Regionalismo differenziato: disarticolazione dello Stato e lesione del principio di uguaglianza

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Autonomy of regions is a danger for Italy: it would end up withdrawing the State from strategic sectors for the national economic system with negative consequences on the competitiveness of the whole country.

Regionalismo differenziato | Autonomia Regioni | Il Regionalismo differenziato è un pericolo per l’Italia intera: finirebbe per far ritirare lo Stato da settori strategici per il sistema economico nazionale con gravi conseguenze sulla competitività di tutto il Paese.

 1.La differenziazione dei poteri regionali nella modifica costituzionale del 2001.

In questi mesi si sta sviluppando un acceso dibattito sul regionalismo differenziato cioè in merito all’attuazione dell’art. 116, III comma, Cost., il quale prevede che le regioni possano ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia» in una serie di materie, tra cui quelle che rappresentano il cuore dello stato sociale, come sanità e istruzione.

Si tratta di una disposizione che non era contenuta nel testo originario della Costituzione del 1948 ma che è stata inserita in Costituzione nel 2001, senza neppure un adeguato dibattito[1], nell’ambito della maldestra riscrittura del Titolo V, che ci ha consegnato un assetto dei poteri locali che è diventato un vero e proprio «caos»[2], cui solo una saggia ed opportuna giurisprudenza della Corte costituzionale ha messo, in qualche modo, argine.

La politica, sia di centro-destra che di centro-sinistra, ha più volte cercato di correggere il titolo V del 2001: oltre a varie proposte governative e parlamentari, due sono stati i disegni di legge che sono confluiti in due proposte approvate dal parlamento che avevano l’obiettivo di revisionare complessivamente la Costituzione. Come è noto, entrambe le proposte sono state bocciate dagli elettori nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016, sebbene proprio il tema della revisione del Titolo V, affrontato in entrambe, rappresentasse l’aspetto su cui si registrava il più diffuso consenso.

Il tema della modifica del Titolo V dovrebbe, pertanto, continuare a rappresentare una priorità per il paese, tante sono le irrazionalità, le incongruenze, le oscurità del testo, che si sommano a una impostazione generale che collide in più punti con l’impianto della Costituzione repubblicana; tuttavia, la nuova maggioranza ha eliminato la questione dall’agenda politica.

Così, nel corso degli ultimi tempi, si sono moltiplicate le iniziative volte a dare attuazione alla menzionata clausola di differenziazione, che ha rappresentato uno dei punti più controversi e problematici dell’intera novella del 2001, tanto che essa era stata del tutto cancellata dai due citati disegni di legge costituzionale.

A dire il vero, il processo di attuazione dell’art. 116, III comma, Cost., è cominciato sul finire della scorsa legislatura, dopo lo svolgimento di due referendum consultivi che si sono tenuti in Lombardia e in Veneto provocatoriamente il 22 ottobre 2017, cioè nel 151° anniversario della votazione popolare sull’unità d’Italia, per sottolineare, come notava il presidente della regione Veneto in un comunicato dell’aprile 2017, che questo referendum doveva rappresentare «una risposta corale dei veneti al plebiscito del 1866».

Il 28 febbraio 2018, cioè a soli 4 giorni dalla data fissata per le elezioni politiche, il governo Gentiloni stipulò ben tre accordi preliminari con le due citate regioni, cui si aggiunse anche l’Emilia Romagna. Accordi che sono stati stigmatizzati da Gianfranco Viesti, in virtù dei criteri previsti per il finanziamento delle nuove funzioni, come la «secessione dei ricchi», formula ripresa anche da costituzionalisti come Massimo Villone[3] per mettere in rilievo i pericoli di una simile proposta dal punto dell’unità della Repubblica.

Già da queste prime osservazioni si comprende che ci troviamo in presenza di un vero e proprio paradosso: una proposta di attuazione di una disposizione costituzionale in contrasto con la Costituzione stessa. Come ciò sia potuto accedere è spiegabile con la circostanza che l’art. 116, comma III, Cost., è una disposizione ambigua, frutto di un testo, quello della modifica del Titolo V del 2001, che enfatizza oltre il ragionevole le differenze, per cui mal si concilia con l’impianto della Costituzione del 1948, in cui l’unità e l’autonomia rappresentano due facce della stessa medaglia e si rafforzano reciprocamente[4]. L’art. 116, III comma, Cost. è probabilmente la disposizione più lontana dall’impianto originario della Costituzione proprio perché introduce un processo disgregativo, che può sfociare in una disarticolazione dell’ordinamento, finendo paradossalmente per svuotare di senso lo stesso principio di autonomia, che si lega indissolubilmente ai valori sostanziali (eguaglianza, libertà, partecipazione democratica) affermati dal costituente[5]. Adesso che le indicazioni dell’art. 116, III comma, Cost., si stanno traducendo in progetti concreti, le contraddizioni di questo disegno disgregatore con lo spirito e i principi della Costituzione repubblicana stanno finalmente emergendo.

2.L’ambiguo statuto costituzionale dell’autonomia differenziata

Occorre innanzitutto osservare che non sono mancati autorevoli dubbi in merito alla stessa legittimità costituzionale dell’asimmetria[6]. Si è sostenuto che, consentendo alla legge di differenziazione (che è una legge ordinaria, sebbene soggetta a una disciplina particolare, in quanto frutto di intesa con la regione e votata a maggioranza assoluta) una capacità di deroga al riparto di competenze sancito in Costituzione tale riparto diventerebbe, in modo inammissibile, disponibile da parte di una fonte subordinata alla Costituzione stessa. Sebbene l’osservazione sia seria e provenga da un illustre studioso del diritto costituzionale, vi sono altri e – sia consentito – anche più importanti aspetti che fanno dubitare della compatibilità costituzionale di questo regionalismo differenziato con l’impianto della Costituzione, come si metterà in luce nelle pagine che seguono.

2.1. Il nodo delle competenze concorrenti

Un problema degno di nota riguarda il contenuto di questa legge di differenziazione, cioè quali siano, in concreto, queste «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». La questione si pone perché la maggior parte delle competenze cui fa riferimento l’articolo 116, III comma, Cost., sono già di competenza regionale, con il solo limite dei principi fondamentali[7], demandati alle leggi dello Stato. La risposta più logica a questa domanda dovrebbe essere che la legge di differenziazione sia in grado di sottrarre la competenza regionale al rispetto di questo unico limite, facendola diventare esclusiva della regione. Di modo che allo Stato sarebbe inibito, in queste materie, qualsiasi intervento volto a far valere esigenze unitarie.

Ma le cose non sono così semplici. La lista delle competenze concorrenti regionali, infatti, rappresenta probabilmente il maggiore difetto della riforma del 2001, che tutte le recenti proposte di modifica prodotte hanno cercato invano di correggere, in quanto l’attribuzione di queste materie alle regioni è stata del tutto disancorata della dimensione (regionale) dell’interesse. Per intenderci, se nell’originario art. 117 della Costituzione alle regioni erano affidate competenze sottese ad un interesse che assumeva, espressamente o nei fatti, una dimensione regionale (come ad esempio «i lavori pubblici di interesse regionale») nell’elencazione delle competenze regionali contenuta nel III comma dell’art. 117, così come riscritto nel 2001, alle regioni sono state attribuite competenze che si riferiscono in maniera evidente ad interessi dotati di una dimensione nazionale, sconfinando alle volte persino in ambiti che necessitano di regolazioni sovranazionali.

Per chiarire basti ricordare che il titolo V della Costituzione del 2001 ha attribuito alle regioni, ad esempio, «commercio con l’estero», cioè una materia in cui con tutta evidenza entra in gioco un interesse che certamente trascende quello delle singole regioni; «tutela e sicurezza del lavoro», che dovrebbe essere uniforme su tutto il territorio nazionale, inerendo alla tutela della persona umana; «ricerca scientifica e tecnologica» che dovrebbe rappresentare il fondamento della crescita economica, sociale e culturale dell’intero paese; «tutela della salute», connessa a un diritto che la stessa Costituzione all’art. 32 definisce «fondamentale»; «porti e aeroporti civili», ossia opere strategiche per il sistema paese, senza nemmeno considerare che alcune regioni, a causa delle loro dimensioni e dei loro confini, non hanno né porti né aeroporti ; «grandi reti di trasporto e di navigazione», cioè di reti di trasporto che per essere appunto «grandi» necessariamente trascendono i confini di una sola regione, e che alle volte sono di interesse sovranazionale; «ordinamento della comunicazione», cioè una materia che va regolata orami su un piano che trascende gli stessi confini dello Stato, arrivando sino ad attribuire alle regioni compiti in cui l’aggettivo «nazionale» qualifica addirittura la competenza stessa, come nel caso della «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia». Tutto ciò senza considerare che materie la cui stretta attinenza agli interessi strategici del paese, come i «lavori pubblici» o i «servizi pubblici», a seguito della tecnica di riparto introdotta nel 2001, sono confluite nella potestà residuale delle regioni, cui spetta tutto ciò che non è attribuito espressamente allo Stato.

Un riparto la cui irragionevolezza è evidente, perché rende, da un lato, assai complessa l’azione unitaria dello Stato, dall’altro lato, molto problematica la stessa cura di questi stessi interessi che difficilmente potranno essere adeguatamente tutelati dall’azione regionale, oggettivamente inefficace.

Come è noto, l’applicazione di questo irragionevole riparto di competenze ha attribuito un compito delicatissimo alla Corte Costituzionale, che si è dovuta far carico dell’esigenza di garantire la funzionalità del sistema. La prima fondamentale sentenza, con cui la Corte costituzionale ha iniziato il lungo processo di «riscrittura» dell’art. 117 Cost., la n. 303 del 2003, è intervenuta in materia di opere pubbliche con riferimento a una legge statale relativa alla costruzione di infrastrutture di «preminente interesse nazionale» (competenza che per la lettera del nuovo art. 117 Cost. era confluita nella potestà delle regioni). Poiché era inverosimile che lo Stato non potesse realizzare un piano di infrastrutture strategico per il paese (ma che la sua realizzazione dovesse essere subordinata all’intervento, legislativo e amministrativo, di tutte le regioni attraversate dall’infrastruttura stessa, come avrebbe imposto la lettera del nuovo titolo V), la Corte ha dovuto fare vere e proprie acrobazie interpretative per affermare che lo Stato conservasse questa possibilità, in sostanza «riscrivendo» il nuovo riparto di competenze, mettendo così in evidenza tutta l’astrattezza del criterio usato nel 2001 e i connessi gravi rischi per la funzionalità del sistema paese.

Dopo quasi venti anni di giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha cercato di rimettere ordine in un titolo V disfunzionale, i disegni di attuazione dell’art 116, III comma, Cost., possono far riemergere, accentuandoli, questi stessi problemi (come fa ad esempio la legge del Veneto del 15 novembre 2017, che dovrebbe rappresentare la base dell’intesa tra la regione Veneto e lo Stato, in cui sono contemplate come oggetto dei maggiori poteri tutte le materie della potestà concorrente, nessuna esclusa).

Ampliare la competenza delle regioni in materie in cui è assente la dimensione regionale dell’interesse è un’operazione che accentuerebbe l’irragionevolezza di quel riparto di competenze cui con fatica la Corte costituzionale ha dovuto farsi carico[8], con la conseguenza di attribuire nuovamente un potere delicatissimo al giudice delle leggi che sarebbe chiamato, ancora una volta, a riordinare un quadro ordinamentale che riforme maldestre inesorabilmente confondono.

La legge di attuazione dell’art. 116, III comma, Cost., pertanto, dovrebbe fare un parsimonioso uso di questa possibilità di estensione di competenza e soprattutto dovrebbe tenere nel debito conto la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha profondamente modificato il testo dell’art. 117, III comma, Cost., altrimenti si rischierebbe di riportare le lancette dell’orologio indietro di quasi venti anni, rendendo molto complicata l’azione unitaria dello Stato in settori strategici per il paese (dalle comunicazioni elettroniche ai porti, dall’energia elettrica agli aeroporti, dall’alimentazione al commercio con l’estero, alle infrastrutture ecc.), con danni per tutti, tanto per lo Stato che per i cittadini delle regioni ad autonomia differenziata.

2.2. La impossibile revisione della legge di differenziazione

Un’altra questione fondamentale riguarda la stessa possibilità di abrogare o modificare la legge di differenziazione. Sembra infatti che ci troviamo di fronte a una legge destinata ad avere effetti permanenti. Stando all’attuale formulazione dell’art. 116, III comma, Cost., infatti, pare davvero complesso comprendere come si possa tronare indietro. Per abrogare la legge di differenziazione occorrerebbe ripercorrere il medesimo iter che con cui è stata approvata, per cui sarebbe sempre necessaria una nuova intesa con la regione interessata che però questa volta dovrebbe prestare il proprio consenso per dismettere le nuove competenze, per cui è facilmente ipotizzabile che un tale consenso non ci sarà mai. Sul punto il quadro delle posizioni espresse dalla dottrina costituzionalista è più che problematico. Mentre alcuni ritengono che per raggiungere questo effetto sarebbe necessaria addirittura una modifica costituzionale[9], altri affermano che persino questa strada non sarebbe sufficiente[10], in quanto la stessa revisione costituzionale non potrebbe incidere sull’assetto dei poteri anteriormente stabilito dalla legge di differenziazione.

Questo effetto eccentrico è determinato dalla circostanza che l’art. 116, III comma, è ispirato ad una ratio disgregatrice, che mina il ruolo unitario e unificante dello Stato favorendo una deriva di disarticolazione della Repubblica verso una inedita forma di confederazione fra entità sub-statutali.

In realtà è proprio l’effetto permanente di questo ampliamento di attribuzioni permanente che fa dubitare della compatibilità di questa disposizione con l’impianto della Costituzione repubblicana, che attribuisce allo «Stato considerato come tutto»[11] (declinato in Costituzione a volte come Stato altre come Repubblica, Nazione, Patria) la tutela degli interessi che fanno capo all’intera collettività nazionale. Lo stesso lavoro di interpretazione adeguatrice svolto dalla giurisprudenza costituzionale su un’altra disposizione costituzionale ispirata dalla medesima ratio disgregatrice (l’art. 114 Cost. per il quale la Repubblica è «costituita» dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane e dallo Stato) sarebbe posto in discussione. Un’attuazione della clausola di differenziazione che non tenesse nel debito conto le esigenze unitarie e i cui effetti dovessero considerarsi permanenti avrebbe effetti contraddittori con le esigenze di coerenza dell’ordinamento: si incrinerebbe la funzione dello Stato come rappresentante della collettività nazionale e si invertirebbero gli attuali rapporti fra Stato e regioni, come se le regioni fossero divenute davvero depositarie della sovranità e la Repubblica fosse diventata un’inconsistente confederazione di enti territoriali.

Ne conseguirebbe, anche in questo caso, nuovo lavoro per la Consulta, che dovrebbe ancora una volta tentare di armonizzare l’attuazione dell’art. 116, III, comma, Cost., con la lettera e con lo spirito della costituzione del 1948.

2.3. La questione del finanziamento delle funzioni

La questione del finanziamento delle funzioni è dunque solo uno degli aspetti in cui si manifestano gli effetti disgregativi dell’art. 116, III, cost.

Se la dottrina costituzionalista si domanda a chi spetti il finanziamento delle nuove funzioni, se esso cioè debba essere garantito dallo Stato o dalle stesse regioni che dovrebbero provvedervi con le proprie risorse[12], la realtà delle proposte concrete ci pone di fronte a un quadro allarmante per l’unità economica e sociale della Repubblica. L’idea di fondo che pervade tutte le proposte avanzate è, infatti, non solo quella per cui del finanziamento delle funzioni deve farsene carico la finanza erariale, ma che debbano essere applicati criteri che stridono in modo palese con il principio di eguaglianza e con il mantenimento in capo allo Stato della funzione redistributiva.

Le leggi approvate dalla regione Veneto in materia sono molto chiare. La legge regionale n. 15 del 2014 chiedeva che l’80 per cento dei tributi erariali raccolti nell’ambito dei confini amministrativi della regione Veneto fossero traferiti dallo Stato alla regione stessa, cui si sarebbe dovuto aggiungere almeno l’80 per cento del restante 20 per cento che lo Stato avrebbe dovuto spendere per beni e servizi da erogarsi nella stessa regione. Questa previsione è stata annullata dalla Corte costituzionale perché avrebbe chiaramente inciso «sulla coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica», nonché sulla sua «unità giuridica ed economica» (punto 8.4 del considerato in diritto).

Sulla medesima linea della legge del 2014, anzi spingendola addirittura oltre, nonostante la citata pronuncia della Consulta, si è mossa la deliberazione regionale del Veneto del 15 novembre del 2017 (contenente una proposta di legge statale), seguita all’approvazione del referendum del 22 ottobre 2017. Secondo tale legge il 90 per cento delle principali imposte erariali riscosse entro i confini amministrativi del Veneto dovrebbero restare alla regione.

Ad ogni modo, il principio per cui lo Stato non dovrà limitarsi a trasferire alle regioni la spesa storica, cioè la somma che attualmente spende per soddisfare le medesime funzioni, è stato chiaramente affermato anche dal Governo, in sede di stipula dei tre accordi preliminari del 28 febbraio 2018. Secondo l’art. 4 di tali accordi, il criterio della spesa storica dovrà essere superato entro un quinquennio, perché a regime il trasferimento delle risorse dovrà essere definito in base ai «fabbisogni standard» calcolati non solo «in relazione alla popolazione residente», ma anche con riferimento al «gettito dei tributi maturati sul territorio». È evidente che, legando il fabbisogno standard al gettito dei tributi erariali riscossi sul territorio tali «fabbisogni standard» differiranno notevolmente a seconda della ricchezza delle diverse aree regionali e saranno più elevati nelle regioni ricche, più bassi nelle regioni povere, con buona pace delle esigenze legate al principio di eguaglianza nel godimento dei diritti e del ruolo redistributivo dello Stato. Come messo in evidenza da recenti studi economici[13], questa copertura finanziaria delle nuove funzioni, «del tutto slegata all’ammontare delle risorse necessarie per gestirle»[14], si fonderebbe sull’erroneo convincimento per cui il Nord avrebbe diritto a trattenere il ‘residuo fiscale’ (cioè la differenza tra quanto riscosso dallo Stato in un dato territorio e quanto speso dallo Stato stesso in questo stesso territorio per garantire i servizi pubblici). Una proposta giustamente stigmatizzata come «la secessione dei ricchi»[15], che scavalca del tutto il fondamentale riferimento costituzionale in materia, ossia l’art. 53 Cost., per cui il patto fiscale intercorre tra lo Stato e i cittadini, e si fonda sulle nozioni di «progressività» e di «capacità contributiva» del cittadino-contribuente proprio per consentire le politiche dell’eguaglianza e permettere allo Stato di adempiere ai suoi compiti redistributivi.

Come messo chiaramente in luce[16], «i calcoli di dare/avere in termini di imposte e spesa pubblica hanno senso solo se riferiti a singoli individui» in quanto «i territori non pagano imposte»[17]. Introdurre un principio di territorialità delle aliquote, declinato su base regionale, contrasterebbe con l’impostazione dell’art. 53 Cost., con effetti dirompenti sull’unità dell’ordinamento.

Pare evidente che un disegno di questo tipo è del tutto antitetico all’unità nazionale intesa come unità nel godimento dei diritti di cittadinanza fra i cittadini. Attuare il regionalismo differenziato in questo modo non potrà che produrre nuove intollerabili diseguaglianze e accentuare quelle già esistenti.

Anche in questo caso si sottoporrà a ulteriori difficoltà il lavoro dei garanti, cioè della Corte Costituzionale, che, come osservato, già si è chiaramente pronunciata sulla questione.

3.Conclusioni

L’esito disgregativo e antiunitario che sta assumendo l’attuazione del regionalismo differenziato non stupisce. Si tratta della logica conseguenza di un dibattito sull’autonomismo riemerso nel nostro paese sul finire degli anni ‘80 dello scorso secolo, in coerenza con i postulati neo-liberali che contestano la stessa azione redistributiva dello Stato. Dibattito che nel nostro paese è stato animato da una forza politica antistatale e antiunitaria, la Lega Nord, che ha sempre contestato il ruolo dello Stato e affermato l’obiettivo di far restare «al Nord le tasse del Nord». Obiettivo oggettivamente contraddittorio con l’unità nazionale che se prima era perseguito con una proposta politica eversiva di stampo secessionista, oggi si cerca di camuffarlo sotto le spoglie di un progetto attuativo di una disposizione costituzionale, sfruttando i margini di ambiguità introdotti dalla pessima riforma del tutolo V del 2001.

La Corte costituzionale nella sentenza n. 118 del 2015, ha chiaramente affermato che obiettivi di questo tipo, ipotizzati dalla Regione Veneto, inciderebbero sul principio di eguaglianza, sui compiti redistributivi dello Stato, minacciando l’unità economica e sociale della Repubblica.

Ma questo regionalismo differenziato non comprometterebbe solo l’eguaglianza tra i cittadini. La stessa capacità dello Stato di tutelare gli interessi dell’intera collettività nazionale sarebbe compromessa. Le regioni diventerebbero piccole patrie e lo Stato si ritirerebbe da settori strategici per il sistema paese, con l’effetto di limitare la competitività dell’intero paese, con danni per tutti. Ciò che è a rischio, dunque, non è solo la tutela delle esigenze legate al principio di eguaglianza, ma la stessa capacità del paese di rappresentare un sistema di relazioni sociali, economiche e culturali unitario che si faccia carico dello sviluppo armonioso e contemporaneo dell’intera comunità nazionale. I danni sarebbero avvertiti da tutti, probabilmente in modo maggiore proprio dalle aree più competitive del paese.

La priorità oggi non è affatto l’attuazione di un regionalismo differenziato ambiguo e rischioso, ma il riordino delle competenze tra lo Stato e le regioni per realizzare un assetto dei poteri efficiente e coerente. Solo assieme ad una revisione del Titolo V e ad un riordino complessivo del sistema delle autonomie territoriali, casomai con l’introduzione di una camera delle regioni[18], si potranno sperimentare ipotesi di differenziazione, senza che questa sperimentazione si traduca in pericoli per il Paese nel suo complesso e in un danno per tutti i cittadini.

Speriamo che vi siano ancora gli anticorpi sufficienti nella politica, nella società e nella cultura di questo paese per arginare proposte di questo tipo e per riprendere la strada maestra che è innanzitutto quella di porre rimedio alle affrettate e pasticciate ‘riforme’ del recente passato. Se così non fosse, dovremmo confidare solo nelle istituzioni di garanzia alle quali, però, da alcuni anni pare stiamo chiedendo davvero troppo.

*Università degli Studi della Campania

 

[1] Come ricordato da S. Mangiameli, L’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione con particolare riferimento alle recenti iniziative delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Indagine conoscitiva della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Audizione del 29 novembre 2017, in www.issirfa.cnr.it

[2] A. Morelli, Le autonomie della Repubblica: c’è un ordine nel caos?, in Dirittiregionali.it, n. 2/2018.

[3] M. Villone, Autonomia, la riforma dove non si nasconde chi ci perde, in Il Manifesto, 21 dicembre 2018, secondo il quale si tratta di una «ripresa tal quale del vecchio mantra leghista per cui al Nord i soldi del Nord».

[4] S. Staiano, Art. 5 Costituzione italiana, Roma 2017, passim.

[5] Cfr. sul punto C. Iannello, Asimmetria regionale e rischi di rottura dell’unità nazionale, in Rassegna di Diritto Pubblico Europeo, n. 2/2018, in corso di stampa.

[6] L. Elia, Audizione, in Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del titolo V della parte II della Costituzione, Senato della Repubblica, 23 ottobre 2001, ora in T. Groppi – M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, cit., 18- 19.

[7] R. Bin, «Regionalismo differenziato» e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, in Le istituzioni del federalismo, 2008, 9 e ss

[8] Sul punto cfr R. Bin, «Regionalismo differenziato» e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, cit., 9 e ss.

[9] cfr A. Ruggeri, Neoregionalismo, dinamiche della normazione, diritti fondamentali, Relazione al Convegno di Messina su «Regionalismo differenziato: il caso italiano e spagnolo», 18-19 ottobre 2002, http://www.giurcost.org/studi/pdf/ruggeri3-2002.pdf, 30.

[10] N. Zanon, Per un regionalismo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e prospettive alla luce della revisione del titolo V, in AA.VV., Problemi del Federalismo, Giuffrè, Milano, 2001, 57.

[11] L. Paladin, Valori nazionali e principio di unità della Repubblica nella Costituzione italiana, in AA.VV., Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, 376.

[12] F. Palermo, Il regionalismo differenziato, in T. Groppi-M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, cit., 60, ritiene che le regioni debbano ricorrere alla propria capacità impositiva Contra A. Poggi, La problematica attuazione del regionalismo differenziato, in federalismi.it, n. 1/2008.

[13] A. Giannola, G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul «federalismo differenziato», in Rivista economica del Mezzogiorno, 1-2/2018, 5 e ss

[14] Ibidem, 17

[15] G. Viesti, La secessione di cui nessuno parla, in www.rivistailmulino.it, 3 settembre 2018; cfr. anche Id., Un referendum contro l’unità nazionale, in www.rivistailmulino.it, 24 luglio 2018; M. Cammelli, Risultati incerti e rischi sicuri dell’autonomia regionale. Il regionalismo differenziato, in www.rivistailmulino.it, 20 luglio 2018.

[16] A. Giannola, G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul «federalismo differenziato», cit., 5 e ss.

[17] Ibidem, 32.

[18] Come sostiene A. Patroni Griffi, Per il superamento del bicameralismo paritario e il Senato delle autonomie: lineamenti di una proposta, in federalismi.it, 2018.

Regionalismo differenziato | Autonomia Regioni | Carlo Iannello

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