Gli effetti della brexit e gli scenari alternativi | Conseguenze Brexit

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Brexit effects might propagate through EU production network and lead to losses for many EU member states. On the other side of the channel, Britain has the chance to reverse losses by implementing import substitution policies.

Conseguenze Brexit | Esistono diverse stime degli effetti della Brexit, ma tutte trascurano un elemento fondamentale: l’integrazione delle nostre economie nelle catene globali del valore. Tenendone conto, gli effetti saranno molto negativi anche per i Paesi europei.

La decisione presa quasi tre anni fa, e non ancora metabolizzata dall’establishment britannico, è sembrata fin da subito irrazionale e pericolosa. Secondo la visione dominante nel dibattito economico l’appartenenza ad un mercato unico con libera circolazione di beni, persone e capitale, è una opportunità irrinunciabile per il raggiungimento di uno stabile benessere economico (Campos et al., 2018; UK Treasury, 2016). Dunque, il voto a favore della Brexit è apparso come un evento del tutto ingiustificato ed imprevedibile (Jennings and Fisher, 2016). Eppure qualche segnale premonitore c’era stato. A dire il vero ben prima del sorprendente esito del referendum diversi studiosi si erano interrogati sull’effettiva capacità del progetto europeo di innescare meccanismi di convergenza tra le economie dei paesi membri (Bayoumi and Eichengreen, 1992; Buiter et al., 1993; Graziani, 2002; Brancaccio, 2008; AA.VV., 2013). In particolare, nello spiegare la crisi europea numerosi economisti hanno sottolineato l’imponente e incessante ampiamento degli squilibri commerciali verificatosi tra i paesi membri dell’Unione negli anni seguenti la costituzione del mercato unico e soprattutto a seguito dell’introduzione della moneta unica (Arestis and Sawyer 2011; Bellofiore and Halevi 2011; Brancaccio, 2012; Cesaratto and Stirati 2011; Parguez 2011; Pianta, 2014; Realfonzo e Viscione, 2014). In effetti, gran parte di questa letteratura riguarda proprio l’eurozona e forse questo è il motivo per cui, fatte salve alcune eccezioni, nel dibattito post Brexit ha trovato poco spazio la questione inerente gli squilibri commerciali che il Regno Unito ha ininterrottamente accumulato negli ultimi decenni verso l’Europa. Eppure, come fanno notare Realfonzo e Viscione, la sovranità monetaria e il cambio flessibile di cui si gode oltre manica, non sono bastati al Regno Unito per mettersi al riparo da una dinamica dai caratteri strutturali che ha contribuito alla deindustrializzazione e finanziarizzazione del sistema produttivo e commerciale britannico (Coutts e Rowthorn, 2013). Come mostrano le figure 1 e 2, nel corso degli ultimi decenni il Regno Unito ha accumulato un crescente deficit commerciale con i paesi europei, soprattutto in manifattura, che è stato solo parzialmente bilanciato da un surplus in servizi, soprattutto finanziari, verso i paesi extra europei.   Già ad inizio millennio, Thirlwall (2001) ammoniva sulla pervasività di questo processo che, se non arginato avrebbe potuto offrire terreno fertile per la germinazione di sentimenti di rancore verso i paesi e le istituzioni d’oltre manica. Oggi queste osservazioni trovano conforto empirico negli studi che, all’indomani del referendum, si sono affannati alla ricerca di una spiegazione al voto pro-Brexit. Stando ai risultati ottenuti da uno dei principali gruppi di ricerca che si sono occupati delle cause e conseguenze della Brexit, le avverse relazioni commerciali con l’Europa avrebbero contribuito a diffondere un sentimento di intolleranza verso il mercato unico e le istituzioni europee (Los et al. 2017), e di rigetto della globalizzazione (Colantone e Stanig, 2018; Rodrik, 2018).

Figura 1. Esportazioni nette Regno Unito dal 2000 al 2014 (milioni di dollari). Fonte: Giammetti (2019).

In particolare, guardando alla distribuzione territoriale dei risultati del referendum si scopre che i voti per lasciare l’Europa sono arrivati principalmente dalle regioni guidate dal comparto manifatturiero e caratterizzate da elevata interdipendenza economica con i mercati europei (Los et al. 2017; Becker et al. 2017); viceversa, i voti per rimanere in Europa sono arrivati principalmente dalle regioni che più hanno beneficiato dalla globalizzazione e che dipendono meno dai mercati europei (Springford et al. 2016).

 

Figura 2. Saldi settoriali Regno Unito tra il 2000 e il 2014 (milioni di dollari).

Legenda: A- Agriculture and Fishing, B- Mining, C- Manufacturing, D-E- Electricity, Gas and Water Supply, F- Construction, G- Wholesale Trade, H- Transportation, I- Accommodation and Food Services, J- ICT Services, K- Finance and Insurance Services, L-Real Estate activities, M- Scientific Activities, N- Administrative Services, O-U- Public and Other Services. Fonte: Giammetti (2019).

Da questi risultati, e dall’analisi della bilancia commerciale del Regno Unito, sono originate due interpretazioni differenti sulle possibili conseguenze della Brexit. Da un lato, la letteratura più diffusa ha enfatizzato l’elevata esposizione commerciale del Regno Unito verso le merci europee per sostenere la sua dipendenza dal mercato unico. Dunque, seppur con stime differenti, il risultato comune cui giungono questi studi è che la Brexit avrà un impatto economico negativo che graverà quasi interamente sul Regno Unito (UK Treasury, 2016; OECD, 2016; Dhingra et al., 2017). D’altra parte, alcuni economisti hanno invece giudicato la Brexit come un possibile assist per riequilibrare il conto delle partite correnti (Bickerton et al., 2018; Skidelsky, 2016). Stando a questa interpretazione il ripristino delle barriere commerciali e del controllo delle merci, unito ad un massiccio piano di investimenti industriali potrebbero rivelarsi utili per difendere e rilanciare la manifattura britannica e invertire il processo di deindustrializzazione. In un tale scenario gli effetti economici della Brexit per il Regno Unito sarebbero pressoché irrilevanti nel breve periodo, e addirittura positivi nel lungo.

A ben vedere, le opposte conclusioni cui giungono le due correnti di pensiero sono accumunate dal fatto che entrambe derivano da una lettura parziale e incompleta degli scambi commerciali. Ad oggi infatti, le analisi empiriche e teoriche sulle conseguenze economiche della Brexit non tengono conto del grado di integrazione e frammentazione dei processi produttivi e del commercio indiretto che avviene mediante paesi ‘terzi’. Ad esempio, i principali studi emersi sinora, quando stimano la perdita che l’Europa potrebbe subire a seguito di una minore domanda nel Regno Unito di auto tedesche, non considerano la provenienza degli input necessari per produrre un’automobile in Germania, e dunque non contemplano l’impatto indiretto che la Brexit potrebbe avere sull’industria metallurgica italiana, sul settore del vetro francese e così via. Questo aspetto è cruciale poiché il Regno Unito è coinvolto in lunghe e complesse catene globali del valore (Gallegati et al., 2019) e scambia con l’Europa e il resto del mondo principalmente prodotti intermedi (Giammetti, 2019). Pertanto una stima completa degli effetti economici diretti e indiretti della Brexit non può prescindere dallo studio delle relazioni di input e output tra Regno Unito e paesi europei.

Introducendo in un modello inter-paese e multisettoriale le catene globali del valore e gli effetti indiretti della Brexit si ottengono stime che divergono con i risultati della letteratura prevalente. La figura 3 mostra i risultati di un articolo di prossima pubblicazione (Giammetti, 2019) in cui si evince che le barriere commerciali che potrebbero ergersi a seguito dell’uscita del Regno Unito dal mercato unico, sarebbero rischiose e costose non solo per il Regno Unito ma anche per molti paesi dell’UE. In uno scenario di soft Brexit in cui, così come in Norvegia, il commercio con i paesi europei sarebbe limitato da sole barriere non tariffarie, il Regno Unito rischierebbe di subire una perdita in valore aggiunto (LiVA) pari a circa 36 miliardi di dollari, ovvero l’1,35 percento del Pil. Dall’altra parte del canale, le cose però non sembrano così diverse. Irlanda, Belgio, Olanda e Germania, paesi fortemente interconnessi nei processi produttivi e commerciali con il Regno Unito, rischierebbero di perdere tra lo 0,5 e lo 0,6 percento dei rispettivi Pil. L’Europa nel suo complesso subirebbe una perdita in valore assoluto addirittura superiore a quella del Regno Unito. In uno scenario di hard Brexit, ovvero in mancanza di un accordo con l’Europa che condurrebbe all’instaurazione di barriere doganali e tariffarie, le perdite sarebbero maggiori per entrambe le macro regioni.

La stima delle perdite che il Regno Unito dovrebbe affrontare nei due scenari sono del tutto in linea con la letteratura principale. Tuttavia l’aggiunta nel modello delle catene globali del valore e del commercio indiretto, porta a delle conclusioni molto diverse rispetto alle possibili perdite che l’Europa sarebbe chiamata ad affrontare. Perdite, che sarebbero di gran lunga superiori rispetto a quanto emerso finora. In ogni caso, negli scenari appena considerati, così come in tutti gli studi empirici sulle conseguenze economiche della Brexit, si ipotizza che l’uscita del Regno Unito dal mercato unico colga impreparati sia i governanti e le imprese britanniche che i governi e le imprese d’oltre manica. Per usare una parola cara al gergo dell’economia, potremmo dire che in questo modello la Brexit ha tutti i connotati di uno shock idiosincratico in cui l’istituzione di barriere commerciali scoraggerebbe gli scambi tra Regno Unito ed Europa, producendo un generale calo della produzione e del commercio diretto e indiretto.

Figura 3. Brexit come shock idiosincratico. Perdite in Valore-Aggiunto (LiVA) negli scenari di soft e hard Brexit.

Nota: le barre blu indicano perdite assolute mentre i cerchi rossi corrispondono alle perdite percentuali. Fonte: Giammetti (2019).

Se però ipotizziamo che l’uscita del Regno Unito dall’Europa venga accompagnata da un’azione pianificata con l’obiettivo di sostituire le importazioni di beni intermedi e finali con input e merci domestiche e di divergere parte degli scambi commerciali verso paesi terzi, i risultati sarebbero molto diversi. Come mostrato dalla figura 4, l’implementazione pianificata di politiche commerciali protezionistiche, avrebbe l’effetto di ribaltare il consenso prevalente sull’attribuzione delle perdite post-Brexit tra Regno Unito ed Europa. Germania, Irlanda, Francia e l’Europa nel suo complesso si troverebbero a fronteggiare il maggior costo della Brexit in entrambi gli scenari. Il Regno Unito, invece, subirebbe una perdita irrisoria in caso di soft Brexit e addirittura potrebbe trarre vantaggio da uno scenario di hard Brexit.

Figura 4. Gli effetti della pianificazione: sostituzione delle importazioni e diversione degli scambi. Perdite in Valore-Aggiunto (LiVA) negli scenari di soft e hard Brexit.

Nota: le barre blu indicano perdite assolute mentre i cerchi rossi corrispondono alle perdite percentuali. Fonte: Giammetti (2019).

Riassumendo, dai risultati emersi nei due modelli sopra esposti possiamo trarre due indicazioni principali. In primo luogo i risultati suggeriscono che, considerata l’elevata integrazione dei processi produttivi tra Regno Unito ed Europa, qualsiasi tipo di Brexit impatterà non solo sul Regno Unito ma anche su diverse economie europee. In secondo luogo, le analisi condotte ci dicono che questo impatto può essere limitato con alcune contromisure: stipulando un accordo commerciale tra Regno Unito ed Europa (soft Brexit); oppure pianificando un mix di politiche industriali e commerciali a sostegno dei rispettivi mercati interni. L’incertezza regnante sulle future opzioni post-Brexit lascia tuttavia la porta aperta al peggior scenario possibile: un no-deal sulle relazioni Regno Unito-Europa accompagnato dalla pericolosa mancanza di un piano a sostegno delle economie interne.

 

*Postdoctoral Researcher Università Politecnica delle Marche

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