Il pensiero economico dominante scopre la politica fiscale?

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Empirical evidences on fiscal policy and economic crisis led many mainstream economists to admit the limits of their own models. We look at Allsop and Vines’ proposal to change New Consensus model published on Oxford Review of Economic Policy and then we question if new theorical tendencies in mainstream economics are enough to afford with economic crisis.

Politica fiscale | New Consensus I modelli economici mainstream hanno commesso grandi errori di previsione, soprattutto durante gli anni della crisi, e questo ha spinto alcuni economisti a rivisitarli per avvicinarli maggiormente alla realtà. I cambiamenti proposti restano però vani: il pensiero economico dominante affonda comunque le sue radici in invadenti e controverse teorie neoclassiche.

 

Dinanzi alle evidenze empiriche raccolte durante gli anni della crisi economica, gran parte degli economisti appartenenti a scuole di pensiero mainstream ha dovuto ammettere che le ricette di politica fiscale suggerite dai propri modelli economici si sono rivelate a dir poco inefficaci[1]. Ci riferiamo, in particolare, alle teorie d’ispirazione liberista secondo cui l’intervento dello Stato nell’economia dovrebbe ridursi al minimo e la politica monetaria dovrebbe mirare solo al controllo dell’inflazione[2]. In questo saggio vedremo brevemente quali sono le caratteristiche principali del modello teorico oggi dominante e, a titolo d’esempio, analizzeremo una proposta di sua rivisitazione apparsa sulla prestigiosa Oxford Review of Economic Policy a firma di due economisti mainstream esperti di politica fiscale, Christopher Allsop e David Vines (2015). Il nostro scopo è capire qual è la direzione verso cui si muove il pensiero economico dominante e, allo stesso tempo, cercare di capire se i ripensamenti in seno all’economia mainstream possano essere considerati sufficientemente adeguati ad affrontare le crisi economiche.

1. Il New Consensus in Macroeconomia

Il paradigma teorico dominante viene spesso definito come “Nuovo Consenso in Macroeconomia” e va a combinare ipotesi di ispirazione neoclassica come l’ottimizzazione temporale, le aspettative razionali e il Real Business Cycle con le ipotesi neokeynesiane di concorrenza monopolistica, di vischiosità dei prezzi e di centralità del ruolo di stabilizzazione della politica monetaria (Goodfriend 2007, p. 59). Una versione estremamente semplificata del modello del New Consensus  in un’economia chiusa prevede un sistema di tre equazioni[3]:

y – y* = f(r)

p = g(y – y*)

r = h(p – pT)

Nella prima equazione y – y* rappresenta l’output gap, ossia la differenza tra l’output effettivo y e l’output potenziale y*. Quest’ultimo indica il livello che raggiunge l’attività economica quando tutti i fattori impiegabili nel sistema produttivo vengono impiegati e, nella visione mainstream, è legato a dinamiche dell’offerta (shock della tecnologia e della produttività ad esempio) e non viene influenzato da variazioni dal lato della domanda (si parla infatti di output potenziale supply-determined). Come mostreremo più avanti, però, il concetto di output potenziale è parecchio controverso. L’equazione spiega che l’output gap (y – y*) è essenzialmente funzione inversa del tasso di interesse reale r. Se ad esempio r si riduce, gli investimenti sono più convenienti ed il risparmio più costoso: la spesa del settore privato in consumi ed investimenti cresce, y cresce e il gap tra y e y* si riduce[4].

La seconda equazione p = g(y – y*) richiama il funzionamento della celebre curva di Phillips, secondo cui esiste una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e il tasso di inflazione. Variazioni del livello dell’attività economica y influenzano il tasso di disoccupazione e, di conseguenza, anche il ritmo di crescita del livello dei prezzi p. Da notare che nell’equazione il tasso di inflazione risulterebbe costante in corrispondenza di un output gap pari a zero, ossia quando il livello dell’attività economica è pari al suo livello potenziale[5].

La terza equazione sintetizza il comportamento delle Banche centrali nel fissare i tassi di interesse. La funzione di risposta del tasso di interesse r = h(p – pT) è simile alla famosa Regola di Taylor (1993), dove r dipende dallo scarto tra il tasso di inflazione effettivo p e il tasso di inflazione obiettivo pT. Se l’inflazione supera il livello-obiettivo, la Banca centrale dovrebbe aumentare il tasso di interesse nominale, influenzando positivamente il tasso di interesse reale e negativamente la spesa privata, in modo tale da raffreddare l’economia. Questo è un punto centrale nello schema teorico del New Consensus: manipolando i tassi di interesse si influenza il livello di attività economica nel breve periodo e questo, a sua volta, può influenzare il tasso di inflazione (Sawyer 2009, p. 550)[6].

Per concludere questa rapida e semplificata esposizione del modello del New Consensus volgiamo infine lo sguardo alla politica fiscale. Nella prima equazione non si trova generalmente alcuna menzione esplicita alla politica fiscale e alla sua funzione di stimolo della domanda[7]. Secondo gli economisti mainstream, infatti, la politica fiscale rischia di essere sterilizzata dalle aspettative (razionali) degli agenti economici e di spiazzare la spesa privata[8]. Dal punto di vista teorico, valgono dunque le controverse teorie dell’equivalenza di Barro-Ricardo e dell’effetto spiazzamento (crowding out). Secondo il teorema dell’equivalenza di Barro-Ricardo, infatti, il maggiore debito pubblico con cui si va a finanziare politiche fiscali espansive indurrebbe famiglie e imprese a prevedere un futuro aumento della pressione fiscale per ripianare il debito. Queste previsioni si tradurrebbero in una riduzione dei consumi e in un incremento del risparmio nel presente con effetti negativi per la domanda complessiva e la crescita. Secondo l’effetto spiazzamento, invece, una maggiore spesa pubblica non fa altro che provocare un aumento dei tassi di interesse e quindi “spiazzare” la spesa privata, facendola ridurre talmente tanto da controbilanciare gli effetti positivi della manovra economica[9].

2. La proposta di rivisitazione del New Consensus

La crisi economica scoppiata nel 2008 ha dimostrato che la sola politica monetaria non è sufficiente a rilanciare un’economia in recessione e che politiche fiscali restrittive sono addirittura controproducenti. Gran parte degli economisti appartenenti a scuole di pensiero mainstream ha dovuto ammettere che, almeno durante periodi di crisi economica, la politica fiscale è efficace e necessaria.

Dal punto di vista teorico, la riscoperta della politica fiscale nel mainstream è giustificata principalmente con l’ammissione dell’esistenza di regimi dove non vige l’ipotesi dell’equivalenza di Barro-Ricardo e che sono individuati, in genere, nelle economie a sovranità monetaria, ossia in quelle economie che possono emettere o stampare moneta e possono quindi evitare una crescita incontrollata del debito pubblico grazie all’intervento della propria Banca centrale (Tcherneva 2013, p. 10). La logica di questi economisti è la seguente: l’espansione del deficit pubblico comporterebbe una maggiore emissione di moneta o di titoli del debito pubblico (money drop o bond drop) che genererebbe un prezioso effetto ricchezza e migliori aspettative nel settore privato. Il miglioramento della situazione patrimoniale degli agenti economici privati permetterebbe poi l’aumento di consumi, investimenti e prestiti. Come fa notare Tcherneva (2013, p. 11), non siamo di fronte ad un riconoscimento pieno del ruolo dello Stato: “qualunque effetto sull’occupazione è il risultato combinato di questo effetto ricchezza corretto per le aspettative”.

Si tratta di tesi legate essenzialmente alla Fiscal Theory of the Price Level di Woodford (1995) e agli studi di Bernanke (1999) sulla deflazione giapponese degli anni Novanta, oltre che a contributi di economisti come Blinder (2004), Krugman (2005) e Allsop e Vines (2005). L’idea condivisa da quest’ala del mainstream è che la politica fiscale abbia un impatto positivo sulla domanda grazie all’effetto ricchezza provocato dalla spesa in deficit e che, infatti, non sarebbe possibile nei regimi definiti ricardiani (dove cioè vale il teorema di Barro-Ricardo) che sono la norma nello schema tradizionale del New Consensus (Tcherneva 2008, p. 7). Ad ogni modo, però, resta ferma anche tra questi economisti l’idea mainstream di un livello di disoccupazione tenuto conto del quale gli stimoli fiscali vanno comunque rimossi con largo anticipo per evitare la minaccia inflazionistica (Tcherneva 2013, p. 13). Secondo questi economisti, quando durante una crisi il tasso di interesse è pari o prossimo allo zero (e dunque le autorità monetarie non possono ridurlo ulteriormente), la politica fiscale diventa efficace nello stabilizzare l’economia nel breve periodo. Non si tratta quindi di tesi radicalmente al di fuori del pensiero ortodosso, ma rappresentano sicuramente un’apertura a politiche anticicliche che il pensiero economico finora dominante, sintetizzato analiticamente nel sistema delle tre equazioni richiamato poc’anzi, non contempla affatto.

Non manca infatti tra questi economisti chi ha provato anche a riscrivere lo schema tradizionale del New Consensus. Ci soffermiamo su una proposta realizzata sulla prestigiosa Oxford Review of Economic Policy da Christopher Allsop e David Vines nel 2015. Il modello teorico proposto dai due studiosi ci permette infatti di dare una forma analitica sintetica alle tesi a cui ci stiamo riferendo e, probabilmente, anche a capire dove potrebbero indirizzarsi eventuali prossime evoluzioni del mainstream.

Innanzitutto, bisogna precisare che secondo Allsop e Vines (2015), il modello teorico del New Consensus ha comunque lavorato bene durante il periodo della Grande Moderazione, ossia prima della crisi scoppiata nel 2008, e che la politica monetaria è diventata inefficace solo quando i tassi di interesse hanno raggiunto il limite zero.

Il modello proposto prevede in particolare cinque equazioni. Le prime tre sono una differente declinazione delle tre equazioni viste in precedenza, mentre le due nuove equazioni rappresentano il vincolo di bilancio pubblico e la funzione di reazione della politica fiscale. Allsop e Vines non forniscono una rappresentazione analitica nel proprio lavoro ma, per motivi espositivi, proviamo a produrre noi stessi una versione semplificata del sistema di equazioni di un’economia chiusa a cui si riferiscono gli autori (Allsop e Vines 2015, pp. 145-6):

y – y* = f(r, b)

p = g(y – y*)

r = h(p – pT, b)

g – t = w(ḡ – t)

b = z(g – t)

(y – y*) rappresenta l’output gap, ossia la differenza tra l’output effettivo e l’output potenziale, ed è funzione del tasso di interesse reale r e, per via dell’effetto ricchezza descritto in precedenza, anche del livello del debito pubblico b. La seconda equazione richiama la curva di Phillips, dove p è il tasso di inflazione e dipende essenzialmente dall’output gap. La terza equazione è una funzione di risposta del tasso di interesse simile alla Regola di Taylor, dove r dipende dallo scarto tra il tasso di inflazione effettivo p e il tasso di inflazione obiettivo pT e, questa volta, anche dal debito pubblico b: quando b cresce, infatti, le autorità monetarie tendono ad aumentare il tasso per tenere costante il livello della domanda. La quarta equazione, ossia la funzione di risposta della politica fiscale, esprime il livello del deficit pubblico g – t (differenza tra spesa pubblica e entrate fiscali) come funzione di decisioni governative, per cui è una grandezza data[10]. Infine, il livello del debito pubblico b dipende dal livello del deficit (g – t).

La logica del modello in tempi “normali”, ossia in periodi non segnati da crisi economica, è la seguente: una politica fiscale espansiva (o restrittiva) influenza la domanda aggregata e conduce ad un maggiore (o minore) tasso di interesse (secondo la funzione di reazione del tasso di interesse della nota Regola di Taylor). Adottando il comportamento da “Stackelberg leader” indicato da Bean (1998), il modello prevede che il Tesoro interiorizzi questa prevedibile funzione di reazione delle autorità monetarie e rinunci dunque a qualunque tentazione (ad esempio pre-elettorale) di politica fiscale espansiva oltre il pieno impiego che possa provocare un boom inflazionistico. In termini analitici: quando vi è pieno impiego, g – t non aumenta (e dunque neanche b) perché la crescita di y oltre il suo livello potenziale provocherebbe solo inflazione e la prevedibile reazione delle autorità monetarie. In tempi “normali” operano essenzialmente le prime tre equazioni, arrivando a conclusioni di politica economica del tutto simili al modello standard del New Consensus. Il processo dinamico di interazione tra autorità fiscali e monetarie segue infatti questa logica: una politica fiscale che incrementa il deficit pubblico condurrebbe ad un incremento anche nel debito pubblico futuro. Un incremento del debito pubblico farebbe crescere la ricchezza detenuta dal settore privato stimolando la domanda. Allo stesso tempo, però, un debito pubblico più alto spingerebbe le autorità monetarie ad aumentare il tasso di interesse al fine di mantenere la domanda costante.

Ad eccezione delle tesi sul debito pubblico dettate dall’equivalenza di Barro-Ricardo, quindi, le teorie cardine del New Consensus non vengono rigettate e la politica monetaria conserva il suo potere di determinare il livello della domanda nel breve periodo[11].

Le cose cambiano in periodi di crisi economica. Questo modello a cinque equazioni viene utilizzato infatti nel tentativo di fare quello in cui il tradizionale modello del New Consensus ha fallito: affrontare una crisi come quella scoppiata nel 2008. Poiché durante la Grande Crisi i tassi di interesse toccano il limite zero (zero lower bound) e l’inflazione è per lo più bassa e stabile, la funzione di reazione del tasso di interesse e la curva di Phillips non operano concretamente e vengono messe da parte (Allsop e Vines 2015, pp. 153-154).

Una volta raggiunto lo zero lower bound, quando la politica monetaria perde gran parte della propria efficacia, lo Stato deve aumentare il deficit pubblico (g – t). Il debito pubblico b, che è funzione di (g – t), è destinato quindi ad aumentare. In questo modo si innesta l’effetto ricchezza che induce gli agenti economici ad aumentare la domanda e a ridurre l’output gap y – y* (che è infatti funzione inversa di b). È secondo queste dinamiche che il modello di Allsop e Vines contempla l’intervento pubblico nell’economia durante le crisi economiche.

3. Alcuni aspetti controversi del nuovo modello mainstream

Con riferimento in particolare alla politica fiscale, in quest’ultima sezione ci chiediamo cosa cambia nella sostanza tra le due versioni del New Consensus e se la “nuova” versione sia davvero adeguata ad affrontare la crisi economica.

La rappresentazione analitica proposta in precedenza aiuta a risaltare meglio le differenze tra la versione tradizionale del New Consensus e il modello di Allsop e Vines. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nel nuovo modello vengono introdotte due nuove equazioni (vincolo di bilancio pubblico e funzione di reazione della politica fiscale) e viene incluso il debito pubblico tra le variabili indipendenti della tradizionale funzione di domanda aggregata e della tradizionale funzione di risposta della politica monetaria. Come anticipato, infatti, il nuovo modello teorico si inserisce in quell’ala del pensiero mainstream che vede un ruolo per la politica fiscale, ma si tratta di un ruolo limitato a scenari di zero lower bound e che si esplica principalmente attraverso il canale dell’effetto ricchezza indotto da asset finanziari come, ad esempio, i titoli del debito pubblico detenuti dal settore privato.

Tcherneva (2013, p. 13) metteva in luce i problemi di questo approccio già prima della proposta di Allsop e Vines guardando proprio alle evidenze empiriche degli ultimi anni: l’esplosione delle riserve bancarie tra il 2008 e 2009 non si è tradotta in prestiti a imprese e famiglie e il tanto decantato money drop non ha incrementato consumi e investimenti ai livelli desiderati. È evidente che l’effetto ricchezza indotto dagli asset finanziari posseduti non costituisce né l’unico né il principale canale con cui la politica fiscale va a stimolare la domanda aggregata nella realtà.

Si tratta certamente di un aspetto molto importante, ma proviamo a seguire comunque il ragionamento dei due economisti. Allsop e Vines sostengono che il proprio modello sia più efficace di quello tradizionale perché in una situazione di zero lower bound consente politiche fiscali discrezionali che il modello tradizionale, al contrario, non ammette[12]. Secondo il modello dei due economisti, infatti, durante una crisi, quando l’inflazione è bassa, la crescita del debito pubblico dovrebbe essere ignorata finché le componenti private della domanda aggregata non conoscono una ripresa: solo allora si correrebbe il rischio di surriscaldare l’economia e far crescere eccessivamente i prezzi, riattivando la curva di Phillips e la funzione di reazione delle autorità monetarie[13]. Allsop e Vines (2015, p. 163) scrivono infatti che solo “quando la politica fiscale, insieme alla ripresa nella spesa del settore privato, provoca un incremento della domanda sufficiente a indurre pressioni inflazionistiche” è necessario mettere in atto politiche d’austerità.

Che questo nuovo modello teorico sia davvero in grado di affrontare una crisi economica come quella scoppiata nel 2008 è però quanto meno discutibile[14]. Al contrario dello schema tradizionale del New Consensus, il nuovo modello mainstream apre finalmente alla possibilità di adottare politiche fiscali discrezionali, ma prevede anche che queste politiche di stimolo alla domanda vadano interrotte prima di raggiungere l’output potenziale per evitare pressioni inflazionistiche.

Il concetto di output potenziale a cui fa riferimento l’economia mainstream non è però una verità assoluta o una grandezza oggettiva. Esso non coincide ad esempio con l’idea di produzione di equilibrio di pieno impiego di Keynes, ma si tratta invece del livello di output in cui si trova l’economia quando salari e prezzi sono perfettamente flessibili e, nel breve periodo, corrisponde al livello di disoccupazione raggiunto il quale l’inflazione non accelera (Tcherneva 2008, p. 4). Nella logica mainstream, infatti, il livello dell’occupazione si determina nel mercato del lavoro grazie all’interazione tra le richieste di imprese (domanda) e lavoratori (offerta). Se viene lasciato libero, ad esempio senza interventi normativi che irrigidiscono i rapporti di lavoro e i salari, il mercato del lavoro raggiunge il suo tasso di occupazione naturale[15]. È da questo livello di occupazione che, in combinazione con gli altri fattori produttivi pienamente impiegati, si raggiunge il livello di output potenziale.

Dal punto di vista empirico, la stima di queste grandezze è oggetto di numerose controversie (Gordon 1997; Richardson et al. 2000; Ball 2009). Dal punto di visto teorico è l’intera logica a non reggere secondo gli insegnamenti di Keynes e secondo gli economisti post-keynesiani, per i quali il livello dell’occupazione si determina nel mercato dei beni e non in quello del lavoro (Keynes 1936, capp. XIX-XX). In altre parole, il livello dell’occupazione dipende dalla domanda aggregata e non esiste alcuna tendenza gravitazionale verso un equilibrio determinato dal lato dell’offerta. In uno schema teorico simile, di conseguenza, “la disoccupazione involontaria esiste ed è provocata da un’insufficiente domanda effettiva, non da imperfezioni nel mercato del lavoro” (King 2013, p. 486)[16]. L’ipotesi di produzione naturale supply-determined viene dunque rifiutata. L’inflazione da domanda esiste, ma si tratta di un concetto slegato da qualunque nozione di tasso naturale di disoccupazione (Robinson 1979, p. xix)[17].

Se non esiste un livello naturale della produzione e dell’occupazione, i limiti imposti alla politica fiscale per prevenire la minaccia inflazionistica che Allsop e Vines incorporano nel modello proposto sulla Oxford Review of Economic Policy rischiano quindi di far interrompere gli stimoli fiscali prima di portare l’economia realmente fuori dalla crisi.

L’ipotesi teorica di un output potenziale supply-determined non permette al nuovo modello neanche di raccogliere gli stimoli provenienti dalla stessa letteratura empirica mainstream sugli effetti permanenti che gli shock della domanda hanno sull’output (Ball 2014; Martin et al. 2015; Fatás e Summers 2016)[18]. Dal punto di vista teorico, infatti, sia il modello tradizionale del New Consensus e sia la rivisitazione proposta sulla Oxford Review of Economic Policy condividono il concetto di produzione naturale di ispirazione neoclassica e non possono quindi concepire che nel tempo gli stimoli fiscali finiscano con l’incrementare proprio l’output potenziale.

Secondo la teoria post-keynesiana, al contrario, il livello dell’output potenziale non è indipendente dall’output corrente e quindi neanche dalle componenti della domanda. I post-keynesiani usano infatti la nozione di path-dependency per indicare gli effetti permanenti che gli shock della domanda hanno sull’economia. Come spiegano Arestis e Sawyer (2003, p. 6), lo stock di capitale rappresenta una determinante della capacità produttiva ed il livello della domanda aggregata ha un impatto sulla spesa in investimenti e quindi sullo stock di capitale. Per usare le parole di Setterfield (2002, p. 5), “il tasso di crescita naturale è in definitiva endogeno al tasso di crescita effettivo determinato dalla domanda”. La politica fiscale, di conseguenza, diventa efficace anche nell’incrementare l’output potenziale (Fazzari, 1994-95, p. 233).

La distanza tra la teoria economica mainstream e la teoria economica eterodossa sulla politica fiscale è dunque molto ampia. Tra le teorie degli economisti ortodossi, inoltre, sono state proprio quelle più scettiche verso un ruolo attivo della politica di bilancio a dominare il dibattito economico negli anni precedenti lo scoppio della crisi economica. Come abbiamo visto in precedenza, però, proprio a causa della crisi sono emerse con maggior vigore quelle di economisti mainstream in un certo senso più aperti verso la politica fiscale come Woodford (1995), Blinder (2004) e Krugman (2005) e in larga misura coincidenti con la critica e la rivisitazione modellistica del New Consensus operate da Allsop e Vines (2015).

Dinanzi alle evidenze che continuano ad emergere dal mondo reale, il pensiero economico dominante non può che ammettere i grandi limiti dei propri modelli economici ma, allo stesso tempo, i diversi tentativi a cui assistiamo negli ultimi anni di perfezionare i modelli mainstream con nuove ipotesi ad hoc sono vani ed illusori. La teoria economica dominante affonda le sue radici più profonde nei modelli di equilibrio economico generale e finisce inevitabilmente per limitare l’intervento pubblico dinanzi a presunti livelli naturali della disoccupazione e della produzione.

Il dibattito economico ha un gran bisogno di andare oltre il pensiero unico dell’economia mainstream e di aprirsi concretamente alle teorie degli economisti critici. Un’apertura che deve cominciare dagli angusti e omologanti meccanismi con cui oggi nelle università si valutano i contributi degli studiosi di economia e che deve proseguire nelle analisi delle istituzioni che guidano la politica economica nel mondo.

 

*Università del Sannio

 

L’articolo è una versione rielaborata di un estratto dalla tesi di dottorato dell’autore: “Politica fiscale e crisi economica: teorie, riscontri empirici e una stima del moltiplicatore della spesa pubblica”.

 

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[1] Sono ormai celebri ad esempio le ammissioni dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard. Nel 2012 egli riconosce gli errori di valutazione commessi dal suo istituto nello stimare gli effetti dell’austerità durante la crisi (Blanchard e Leigh 2012) e, più di recente, si spinge fino a mettere in discussione alcuni degli assunti teorici tipici dei modelli economici mainstream oggi più diffusi in un Policy Brief pubblicato dal Peterson Institute (Blanchard 2016).

[2] Come spiegano Philip Arestis e Malcolm Sawyer (2010, p. 329), nelle economie avanzate nei circa vent’anni precedenti lo scoppio della crisi economica “la politica monetaria è stata lo strumento di gestione macroeconomica principale (generalmente orientato all’inflazione) e la politica fiscale ha avuto al massimo un ruolo di supporto nel fornire un elemento di stabilizzazione automatico, in grado di smorzare le oscillazioni dell’attività economica”.

[3] Per una versione più completa si rinvia a Meyer (2001, p. 2). Ai fini di questo articolo il sistema delle tre equazioni viene semplificato per meglio evidenziare le differenze tra la versione tradizionale e quella proposta da Allsop e Vines (2015) soprattutto con riferimento al ruolo della politica fiscale durante le crisi economiche. Semplificazioni dello stesso tenore sulla relazione statica tra tasso di interesse e domanda aggregata e sul ruolo delle aspettative sono infatti adottate anche nella descrizione del Nuovo Consenso da parte dei due economisti (Allsop e Vines 2015, p. 143).

[4] L’equazione è simile alla curva IS del modello della Sintesi Neoclassica e rappresenta la domanda complessiva di beni e servizi del sistema economico.

[5] Infatti, nel breve periodo la curva di Phillips è inclinata negativamente, ma nel lungo periodo (output gap pari a zero) la curva è verticale. Come anticipato, per ragioni di semplicità non approfondiamo il ruolo delle aspettative nel modello. Basti ricordare che introdurre le aspettative nella curva di Phillips tradizionale non ne altera le conclusioni principali: se le autorità tentassero di raggiungere livelli di output superiori a quello potenziale con politiche espansive, i lavoratori adatterebbero le proprie aspettative inflazionistiche e ridurrebbero l’offerta di lavoro. Nel lungo periodo, ad ogni modo, non esiste alcun trade off tra disoccupazione e inflazione e la curva di Phillips è verticale.

[6] Si tratta comunque di oscillazioni di breve periodo dell’output effettivo intorno al suo sentiero potenziale. La motivazione risiede in particolare nella dinamica dei prezzi, che sono vischiosi nel breve periodo ma perfettamente flessibili nel lungo. Per queste ragioni nel breve periodo esiste un trade off tra variazione dell’output e inflazione. Nel lungo periodo, invece, l’output è al suo livello potenziale e la moneta è neutrale. È per questo che i teorici del Nuovo Consenso affidano alla politica monetaria l’obiettivo principale della stabilità dei prezzi nel lungo periodo. Nel modello del Nuovo Consenso, infatti, il ruolo della Banca Centrale è fondamentale. I banchieri centrali sono considerati gli unici in grado di influenzare il livello della domanda senza cadere nella tentazione di aumentarla in momenti inopportuni e quindi, in quanto istituzioni “credibili” e “indipendenti”, viene assegnato loro il potere di gestire la politica monetaria (Sawyer 2009, p. 550). Per una critica all’approccio dell’inflation targeting rinviamo ad Arestis (2009, pp. 9-11).

[7] Nell’equazione della domanda aggregata infatti: (y-ȳ) = f(r). Come già spiegato in precedenza, rinviamo per una versione più completa a Meyer (2001, p. 2) ma, ad ogni modo, lo schema teorico tradizionale del Nuovo Consenso esclude dalla funzione della domanda aggregata qualunque riferimento esplicito alla politica fiscale (Fontana 2009).

[8] L’equazione incorpora infatti un invadente lascito della Nuova Macroeconomia Classica: la controversa ipotesi di agenti economici razionali reattivi alle variazioni di variabili macroeconomiche come il tasso di interesse. L’equazione deriva dal comportamento razionale (o quasi razionale) degli agenti economici che massimizzano la propria funzione di utilità sotto un vincolo di bilancio. Allo scopo di detenere un flusso di consumi costante durante la propria vita, i consumatori ripartiscono il proprio reddito tra consumi correnti e consumi futuri (risparmio) in base alle proprie razionali previsioni ed in base alle variabili macroeconomiche osservate: un tasso di interesse più alto, ad esempio, scoraggia i consumi correnti in favore dei consumi futuri perché il risparmio è oggi meglio remunerato.

[9] Per una descrizione approfondita delle due teorie e per la loro critica si rinvia a Hemming et al. (2002) e Arestis e Sawyer (2003). In questa sede ci limitiamo a rilevare che alla base di queste teorie vi sono ipotesi poco realistiche come l’esistenza di informazioni complete e di aspettative razionali, oltre alla convinzione che risparmi e investimenti dipendano quasi esclusivamente dal tasso di interesse quando invece nella realtà, prima che dal costo del denaro, i risparmi dipendono dal reddito disponibile e gli investimenti dipendono dalle aspettative di profitto degli imprenditori.

[10] Allsop e Vines (2015, p. 145) spiegano che le decisioni politiche sono “guidate dalla preferenza del governo di avere più spesa e meno tasse, ma anche dalla preoccupazione sulla sostenibilità fiscale e dal desiderio di non pagare interessi troppo alti” ed, inoltre, che “la decisione di tenere costante la pressione fiscale al variare del livello dell’output durante il ciclo economico comporta l’attivazione degli stabilizzatori automatici”, ossia una variazione di In altri termini, il livello della spesa pubblica dipende da variabili come i tassi di interesse sul debito pubblico e l’andamento del ciclo economico, ma anche dalle decisioni del governo. Considerando lo scopo di questo lavoro, rappresentiamo per semplicità il deficit come una grandezza “data” dalle scelte finali e discrezionali del governo: .

[11] Il modello rifiuta la tesi dell’equivalenza ricardiana in particolare perché assume l’ipotesi di imperfezione del mercato dei capitali con l’esistenza di individui ed imprese con vincoli di liquidità, ossia incapaci di ottimizzare al meglio le proprie scelte intertemporali di spesa o risparmio (Allsop e Vines 2015, p. 146).

[12] Per dimostrarlo, gli autori ricostruiscono le tappe fondamentali della politica economica delle economie sviluppate dopo lo scoppio della crisi nel 2008 (Allsop e Vines 2015, pp. 150-2). In sintesi: economie come quella statunitense e quella europea reagiscono ai primi segnali della crisi lasciando crescere il deficit pubblico, ma questa prima espansione fiscale riguarda semplicemente l’attivazione di stabilizzatori automatici. Questa fase è considerata coerente con le teorie tradizionali del Nuovo Consenso dato che si tratta di movimenti over-the-cycle. La seconda espansione fiscale, nel 2009, ha invece avuto ad oggetto politiche discrezionali e viene infatti considerata una vera e propria deviazione dallo schema teorico del Nuovo Consenso. Le cose cambiano in seguito al summit del G-20 tenuto a Toronto nel giugno del 2010, quando si decide di interrompere le politiche espansive ed avviare le politiche di austerità. Si tratta di una decisione politica che secondo Allsop e Vines è del tutto coerente con lo schema tradizionale del Nuovo Consenso che infatti, in caso contrario, prevedeva una fiammata inflazionistica.

[13] Gli autori spiegano infatti di non condividere le teorie di Sargent e Wallace (1981) secondo cui un determinato livello di debito pubblico potrebbe condurre alla sua monetizzazione e all’inflazione (Allsop e Vines 2015, p. 153).

[14] Per rendere più immediato e diretto il confronto tra i modelli del Nuovo Consenso ed altri modelli teorici, d’ora in poi con il termine “crisi” intendiamo lo stesso scenario di zero lower bound indicato nel modello teorico di Allsop e Vines (2015).

[15] La visione neoclassica tradizionale descrive un mercato del lavoro in cui da un lato ci sono le imprese disposte a pagare un salario coerente con la produttività marginale del lavoro e, dall’altro, i lavoratori disponibili ad offrire la propria forza lavoro se remunerata con un livello di salario sufficientemente alto da preferire il lavoro (remunerato) al tempo libero (non remunerato). I disoccupati sarebbero quindi “volontari” perché evidentemente non disposti a lavorare al salario determinato dal mercato. Dopo la scoperta della curva di Phillips e i suoi successivi adattamenti, il pensiero economico dominante perfeziona le proprie teorie in merito, ma senza mutare le proprie visioni di fondo sul funzionamento del mercato del lavoro. Dalla seconda metà del Novecento si diffonde infatti la nozione di NAIRU, ossia quel tasso di disoccupazione (naturale) che garantisce la stabilità dei prezzi. Il NAIRU viene considerato sinonimo di piena occupazione, raggiungibile grazie all’operare delle solo forze del mercato, a meno di errori nell’interpretazione dei segnali nei prezzi (Mitchell e Watts 2003, p. 156).

[16] Sia ben chiaro che i post-keynesiani ammettono anche la possibilità di vincoli dal lato dell’offerta che ostacolano la crescita dell’occupazione, ma questa non viene però considerata una situazione generalizzata come nei modelli di ispirazione neoclassica (Lavoie 2014, p. 278; Pizano 2009, p. 96).

[17] La teoria dell’inflazione post-keynesiana è piuttosto eclettica rispetto a quella degli economisti ortodossi e per un approfondimento rinviamo a Smithin (2003, p. 186). In questa sede ci limitiamo a precisare che i seguaci dell’economista di Cambridge non negano l’esistenza dell’inflazione da domanda. Keynes la chiama “true inflation” ed è “provocata da continui aumenti nella domanda dopo aver raggiunto qualche putativa situazione di pieno impiego”, dove per pieno impiego si intende una “misura genuina dell’utilizzazione della capacità produttiva” (Smithin J. 2003, p. 190).

[18] Da questi studi emerge che le crisi economiche hanno l’effetto di distruggere base produttiva tanto da avere effetti di lungo periodo sull’output. Fatás e Summers (2016) individuano in particolare una connessione tra politiche fiscali restrittive e la deviazione (negativa) del trend dell’output potenziale. Se dunque l’evidenza empirica dimostra che l’austerità influenza negativamente anche l’output potenziale, si può ipotizzare anche l’inverso: le politiche fiscali espansive possono influenzarlo positivamente (Krugman 2016).

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