La Germania, l’Italia e l’Europa

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Political and social notes

Pubblichiamo contestualmente un commento di Guido Montani all’articolo “E noi faremo come Schroeder” di Sergio Cesaratto ed una replica di quest’ultimo.

L’articolo di Sergio Cesaratto “E noi faremo come Schroeder” solleva importanti problemi per tutte le forze progressiste, non solo in Italia. Cesaratto sostiene che la crisi italiana è grave, che va collocata nella più generale crisi europea e che esistono tre exit strategies alternative: a) rompere l’euro; b) fare come la Germania; c) costruire l’Europa.

Della prima strategia Cesaratto non parla. Suppongo che la ritenga errata e, in questo caso, sono d’accordo con lui. Per quanto riguarda la seconda e la terza alternativa, non penso che debbano essere messe in contrapposizione, perché in un’Europa unita deve scomparire la distinzione tra paesi forti e deboli. Oggi, non è così. Se volessimo ricostruire le misure adottate dal Consiglio europeo in risposta alla crisi finanziaria che, nel 2008, si è estesa all’Europa potremmo dimostrare che le maggiori decisioni sono state prese in un prima fase dal direttorio franco-tedesco e, negli ultimi tempi, praticamente solo dalla Germania. Ora sembra che la Sig.ra Merkel, in cambio dell’aiuto tedesco all’EFSF, chieda che i paesi dell’UE includano il vincolo del bilancio in pareggio nelle loro costituzioni e che anche l’età pensionabile debba essere portata ovunque a 67 anni, come in Germania. La giustificazione è che i cittadini tedeschi non vogliono pagare per i paesi più spendaccioni, come la Grecia. Di fatto, il governo tedesco sta diventando il governo dell’UE. Se in futuro si procederà in questa direzione si costruirà un’Europa tedesca. Ma questa non è una buona soluzione per i cittadini europei.

La deriva intergovernativa dell’UE è il segno di un grave squilibrio istituzionale che i federalisti europei hanno denunciato sin dal 1992, quando con il Trattato di Maastricht si è creata un’Unione economica e monetaria zoppicante, perché si sono lasciate nelle mani dei governi nazionali la politica fiscale e la politica estera. E’ uno squilibrio grave che, di fatto, consente ai paesi grandi, con una buona amministrazione pubblica, come la Germania e la Francia, di reggere la sfida del mercato globale, ma che lascia i paesi minori (i PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), male amministrati o con problemi strutturali, in una situazione di debolezza. I PIIGS non possono godere i vantaggi che deriverebbero loro da un governo europeo con i poteri sufficienti per affrontare le forze politico-economiche della concorrenza mondiale. Se, ad esempio, si considera il problema degli approvvigionamenti energetici si può facilmente comprendere come i paesi maggiori dell’UE riescano a strappare alla Russia e ai paesi petroliferi delle condizioni più vantaggiose dei paesi piccoli. La concorrenza europea è dunque falsata da costi diversi delle materie prime. I paesi piccoli e deboli devono subire la concorrenza non solo del mercato globale ma anche dei paesi forti europei. Ben diversa sarebbe la situazione se un governo europeo contrattasse un prezzo unico coi paesi fornitori. La Commissione europea deve dunque avere il potere di agire sul mercato mondiale a nome dell’UE.

Al deficit di politica estera corrisponde un deficit di democrazia europea. Nelle politiche in cui sopravvive il diritto di veto nazionale, il Consiglio decide senza che il Parlamento europeo possa contrapporsi alle sue decisioni. Eppure il Parlamento europeo è stato eletto sin dal 1979 a suffragio universale. E’ il legittimo rappresentante dei cittadini europei. Perché la procedura di co-decisione legislativa tra Parlamento e Consiglio, adottata già nell’80% dei casi, non si può applicare anche ai settori della fiscalità e della politica estera? Perché i partiti presenti nel Parlamento europeo tollerano questa situazione umiliante per la democrazia e per i loro elettori? A che serve l’elezione europea?

Forse la crisi finanziaria ci offre l’occasione – se vogliamo sfruttarla – per fare un passo decisivo verso unificazione politica dell’Europa. La Germania ha buone ragioni per sostenere che alcuni vincoli di austerità devono oggi essere ripensati per evitare che la finanza internazionale metta in pericolo l’Unione monetaria. Ma l’austerità non basta. Senza la crescita economica l’austerità può uccidere i pazienti più deboli, al di là della buona volontà dei governi nazionali, come il caso greco sta dimostrando. La Commissione europea ha presentato un Piano di crescita, detto “EU 2020” in cui si prevedono investimenti nei settori della ricerca scientifica, delle energie rinnovabili, dell’istruzione, delle infrastrutture, della lotta alla povertà, ecc. Ma senza risorse finanziarie proprie (oggi il bilancio europeo è pari all’1% del PIL) è come proporre le nozze coi fichi secchi. Questo piano, se affidato alla buona volontà dei governi nazionali, finirà per fallire, com’è fallita la Strategia di Lisbona. La politica economica – in particolare la lotta alla povertà e alla disoccupazione – richiede risorse finanziarie adeguate. Il Parlamento europeo e la Commissione devono poter contare su un bilancio almeno pari al 3,5-4,5% del PIL. E’ dunque venuto il momento di realizzare l’Unione economica a fianco dell’Unione monetaria (in proposito, rinvio al mio “Piano E”).

Su questo fronte, l’Italia può svolgere un ruolo cruciale. Nelle trattative europee non deve presentarsi come paese deficitario, ma con l’orgoglio di chi ha un serio progetto per costruire una nuova Europa. Questo orgoglio non lo possiede certamente l’attuale governo. I partiti progressisti devono proporre un Governo per un’Italia europea, il cui programma deve contenere un Piano di crescita europeo (dunque non solo italiano) dentro il quale siano previste anche misure serie da parte dell’Italia e di tutti gli altri paese nella medesima condizione (Belgio, Grecia, Irlanda) per la riduzione del debito pubblico. Austerità e crescita non sono incompatibili, se concepite come un’unica strategia europea. Il debito pubblico indebolisce l’Italia nelle trattative europee e offre alla finanza internazionale il destro per un attacco speculativo: in caso di default o di ristrutturazione del debito anche i piccoli risparmiatori sarebbero colpiti. Il debito pubblico italiano va dunque ridotto sino a raggiungere una zona di tranquillità. E’ vero che non esistono criteri teorici condivisi per stabilire quando un debito pubblico diventa sostenibile o insostenibile, ma questi criteri esistono nella prassi e sono stati resi espliciti dagli attacchi della speculazione finanziaria a paesi come la Spagna e l’Irlanda che pure rispettavano i parametri di Maastricht.

Sebbene esistano problemi italiani gravi, i partiti progressisti si devono sin da ora preparare ad affrontare con proposte coraggiose le prossime elezioni europee del 2014. Si deve sfruttare la crisi italiana per cominciare a tessere la tela europea. Il progetto di Unione monetaria è stato sostenuto da un ampio fronte di forze produttive e sindacali nella speranza che fosse un passo decisivo verso l’Unione politica. Non è stato così. Il Trattato di Maastricht ha tradito queste speranze: solo il pilastro monetario è stato creato. Manca il pilastro fiscale ed economico. Oggi le forze che intendono costruire un’Europa dei cittadini, con un governo democratico, dotato dei mezzi necessari per agire sul fronte dell’economia, dell’ecologia e della politica estera, devono cogliere l’occasione per elaborare una exit strategy dalla crisi che coinvolga tutti i partiti progressisti d’Europa.

 

*Professore di Politica economica internazionale nell’Università di Pavia e vicepresidente dell’Unione Europea dei Federalisti.

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