produzione. L’entità del margine di profitto dipende dal grado di concentrazione industriale e, dunque, è tanto maggiore quanto meno i mercati hanno una configurazione concorrenziale[5]. In tali circostanze, l’erogazione di sussidi in moneta rischia di generare effetti perversi, per le seguenti ragioni. I sussidi, accrescendo il valore monetario della domanda globale, accrescono i profitti e, di conseguenza, i margini di profitto. L’aumento dei margini di profitto – a parità di costi di produzione – si traduce in più alti prezzi di vendita dei beni e servizi, con la conseguenza che non solo il reddito reale dei disoccupati subisce una decurtazione derivante dal potenziale aumento del tasso di inflazione, ma gli stessi lavoratori occupati possono veder ridursi i loro salari reali. L’Eurostat certifica, a riguardo, che – nel confronto fra Italia e Danimarca – pure a fronte della più alta spesa pubblica nel mercato del lavoro nel Paese scandinavo nel corso dell’ultimo decennio fra i Paese europei (il 2.6% del PIL a fronte dello 0.6 italiano nel 2007), non si sono registrate significative differenze nell’andamento della quota del reddito da lavoro dipendente sul PIL (il labour share), che ha fatto registrare un modesto aumento dello 0.01% in Danimarca[6]. A ciò va aggiunto che le pressioni inflazionistiche derivanti dall’erogazione monetaria di sussidi possono essere di entità diversa in ragione delle forme di mercato prevalenti nelle diverse aree geografiche e nei diversi settori produttivi. In particolare, e con riferimento al dualismo italiano, poiché le imprese meridionali operano in mercati più prossimi alla concorrenza rispetto alle imprese del Nord, vi è motivo di attendersi che un’estensione generalizzata degli ammortizzatori sociali accresca i prezzi dei prodotti del Nord più di quanto li accresca nel Mezzogiorno. Da ciò segue che i consumatori meridionali si troveranno ad acquistare beni dal Nord a prezzi più alti rispetto ai prezzi che le imprese meridionali potranno praticare, in ciò accentuando il dualismo territoriale[7]. Vi è di più. Se si ammette che l’erogazione di sussidi possa generare effetti inflazionistici, per l’aumento dei margini di profitto, il conflitto distributivo che può seguirne non attiene soltanto al danno generato ai percettori di redditi fissi, ma anche al sistema bancario, dal momento che i tassi di interesse in termini reali risulteranno anch’essi ridotti. Da ciò può seguirne un’ulteriore contrazione del credito, imputabile alla riduzione dei profitti bancari, e, dunque, un’ulteriore compressione della produzione, dell’occupazione e dei salari, configurando un circolo vizioso dal quale possono ottenere al più benefici di breve periodo le sole imprese, e in particolare le imprese di più grandi dimensioni che operano in mercati oligopolistici.
L’effetto ridistribuivo dei sussidi può essere controbilanciato o attenuato da un meccanismo collaterale. Gli economisti, quantomeno quelli poco attenti alla Storia della propria disciplina, hanno dedicato ben poca attenzione sugli effetti che le politiche fiscali espansive esercitano sulla produttività. E’ ben noto, da Adam Smith in poi, che la produttività del lavoro dipende in modo cruciale dalla divisione del lavoro all’interno dell’impresa, e che la divisione del lavoro è tanto più accentuata quanto maggiore è la domanda. La ratio di questa tesi sta nella convinzione secondo la quale l’aumento della domanda incentiva le imprese ad accrescere la produzione. Ciò può tradursi in un aumento dell’occupazione e/o in una maggiore specializzazione dei lavoratori occupati, la quale – a sua volta – si ottiene mediante una più accentuata frammentazione delle mansioni. Il nesso individuato da Smith presuppone che vi sia una tendenza spontanea, in economie di mercato deregolamentate, a mantenere elevata la domanda o a determinarne la costante crescita. Se ciò può riflettere il contesto storico nel quale l’economista scozzese elaborava queste tesi, rinviando l’aumento della domanda all’urbanizzazione e al miglioramento dei sistemi di trasporto (fenomeni tipici della prima rivoluzione industriale e della ‘nascita’ del capitalismo), è meno ragionevole ritenere che il capitalismo contemporaneo disponga di meccanismi endogeni tali da produrre spontaneamente incrementi di domanda. Ciò accade per due ragioni. In primo luogo, nessuna impresa ha convenienza ad accrescere i salari, essendo il salario, per la singola impresa, solo un costo di produzione. E tuttavia, per l’economia nel suo complesso, la compressione dei salari genera compressione dei consumi, della domanda aggregata e dell’occupazione. In secondo luogo, poiché gli investimenti – anch’essi componenti della domanda – dipendono in modo rilevante dalle aspettative imprenditoriali, non vi è nessun meccanismo automatico che assicuri una crescita permanente degli investimenti. Nella congiuntura attuale, è semmai vero che – data l’elevata incertezza – i progetti di investimento tendono a essere posticipati o non realizzati e che i salari, anche per effetto delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, tendono a ridursi.
Seguendo una prospettiva keynesiana, per l’obiettivo di tenere alta la domanda e l’occupazione, è necessaria una politica fiscale espansiva, sotto forma di maggiore spesa pubblica e/o di minore tassazione, soprattutto a beneficio dei percettori di redditi bassi. L’aumento della spesa pubblica, alla luce di quanto si è detto, può avere significativi effetti di accelerazione della produttività del lavoro. Poiché, infatti, le variazioni di quest’ultima sono in ultima istanza determinate dalle variazioni della domanda, l’aumento della spesa pubblica – nella misura in cui accresce la domanda aggregata – stimola le imprese ad accrescere la produzione oltre che attraverso maggiore occupazione, anche mediante la maggiore specializzazione del lavoro e, dunque, mediante una più accentuata divisione dello stesso. Va tuttavia sottolineato che questo meccanismo può agire sotto la condizione che le imprese possano accrescere il grado di divisione tecnica del lavoro, e ciò è possibile, di norma, quando le dimensioni aziendali sono sufficientemente grandi. Non è questo il caso italiano e, dunque, vi è motivo di ritenere che l’aumento della produttività, conseguente all’aumento della spesa pubblica, non riesca a controbilanciare l’aumento dei margini di profitto e, dunque, che i programmi di flexsecurity siano destinati a ridistribuire reddito a danno del lavoro dipendente.
Stando così le cose, è legittimo chiedersi se non sia più efficace una politica che sia indirizzata alla fornitura diretta di beni e servizi ai lavoratori, con assetti proprietari pubblici, e dunque con tariffe minime o con accesso gratuito. Evidentemente un indirizzo di questo tipo implica anche maggiore occupazione nei settori che producono beni pubblici, dando luogo a una condizione nella quale è lo Stato a svolgere la funzione di employer of last resort. Ed è qui che si può rintracciare l’aspetto sottaciuto dei programmi di flexsecurity. Propagandate come misure di protezione delle fasce deboli, e in particolare dei precari che perdono il posto di lavoro, esse assomigliano piuttosto a tentativi surrettizi di mantenere alta la domanda, chiedendo allo Stato di farsene carico, in una condizione nella quale ciò rischia di tradursi in un impoverimento dei medesimi soggetti che quei programmi dichiarano di voler tutelare.