La prima manovra economica a sovranità limitata

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Political and social notes

Il Governo italiano ha varato il disegno di legge di Stabilità 2013 contenente gli interventi di finanza pubblica per il triennio 2014-2016. Prima di analizzare sommariamente le linee essenziali del documento, è importante ricordare che per la prima volta, dalla nascita dell’Europa di Maastricht, lo stesso sarà prima vagliato dalla Commissione europea, che potrà imporre correttivi e comminare sanzioni in caso di inadempienza, e poi discusso ed approvato dal Parlamento.

Con l’entrata in vigore del cosiddetto “two-pack”, il pacchetto di due regolamenti approvato dal parlamento di Strasburgo nel maggio scorso, si è infatti chiuso il cerchio in tema di “sorveglianza” europea sui bilanci dei paesi dell’Eurozona, con tutto quello che ciò comporta per la “sovranità” e l’autonomia politica degli stessi.

E’ del tutto evidente che dentro un meccanismo così congegnato la funzione dei parlamenti nazionali è quasi del tutto esautorata: quali margini di manovra avranno le forze politiche parlamentari per modificare l’impianto e la filosofia del documento di che trattasi se alla Commissione europea è stato riconosciuto un sostanziale diritto di veto sui bilanci nazionali? Un margine pari a zero, evidentemente.

Non andiamo lontano, allora, se affermiamo che la discussione che si svilupperà prossimamente in parlamento sul testo licenziato dall’esecutivo sarà né più né meno che una finzione, stante l’impossibilità di concepire ed approvare modifiche strutturali dello stesso, che potrebbero far deviare il nostro paese dal binario dei criteri di convergenza attualmente in vigore nell’area Euro, a cominciare da quello più famigerato: la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e Pil.

Certo, non tagliare il fondo sanitario nazionale è qualcosa che ha la sua importanza. E’ una scelta. Così come è una scelta intervenire sul cuneo fiscale o sulla contrattazione nel pubblico impiego: gli stessi saldi della manovra potrebbero essere garantiti da altri interventi, da altre scelte. Ma il problema non è questo. Esso risiede nell’accezione che le leggi di stabilità hanno assunto nel quadro della disciplina di bilancio europea. Esse, a differenza che nel passato, sono in primo luogo manovre contabili atte a correggere l’andamento dei conti pubblici, e solo secondariamente strumenti attraverso cui incidere sui processi economici e sociali.

E’ facile giungere a questa conclusione, basta leggere cosa c’è scritto nei regolamenti che hanno introdotto il regime della sorveglianza europea sui bilanci degli stati membri dell’Eurozona. Alla base di questi documenti c’è una vero e proprio chiodo fisso: il rispetto fideistico dei vincoli imposti dal patto di bilancio e la prevenzione di eventuali fattori di instabilità finanziaria che potrebbero contagiare l’intera area Euro. Un’ossessione, potremmo dire, da cui discendono in linea diretta demonizzazione della spesa pubblica a prescindere e politiche di austerità.

Torniamo alla legge di stabilità appena varata. Senza entrare nel dettaglio degli interventi in essa previsti, la prima cosa che balza agli occhi è la sua totale inadeguatezza rispetto agli obiettivi che vengono (incautamente) sbandierati. Non solo. Alcune delle misure in essa previste potrebbero avere un effetto esattamente opposto a quello atteso. Prendiamo il caso della riduzione del cuneo fiscale, stimata in 5 miliardi per il 2014. Il beneficio in busta paga per un lavoratore dipendente inferiore a 200 euro in un anno. Ora, chi è quel pazzo che può definire una simile misura utile a far ripartire i consumi nel nostro paese? Non dimentichiamo che la stessa arriva dopo un biennio in cui le politiche di rigore hanno letteralmente stremato il sistema produttivo, fatto lievitare a dismisura il carico fiscale e calare vistosamente il livello della domanda interna.

In questo quadro risulta altrettanto risibile la previsione di una riduzione della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni, come è stato fatto osservare, giustamente, dalle stesse associazioni degli imprenditori, a maggior ragione se si considera che l’Iva è appena passata dal 21 al 22%. Che dire poi del congelamento dei contratti, del blocco del turn over e degli straordinari nel pubblico impiego? Misure che potranno avere una sola conseguenza: sterilizzare totalmente gli effetti sulla domanda degli altri interventi previsti sul versante del costo del lavoro e della fiscalità. Di cosa parliamo allora? Di una manovra contabile che, quantunque ci consentisse di soddisfare gli impegni europei (Tutto dipenderà dalla conferma delle stime sulla crescita del Pil nel 2014), certamente non contribuirà ad aggredire i veri problemi che il nostro paese ha in questo momento. Dopo otto trimestri consecutivi di decrescita e un tasso di disoccupazione che ha superato il 12%, con quella giovanile sopra il 40%, dire, come ha fatto il Ministro Saccomanni, che questa manovra «rafforza il potenziale di crescita economica e dà nuovo stimolo alla ripresa» è davvero troppo.

Ben altre risorse andrebbero liberate per dare una spinta alla nostra economia, rilanciare i consumi e l’occupazione. Dovremmo avere nei prossimi anni tassi di crescita intorno al 4% e non allo zero, come prevedono le stime, pur generose, a nostra disposizione. Ma qui, come nel gioco dell’oca, torniamo alla casella di partenza: può il nostro paese immaginare una crescita di quelle dimensioni avendo l’occhio fisso sul deficit mentre l’economia vive una fase di recessione prolungata? E ancora: è possibile ragionare su un’ipotesi di fuoriuscita dalla gabbia dell’austerità dopo aver ceduto a Bruxelles l’ultima briciola di sovranità in tema di bilancio statale con l’accettazione della clausola di sorveglianza prevista dagli ultimi regolamenti approvati? Le domande potrebbero apparire capziose, ma, a ben vedere, rimandano a problemi reali.

Perché in Europa c’è un problema di risorse insufficienti, e c’è un problema di democrazia. La linea dell’austerità, combinata con l’esautoramento della democrazia, sta arrecando danni gravissimi alle nostre società, dove crescono disagio sociale e sfiducia nelle istituzioni. Gli unici che finora sembrano guadagnarci da questa situazione sono, su un versante, banche e speculatori, sull’altro versante populisti e demagoghi di ogni risma. Possiamo continuare così?

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