Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta

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Autonomy of regions has many risks: it would end up to increase government debt and it would break the national unity.

Regionalismo differenziato | Dal debito pubblico alla rottura dell’unità nazionale. Tutti i rischi del Regionalismo differenziato.

 

Dalle Regioni al federalismo differenziato

Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Eppure lo statista di Melfi non fu ascoltato, come non lo furono Benedetto Croce e Concetto Marchesi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, Luigi Preti e Fausto Gullo, tutti uniti nell’opposizione all’ordinamento regionale.

Passò la linea del siciliano Gaspare Ambrosini che introduceva una forma di Stato organizzato in Regioni in cui si teneva insieme l’unità della Repubblica e l’autonomia degli enti locali. Alla fine la formula dell’art. 5 dei Principi fondamentali risultò la seguente: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento»[1].

Impiegati gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per passare all’attuazione, con vent’anni di ritardo, degli ordinamenti regionali, si procedette, poi, a un quindicennio di riforme della pubblica amministrazione che iniziarono con la legge sull’ordinamento degli enti locali, la 142 del 1990, che prese il nome dell’allora potentissimo ministro dell’Interno, il democristiano Antonio Gava.

Venne, quindi, il turno delle varie leggi Bassanini dal nome del ministro della Funzione pubblica che le elaborò e, a più riprese, le portò all’approvazione del Parlamento. La prima fu la legge 59 del 1997 che doveva realizzare il federalismo a Costituzione invariata. Era il tempo in cui imperava il verbo della sussidiarietà come forma di avvicinamento del luogo della decisione pubblica al livello più prossimo alla collettività di riferimento. ‘Sussidiarietà’ era la parola magica per realizzare un’azione amministrativa più efficiente, più efficace e più economica.

Alla fine degli anni Novanta si stabilirono anche i nuovi criteri di riparto dei fondi per la sanità che furono riassunti nel decreto legislativo 56 del 2000. Tale importante decreto, pur mantenendo ferma l’idea di un servizio sanitario nazionale, portò ad una distribuzione differenziata – e sbilanciata a favore delle Regioni settentrionali[2] – dei fondi per la sanità che costituivano, e costituiscono ancor oggi, la parte più cospicua dei bilanci regionali.

Dopodiché la riforma del Titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale n. 3 del 2001, approvata in Parlamento con soli quattro voti di maggioranza nell’ultima decisiva votazione e sottoposta a un referendum popolare al quale partecipò poco più del 34 per cento degli aventi diritto, realizzò una nuova forma di regionalismo volta a trasferire alle Regioni poteri, funzioni e competenze paragonabili a quelle più proprie di Stati federali.

In effetti, il nuovo Titolo V della Costituzione, elaborato da una maggioranza di centrosinistra nel tentativo di inseguire gli elettori della Lega, introdusse nell’ordinamento italiano alcuni principi di cosiddetto federalismo fiscale e ribaltò il principio stabilito dai Costituenti secondo cui le competenze non espressamente attribuite ad altro ente dovessero rimanere in capo allo Stato nel suo esatto contrario: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato.

In particolare, mentre l’art. 117 introdusse i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che dovevano essere uguali per tutti i cittadini, l’art. 119 cancellava ogni riferimento al Mezzogiorno, introduceva la formula secondo cui gli enti locali compartecipano al gettito dei tributi erariali «riferibile al loro territorio» e istituiva, nel contempo, un fondo di perequazione per i territori con minore capacità fiscale. Insomma si cercava di salvare l’unità dello Stato affermando che, in teoria, i servizi devono essere uguali per tutti, ma si riconosceva che in alcune regioni virtuose – solo perché economicamente più forti – i servizi pubblici potevano essere anche migliori rispetto a quelli previsti dai semplici livelli essenziali.

Che queste diverse prescrizioni normative non potessero stare insieme, perché creavano un’artificiale sperequazione tra Regioni più ricche e Regioni più povere, era stato subito chiaro alla maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento. Così il Titolo V era stato oggetto di riscritture e correzioni tanto da parte del centrodestra che del centrosinistra; mentre la Corte costituzionale, con una giurisprudenza quasi ventennale, ha contribuito a districare e chiarire le evidenti contraddizioni presenti nel testo del 2001.

Le diverse riforme costituzionali approvate nel 2006 dal centrodestra, la cosiddetta Bossi-Berlusconi, e quella approvata dal centrosinistra nel 2016, la cosiddetta Renzi-Boschi, sono state entrambe bocciate dagli elettori. In particolare il fallimento della Renzi-Boschi sembra aver posto fine alla stagione delle riforme costituzionali.

E così si è passati dalle velleità di riscrittura o di semplice correzione del Titolo V da parte del Parlamento nazionale, alla richiesta di alcune Regioni di passare all’effettiva attuazione di quanto contenuto nel testo della riforma del 2001. Ciò è stato reso possibile dal nuovo art. 114 che, ponendo sullo stesso piano Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, ha aperto la strada a forme di legislazione ‘contrattata’.

Il terzo comma dell’articolo 116

Veniamo ora all’attualità. Le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, hanno preso l’iniziativa per realizzare «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» secondo il dettato del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto dal centrosinistra con la riforma del 2001.

Si tratta di procedure inedite e complesse, mai applicate prima, interpretate in modo diverso dalle tre Regioni che le hanno finora utilizzate: la Lombardia e il Veneto hanno basato le proprie richieste su appositi referendum regionali svoltisi il 22 ottobre del 2017; mentre la giunta regionale dell’Emilia Romagna, ha ritenuto di poter procedere con la sola approvazione della richiesta di ulteriore autonomia da parte del Consiglio regionale.

Il 28 febbraio del 2018 il governo Gentiloni ha approvato tre accordi preliminari con il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna.

La spinosa questione è ora nelle mani del governo giallo-verde guidato da Giuseppe Conte. Nella tradizionale conferenza di fine anno il Presidente del Consiglio ha detto di aver bisogno di un’ulteriore istruttoria per poi proporre alle Regioni interessate il testo di un disegno di legge per ciascuna di esse sul quale raggiungere l’intesa necessaria per passare all’esame del Parlamento.

Insomma il 15 febbraio sapremo se verrà effettivamente realizzato un «regionalismo differenziato» disegnato sulle richieste specifiche avanzate dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna. Se ciò avverrà, avremo, oltre alle leggi costituzionali che prevedono l’autonomia delle cinque regioni a Statuto speciale, Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna, anche tre leggi ordinarie, sebbene rinforzate, frutto della contrattazione tra Stato e Regioni, che regoleranno le forme di autonomia del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia-Romagna.

Le classi dirigenti di queste tre Regioni a statuto ordinario hanno maturato la convinzione che attuando le procedure dell’art. 116, terzo comma, e acquisendo in tal modo ulteriori forme di autonomia potranno disporre di nuove entrate trattenendo sul territorio più risorse e incidere in maniera significativa sull’attuale meccanismo di trasferimento dei fondi statali da cui ritengono di essere penalizzate.

Si apre così un inedito scenario che, con una fortunata formula, l’economista Gianfranco Viesti ha definito la «secessione dei ricchi» dal momento che Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna da sole producono oltre il 50 per cento del Pil italiano.

Secondo uno studio degli economisti Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo dell’Università di Napoli “Federico II”, «le Regioni che attueranno il federalismo differenziato vedranno incrementata nella situazione ex post la quota delle risorse erogata e gestita dalle loro Amministrazioni rispetto alle situazioni ex ante (+106 miliardi per la Lombardia, +41 miliardi per il Veneto e +43 miliardi per l’Emilia-Romagna), mentre si assisterà ad una diminuzione di pari importo delle risorse gestite direttamente dall’Amministrazione centrale»[3].

Ma la «secessione dei ricchi» si baserebbe, in realtà, su un equivoco consistente nel ritenere effettivamente esistente nelle pieghe del bilancio dello Stato un residuo fiscale a favore di alcune Regioni e, in particolare, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Il residuo fiscale, infatti, sarebbe nient’altro che la «differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori»[4]. Secondo Giannola e Stornaiuolo, da un punto di vista di contabilità pubblica, saremmo di fronte a un equivoco perché in uno Stato unitario non ci sono residui fiscali dal momento che il rapporto fiscale si svolge tra il cittadino e lo Stato e non con lo specifico territorio di residenza dei soggetti che pagano le imposte. Inoltre, anche ammettendo l’ipotesi dell’esistenza di un residuo fiscale, vi sarebbe un palese errore di calcolo in quanto non si terrebbe conto del fatto che una parte della differenza di quanto versato all’erario rispetto a quanto trasferito dallo Stato alle Regioni ritornerebbe sul territorio regionale in forma di pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico posseduti dai soggetti residenti in quelle regioni. Insomma, prendendo in considerazione la distribuzione territoriale dei detentori dei titoli del debito pubblico statale e scomputando il pagamento dei relativi interessi, assisteremmo a un’enorme riduzione del presunto residuo fiscale delle Regioni interessate dal momento che una gran parte del debito pubblico è posseduto da soggetti residenti proprio in quelle Regioni.

L’attuazione dell’art. 116 terzo comma, dunque, mentre, da un lato, determina lo spostamento di ingenti flussi finanziari dallo Stato alle Regioni, non tiene conto dei flussi di spesa che arrivano ai territori sotto forma di interessi sul debito pubblico statale.

Su questo tema già nel 2004 Vittorio Grilli, parlando in qualità di Ragioniere generale dello Stato, in un passaggio della sua relazione annuale, aveva espresso forti perplessità ricordando che: «Parallelamente all’aumento dei centri di spesa, la riforma federalista comporterà il trasferimento di flussi finanziari crescenti dal centro alla periferia. È un processo estremamente delicato e solo una preparazione adeguata e puntuale delle procedure e delle competenze consentirà la gestione del cambiamento in modo non penalizzante per i conti pubblici».

Mentre Luca Antonini, uno dei più noti studiosi italiani del federalismo, parlando recentemente a Napoli nel corso di un convegno scientifico, ha accennato all’esistenza di una certa resistenza verso il regionalismo differenziato proprio nel ministero dell’Economia e Finanze.

In ultima analisi il rischio contenuto nell’attuazione del terzo comma dell’art. 116 non sarebbe soltanto quello politico di una possibile rottura dell’Unità nazionale, quanto quello, ben più concreto, di rendere non più sostenibile il debito pubblico statale a causa della riduzione dei flussi di cassa di livello statale come conseguenza del trasferimento di funzioni fondamentali, come la sanità e l’istruzione, alle Regioni.

Che cosa farà il governo Conte?

Quale sarà la risposta del governo Conte alle richieste della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna è difficile a dirsi.

Secondo alcuni autorevoli costituzionalisti, il comma terzo dell’art. 116 è esso stesso di dubbia costituzionalità perché creerebbe una situazione di autonomia per alcune Regioni che sarebbe, di fatto, irreversibile e affida a una legge ordinaria, seppure rinforzata dalla previsione del voto a maggioranza assoluta delle Camere, la compressione di alcuni diritti fondamentali previsti dalla Parte prima della Costituzione e come tali intangibili[5]. Tale legge, peraltro, verrebbe approvata nell’ambito di un sistema bicamerale paritario come quello attuale, in cui è assente una Camera di rappresentanza territoriale[6]. In ogni caso, poi, l’autonomia differenziata in alcuni settori come la sanità o l’istruzione porterebbe alla cristallizzazione di una disparità di trattamento tra i cittadini delle diverse regioni che già oggi è ben visibile.

In realtà molti dei sostenitori della riforma costituzionale del 2001 avevano preso in considerazione l’ipotesi di una riforma federale «a geometria variabile» consistente nell’accettare un decentramento differenziato, con un passaggio progressivo di compiti alle Regioni, cominciando da quelle più attrezzate, per poi passare alle altre, a mano a mano che esse si dotino di uffici, personale e capacità organizzativa. Ma questo comporterebbe la necessità di aprire ulteriori tavoli tecnici – oltre quelli già posti in essere per giungere agli accordi preliminari del 28 febbraio 2018 – con le tre Regioni interessate, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Tali tavoli tecnici dovrebbero essere specificamente finalizzati al ricalcolo puntuale di un eventuale residuo fiscale risultante dalla differenza tra quanto raccolto a titolo di imposte erariali sul territorio regionale e quanto trasferito dallo Stato alle Regioni anche a titolo di interessi sul debito pubblico pagati a soggetti residenti in quelle stesse Regioni.

Tale calcolo deve superare un primo ostacolo consistente nel fatto che le imposte erariali, per definizione, sono quelle pagate da tutti i cittadini in misura uguale secondo il criterio della progressività sancito dall’art. 53 della Costituzione. Le imposte erariali non hanno alcun rapporto con il territorio, ma solo con il reddito prodotto, se si tratta di imposte dirette, o con i consumi se si tratta di imposte indirette come l’IVA. Le imposte erariali sono quelle che negli Stati federali corrispondono alle tasse federali, mentre quelle pagate ai singoli Stati di uno Stato federale corrispondo alle nostre imposte locali.

In uno Stato unitario i servizi universali, che devono essere uguali per tutti i cittadini, sono pagati per la quota più cospicua attraverso la fiscalità generale. Questo è specificamente ribadito anche nel “Contratto per il governo del cambiamento” al punto 21 quando, per esempio, si afferma: «La sanità dovrà essere finanziata prevalentemente dal sistema fiscale e, dunque, dovrà essere ridotta al minimo la compartecipazione dei singoli cittadini».

In uno Stato unitario si può sostenere, con ragione, che non si possono finanziare con la fiscalità generale servizi universali di diversa qualità in diversi territori. Bisogna assicurare gli stessi servizi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Sono i cittadini più ricchi che, pagando più tasse, finanziano i servizi per i cittadini più poveri su tutto il territorio nazionale. Le eventuali differenze andrebbero semplicemente corrette attraverso una riforma delle organizzazioni pubbliche o private che offrono tali servizi mettendole in condizioni di offrire gli stessi servizi su tutto il territorio nazionale.

In questo senso, non esistono differenze tra le imposte erariali pagate nelle diverse Regioni e i trasferimenti dallo Stato alle Regioni semplicemente perché non vi è alcuna relazione tra imposte erariali e territorio in cui risiedono i soggetti che le pagano.

Ma impedire o imprimere un deciso rallentamento all’ attuazione delle procedure previste dall’ art. 116 in attesa di eventuali riscritture della specifica norma e dell’intero Titolo V, sembra un’ipotesi difficilmente praticabile a meno che non si sviluppi una forte protesta delle altre Regioni – soprattutto quelle meridionali – che sembra difficilmente ipotizzabile visti i tempi così stretti e una certa insipienza delle classi dirigenti meridionali nel difendere gli interessi dei propri territori.

A ciò si aggiunga che al punto 20 del “Contratto per il governo del cambiamento” si legge che «Sotto il profilo del regionalismo, l’impegno sarà quello di porre come questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse».

Una possibile via d’uscita per il governo Conte potrebbe essere quella di stabilire per legge i cosiddetti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e i cosiddetti Lea (Livelli essenziali di assistenza) e di fissarli nella media di quelli attualmente garantiti in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Ciò significa che l’eventuale residuo fiscale potrebbe effettivamente spettare alle Regioni interessate soltanto laddove i servizi siano effettivamente deficitari. Facendo l’esempio della sanità, siccome i livelli dei servizi in quelle tre Regioni sono già più alti rispetto a quelli di tutte le altre a statuto ordinario, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna non avrebbero diritto a ulteriori trasferimenti rispetto alle altre Regioni perché, se così fosse, si andrebbe incontro alla lesione del diritto fondamentale alla salute. Lo Stato dovrebbe, cioè, impiegare i residui fiscali per portare i servizi nelle Regioni deficitarie ai livelli essenziali delle Regioni più efficienti e non per rafforzare quelli delle Regioni più ricche.

Se ciò non fosse accettato dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna, non resta che minacciare il trasferimento del debito pubblico italiano alle singole Regioni in proporzione alla ricchezza prodotta da ciascuna di esse e alla residenza territoriale dei possessori dei titoli. Ammesso che ciò sia possibile, siamo certi che questo argomento scoraggerebbe molti di coloro che oggi vorrebbero portare lo scontro politico fino al limite estremo della rottura dell’Unità nazionale.

*Università Suor Orsola Benincasa

 

[1] Vd. S. Stajano, Costituzione italiana: art. 5, Carocci, Roma, 2017.

[2] Lo ha spiegato Piero Giarda in un volume del 2005 dal titolo significativo: L’ esperienza italiana di federalismo fiscale. Una rivisitazione del decreto legislativo 56/2000 (Bologna, Il Mulino, 2005). In un passo significativo del volume l’autore arriva a chiedersi come mai un governo e una maggioranza di centrosinistra sarebbero stati «così malvagiamente antipoveri».

[3] A. Giannola-G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul «federalismo differenziato», in «Rivista economica del Mezzogiorno», a. XXXII, 2018, n. 1-2, p. 40.

[4] A. Giannola-G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul «federalismo differenziato», in «Rivista economica del Mezzogiorno», a. XXXII, 2018, n. 1-2, p. 32.

[5] Sul punto si veda ad es. l’intervista a M. Villone, “Siamo alla secessione dei diritti: il MSS al Sud rischia di pagarla cara”, Il Fatto Quotidiano, 22/12/2018 nonché, diffusamente, C. Iannello, Asimmetria regionale e rischi di rottura dell’unità nazionale, in Rassegna di Diritto Pubblico Europeo, n. 2/2018, in corso di stampa.

[6] Cfr. A. Patroni Griffi, Per il superamento del bicameralismo paritario e il Senato delle autonomie: lineamenti di una proposta, in «Federalismi», n. 17, 2018.

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