Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato

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L’opinione della Commissione Europea, secondo cui l’euro e le politiche di austerità avrebbero favorito una crescita equilibrata in Europa, è smentita dai fatti. Al contrario, dopo la crisi del 2007 i processi di divergenza tra le economie europee sono diventati sempre più impetuosi e il costo economico e sociale della permanenza nell’euro aumenta ogni giorno di più per i Paesi periferici. Di questo passo – come previsto dal “monito degli economisti” pubblicato dal
Financial Times – la fine della moneta unica porterà al fallimento del progetto di unificazione europea. E nonostante ciò, la Germania e i suoi Paesi satellite non sembrano avere alcuna intenzione di fermare il conto alla rovescia dell’euro.

L’Unione monetaria europea sta accelerando la corsa verso la deflagrazione. Con la crisi intervenuta sul finire del 2007, l’eurozona non è più cresciuta e i processi di divergenza tra le aree centrali e quelle periferiche si sono intensificati, divenendo quasi irresistibili. La tesi della Commissione Europea – secondo cui la moneta unica e l’integrazione commerciale, combinate con le politiche di austerità e la flessibilità del mercato del lavoro, aumenterebbero la coesione tra i Paesi Europei – ha perso ogni credibilità.[1] È ormai evidente che, continuando con le politiche attuali, e con l’impossibilità di compensare gli squilibri macroeconomici mediante le svalutazioni, l’esplosione dell’euro è solo una questione di tempo, come se avessimo da tempo innescato una bomba a orologeria. E nessuno potrà dire che – a dispetto delle previsioni ottimistiche della Commissione Europea – il disastro non fosse ampiamente annunciato. Basti pensare alla Lettera contro le politiche di austerità del 2010, promossa in Italia da circa 400 studiosi, e al Monito degli economisti, pubblicato da autorevoli economisti mondiali sul Financial Times nel settembre 2013. Questi documenti chiarirono che senza una svolta espansiva e coordinata delle politiche fiscali e monetarie, di cui ancora oggi non c’è traccia all’orizzonte, l’eurozona non sarebbe uscita dalla crisi e soprattutto si sarebbero acuiti i processi di divergenza tra Paesi centrali e periferici in termini di crescita del pil pro capite e risultati occupazionali. In assenza di meccanismi di contrasto efficaci, i processi di divergenza spontanea conseguenti alla maggiore integrazione commerciale avrebbero finito per compromettere la tenuta dell’euro[2].

A ben vedere, la tendenza all’accentuarsi del dualismo tra centri e periferie in Europa non è un dato recente. L’analisi relativa alla crescita della produzione per cittadino mostra che il processo di unificazione monetaria anziché aumentare la convergenza territoriale ha accentuato l’entropia europea. Infatti, sin dal 1990 aumenta sempre più la differenza tra i ritmi di crescita all’interno dell’eurozona, come mostra l’analisi del coefficiente di variazione che è un indicatore elementare di disomogeneità nelle performance macroeconomiche (Grafico 1).

 

Grafico 1

Differenza tra i tassi di crescita nell’eurozona – Coefficiente di variazione del tasso di crescita del pil pro capite[3]  EMU 12 (anni 1990-2013)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea

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Anche la differenza (range) tra i valori massimi e minimi dei tassi di crescita del pil pro capite, registrati anno dopo anno nell’eurozona, tende ad aumentare moltissimo (fatto pari a 100 il tasso di crescita medio dell’eurozona in ciascun anno, infatti, il range è passato da 118,21 del 1990 a 150,94 del 2013). Al tempo stesso, si osserva che il pil pro capite dei paesi centrali di Europa è oggi mediamente del 50% maggiore rispetto al valore medio dei paesi periferici: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna (i cosiddetti PIIGS).

Ma è con lo scoppio della crisi – con l’inadeguatezza delle politiche monetarie e fiscali europee, e in particolare con il totale insuccesso delle politiche di coesione – che i processi di divergenza si accentuano sempre più, con alcuni paesi che “tengono” ed altri che sprofondano nella recessione.

La drammatica accelerazione del processo di implosione dell’eurozona è confermata da tutti i dati ufficiali. Per cominciare, il valore della produzione di beni e servizi tende a divaricarsi rapidamente, ancora più di prima. Mentre i Paesi centrali, Germania in testa, hanno visto crescere lievemente il pil rispetto al 2007, le economie periferiche sono rapidamente decresciute. Dopo il 2007-2008 aumentano drammaticamente i differenziali di crescita. E ad esempio, tra la Germania e l’Italia si sono cumulati in  pochi anni circa 12 punti di differenza nell’andamento del pil[4] (Grafico 2).

 

Grafico 2

Il pil nell’eurozona. Dati a prezzi costanti 2007=100 (anni 2007-2013)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea

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L’impetuosa tendenza alla divaricazione tra i Paesi dell’eurozona risulta ancora più allarmante consultando i dati relativi al mercato del lavoro, in primo luogo i tassi di disoccupazione (Grafico 3). Anche in questo caso si è passati da una differenza che nel 2007 si limitava generalmente a 2-3 punti, ad oltre 20 punti di differenza agli estremi, con alcuni Paesi che hanno ridotto la disoccupazione (in primo luogo, la Germania) ed altri che l’hanno raddoppiata (Italia) o addirittura più che triplicata (Grecia, Spagna).

 

Grafico 3

Tassi di disoccupazione nell’eurozona (anni 2007-2013)

Fonte: Ameco – Commissione Europea

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A ben vedere, la crescita esponenziale della disoccupazione osservata dopo lo scoppio della crisi, oltre 7,5 milioni di disoccupati in più rispetto al 2007, si concentra principalmente nei Paesi periferici (Grafico 4). Infatti, nel periodo dal 2007 al 2013 il tasso di disoccupazione è poco meno che triplicato nei PIIGS, passando mediamente dal 7,3% al 19%. Nel frattempo, la crescita della disoccupazione negli altri Paesi della Unione Monetaria a 12 è risultata contenuta, aumentando meno di un punto percentuale (dal 6,2% al 7,1%). Gli indicatori concernenti la divergenza occupazionale nell’eurozona mostrano una smisurata crescita dei differenziali di performance delle economie dell’eurozona[5].

 

Grafico 4

Tassi di disoccupazione nei PIIGS e negli altri paesi dell’UME a 12 (anni 2007-2013)

Fonte: nostra elaborazione su dati Ameco – Commissione Europea

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Inoltre, a dispetto del fatto che i tagli della spesa pubblica e gli aumenti della pressione fiscale fossero particolarmente intensi nei paesi periferici, che risultavano generalmente più lontani dai valori target di deficit e debito pubblico assunti dall’Unione, la forbice tra i PIIGS e gli altri si allarga anche con riferimento alla finanza pubblica. Basti prestare attenzione al rapporto tra debito pubblico e pil. Non c’è dubbio che questo rapporto di finanza pubblica sia generalmente cresciuto in tutta l’eurozona, tuttavia mentre nei paesi centrali si assistito ad un incremento medio di 20 punti, nei PIIGS il peso del debito è mediamente raddoppiato, passando da valori medi intorno al 65% del pil a valori intorno al 130% del pil (Grafico 5)[6].

 

Grafico 5

Andamento del rapporto debito pubblico/pil nell’eurozona (anni 2007-2013)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea

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Ma in questo quadro non è solo la condizione della finanza pubblica a peggiorare. Anzi, in buona misura, l’andamento della finanza pubblica riflette il peggioramento delle condizioni di quella privata, cominciando dalle imprese. Ed anche qui assistiamo all’approfondirsi di una divaricazione drammatica, tra la tenuta dei conti delle imprese operanti nei Paesi periferici e quelle delle aree più sviluppate. Le insolvenze delle imprese crescono, infatti, in tutta l’eurozona dopo la crisi; ma l’impennata cui si assiste nei PIIGS, nei quali le insolvenze in media sono quasi quadruplicate, è senza precedenti storici (Grafico 6).

 

Grafico 6

Insolvenze delle imprese nell’eurozona 2007=100 (anni 2007-2013)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Creditreform, “Corporate Insolvencies in Europe”

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Come se tutto ciò non bastasse, l’accelerazione della divergenza tra Paesi centrali ed aree periferiche diviene socialmente ancora più insostenibile alla luce dei dati relativi alla distribuzione dei redditi. Come mostrano  i dati della stessa Commissione Europea sulla distribuzione funzionale dei redditi, dal 1990 al 2013 si è assistito a una riduzione progressiva della quota salari sul pil, calata mediamente del 3%[7]. Sotto molti aspetti, sembrano essere questi gli unici risultati delle politiche di riduzione della protezione del lavoro implementate nell’eurozona al fine di aumentare la flessibilità del mercato. Come mostrano ormai molteplici analisi, infatti, queste politiche non hanno contribuito ad incrementare l’occupazione e la crescita europea[8]. A ciò va aggiunto che nei Paesi periferici la disuguaglianza nella distribuzione personale dei redditi risulta molto più accentuata rispetto alla Germania e agli altri Paesi avanzati. Basti considerare che l’indice di Gini, che misura la disuguaglianza nella distribuzione personale dei redditi, è significativamente più elevato (di ben 6 punti) nei PIIGS rispetto ai Paesi centrali. Si tratta di un dato che risente evidentemente anche della insufficiente dotazione di ammortizzatori sociali in presenza di elevati tassi di disoccupazione, e ciò contribuisce a rendere la condizione sociale di questi Paesi tanto più esplosiva.

Quindi è del tutto evidente che siamo di fronte a un clamoroso fallimento delle tesi sulla convergenza esposte dalla Commissione Europea, secondo le quali il rispetto dei famosi parametri di Maastricht e in generale dei Trattati Europei, combinati con l’unificazione monetaria e le politiche di austerità, avrebbero aumentato la coesione tra i Paesi. Piuttosto, si sta verificando esattamente il contrario e l’accelerazione dei processi di divergenza sta incrementando ogni giorno di più il costo sociale ed economico dell’adesione all’euro per i Paesi periferici. Risulta ormai evidente che per avviare un vero processo di convergenza e riattivare una crescita bilanciata, l’eurozona avrebbe dovuto ridiscutere i Trattati e dotarsi di “meccanismi d’assicurazione pubblica” che agissero da stabilizzatori automatici[9]. Ciò significa, in primo luogo, politiche fiscali e monetarie coordinate, espansive e incisivamente redistributive sul piano territoriale.

Eppure, a dispetto della minaccia incombente di implosione dell’eurozona, con le conseguenze gravi che ciò determinerebbe, non sembra esserci alcuna disponibilità da parte della Germania e dei Paesi che le gravitano intorno nel rivedere i Trattati e le politiche europee. Insomma, nessuno sembra muoversi concretamente per fermare il conto alla rovescia dell’euro. E diventa ogni giorno più arduo sperare in un cambiamento radicale delle politiche economiche europee che disinneschi l’ordigno.

 

[1] È la famosa tesi esposta dalla Commissione sin dal 1990, in One Market, One Money, in “European Economy, 44”. Ulteriori riferimenti si trovano ad esempio in European Commission (2008) EMU@10: Successes and Challenges after 10 years of Economic and Monetary Union (in “European Economy”, 2, p. 292) ed anche nella recentissima Relazione 2015 sul meccanismo di allerta (28 novembre 2014).
[2] Si tratta della divergenza indotta dai processi di causazione circolare e cumulativa descritti da maestri del pensiero economico come Myrdal e Kaldor, e successivamente rielaborati anche da Krugman. I riferimenti classici sono ai famosi libri di G. Myrdal, Economic Theory and Underdeveloped Regions (New York, Duckworth, 1957), e N. Kaldor The Causes of the Slow Growth of the United Kingdom (Cambridge, Cambridge University Press, 1966). Per quanto riguarda P. Krugman, il primo riferimento di rilievo è al volume Geography and Trade (Cambridge Mass., Mit Press, 1991).
[3] Il tasso di crescita del pil pro capite è la grandezza oggetto di comparazione nei cosiddetti test di convergenza, utilizzati per esaminare a livello scientifico questi processi. Il coefficiente di variazione è una misura semplice della divergenza, calcolato come il rapporto tra lo scarto quadratico medio e il valore assoluto della media.
[4] Infatti, l’Italia è decresciuta rispetto al 2007 di circa 9 punti, mentre la Germania è cresciuta di poco più di 3 punti. Rispetto al 2007 il pil greco si è ridotto di 26 punti, quello spagnolo di 6 punti, mentre il pil francese è aumentato meno di 2 punti. Mediamente il pil dei Paesi dell’Unione Monetaria a 12 si è ridotto di poco meno di 2 punti.
[5] Come conferma il fatto che il coefficiente di variazione del tasso di disoccupazione nell’EMU a 12 schizza dal valore già ampio di 0,29 del 2007 a quasi 0,65 del 2013
[6] Particolarmente significativo nell’evidenziare il fallimento delle politiche di austerità, anche ai fini del “risanamento” della finanza pubblica, è il caso dell’Italia. L’Italia, infatti, è il Paese dell’Unione Monetaria che detiene il record di avanzi primari (gli eccessi delle entrate fiscali sulla spesa pubblica, con esclusione degli interessi sul debito). Dal 1990 al 2013 le manovre di finanza pubblica italiane hanno infatti determinato tutti gli anni un avanzo primario (con la sola eccezione del 2009) e nonostante ciò il rapporto tra debito pubblico e pil è aumentato dal 91,6% del 1990 al 127,9% del 2013 (dati Ameco – Commissione Europea). Il record degli avanzi primari e la rispondenza delle politiche economiche italiane allo spirito dei Trattati europei sono stati recentemente sottolineati dal governo italiano.
[7] L’adjusted wage share – la quota del pil che va ai percettori di reddito da lavoro – è infatti scesa dal 59,6% del pil del 1990 al 56,5% del 2013. Questi dati medi coincidono sostanzialmente con quelli della Germania (dove la quota salari si è ridotta dal 59,6 del 1990 al 56,7 del 2013). Altri Paesi, come ad esempio l’Italia, hanno conosciuto una redistribuzione più marcata dai salari ai profitti e alle rendite. Infatti, in Italia la quota salari si è ridotta dal 58,4% del 1990 al 53,8% del 2013.
[8] A riguardo, soprattutto per ciò che attiene il caso italiano, si rinvia all’analisi contenuta in “Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine” di Riccardo Realfonzo e Guido Tortorella Esposito.
[9] Sul punto ad esempio si rinvia a W. Godley (1992), Maastricht and All That, London Review of Books, Vol.14, No. 19

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