Augusto Graziani sul Mezzogiorno a nove anni dalla morte

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Political and social notes

1 – Sono passati nove anni dalla morte di Augusto Graziani[1]. Siamo in piena discussione pubblica e politica sull’autonomia differenziata e può essere interessante, per ricordarlo, utilizzare le sue categorie di analisi per comprendere gli effetti di questo progetto e il Mezzogiorno nel 2023. In questa nota, mi prefiggo di (i) avanzare una mia interpretazione del pensiero di Graziani sullo sviluppo dell’economia del Mezzogiorno, a partire da alcune sue considerazioni in materia; (ii) proporre una razionalizzazione – nella parte conclusiva – delle teorie di Graziani sull’argomento. 

Si parta innanzitutto da una duplice constatazione.

  1. Il sottosviluppo meridionale è stato accentuato dalla riduzione dei trasferimenti pubblici nelle aree meno sviluppate dei Paese. L’Agenzia di coesione territoriale calcola che sulla spesa pubblica complessiva italiana – pari a 1.202,4 miliardi nel 2020 – al Centro-Nord sono stati destinati 20.088 per ogni residente, mentre al Sud sono stati assegnati 15.703. Banca d’Italia calcola un risultato peggiore per il Sud (12.979 contro 11.836). Gli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno sono passati dal 17,5% del 1998 al 15,4% del 2013, in corrispondenza con lo scoppio della crisi dei debiti sovrani, l’avvio delle politiche di austerità e il blocco del turnover nel pubblico impiego.
  2. Come ha messo in evidenza SVIMEZ, esiste una evidente contraddizione fra il progetto dell’autonomia differenziata e il PNRR. Il PNRR si propone, infatti, come obiettivo fondamentale, la riduzione degli squilibri regionali in Italia, da realizzarsi attraverso interventi per la crescita delle regioni meridionali. Non vi è dubbio sul fatto che il regionalismo della Destra sottrae risorse al Sud: lo fa mediante l’attribuzione alle Regioni di più poteri, senza LEP, senza LEA e senza ulteriori oneri per la finanza pubblica, ovvero con la spesa storica. Su tratta innanzitutto di una procedura di riforma dell’assetto istituzionale del Paese che è di dubbia aderenza con il dettato costituzionale. Su questo aspetto, si può leggere ed eventualmente firmare questa petizione: https://sbilanciamoci.info/una-firma-contro-lautonomia-differenziata-delle-regioni/

La teoria economica che sorregge l’autonomia differenziata si basa su queste due visioni:

  1. la c.d. teoria dello sgocciolamento (trickle-down economics), ovvero la creazione, per legge, di diseguaglianze territoriali con l’aspettativa che le economie del Mezzogiorno siano trainate dalle locomotive del Nord: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

Si tratta di una teoria economica sbagliata, la cui applicazione non potrà che peggiorare la condizione sia del Sud sia del Nord. Infatti, è falso che il Sud cresce se il Nord cresce. È vero il contrario: deve crescere prima il Sud per produrre Pil al Nord, come certificato dalla Banca d’Italia e da ricerche effettuate presso le Università di Bari e del Salento.

L’economia meridionale è un’economia nella quale sono ancora alti i consumi ed è bassa la produzione di beni esportabili. In più, la propensione alle esportazioni da parte delle imprese locali è a sua volta irrisoria. Non ha quindi alcun senso aspettarsi che un aumento della produzione al Nord attivi produzione al Sud: ha senso ritenere, per contro, che l’ampliamento del mercato di sbocco nel Mezzogiorno avvantaggia anche le imprese settentrionali che operano sul mercato interno.

Quest’ultima conclusione è rafforzata dal calcolo dei valori dei moltiplicatori fiscali cumulati a più anni. Si tratta di una metodologia di calcolo introdotta dalla Banca d’Italia di recente e che consiste in questo. Capriati, Deleidi e Viesti (2022) giungono alla conclusione per la quale la spesa pubblica, in Italia, ha effetti positivi sul Pil anche a distanza di 10 anni dallo stimolo fiscale, con una ricaduta maggiore degli investimenti pubblici rispetto ai consumi (privati e pubblici); i moltiplicatori, anche a dieci anni, cumulati interregionali sono maggiori nel trasferimento di risorse al Sud rispetto al trasferimento di risorse al Nord. Dunque, gli stimoli fiscali nel Mezzogiorno avvantaggiano anche le imprese private del Nord (https://eticaeconomia.it/che-impatto-macroeconomico-puo-avere-il-pnrr-nel-mezzogiorno/).

  • La teoria della responsabilizzazione delle classi dirigenti, per la quale al Sud la classe politica è qualitativamente peggiore di quella del Nord (il che sembra essere vero) e va moralizzata sottraendo risorse. L’adagio per il quale “è solo rendendo le risorse scarse che se ne incentiva un uso efficiente” è alla base di questa teoria.

Il problema qui è duplice. Innanzitutto, al Sud i politici hanno mediamente un’età più elevata (al di sopra dei 40 anni) e, a parità di altre variabili, ciò spiega il loro maggiore disinteresse e la loro minore capacità di occuparsi del bene comune. Hanno questa età perché, dato un tasso di disoccupazione molto alto, sono in tanti a candidarsi (anche perché gli incarichi sono ben retribuiti) e i più anziani riescono ad avere una rete di conoscenze più ampia perché hanno avuto più tempo per generarla. In secondo luogo, molti comuni del Nord sono e sono stati gestiti da un ceto politico che è stato efficacemente addestrato nelle scuole di formazione del PCI o della DC; partiti attenti a formare una vera classe dirigente. Il Mezzogiorno è tradizionalmente appartenente a una Destra politica che non ha mai efficacemente selezionato bene i suoi candidati e i funzionari dello Stato, creandone o trasferendo competenze amministrative, progettualità, idee di sviluppo e competenze burocratiche, economiche e di tecniche giuridiche.

2 – La regionalizzazione dell’istruzione, uno dei punti cardine dell’autonomia differenziata nella versione della bozza recentemente licenziata dal Ministro Calderoli, rischia di contribuire a impoverire culturalmente ed economicamente non solo il Mezzogiorno, ma anche il Paese nella sua interezza. Si tratta della proposta di far gestire le scuole direttamente alle Regioni, che dovrebbero occuparsi in via diretta del reclutamento dei professori, attingendo al loro bilancio. Non è questa la sede per trattare aspetti di natura qualitativa, relativi al contenuto degli insegnamenti regionali. Avremo bisogno di qualche anno per valutarne l’impatto – verosimilmente molto negativo – sulla produttività del lavoro dei giovani. Quello che interessa maggiormente valutare, ad oggi, è l’effetto stimabile (per grandi linee) della revisione istituzionale in corso sui bilanci regionali al Sud: è acclarato, infatti, nella letteratura scientifica specialistica che i costi monetari complessivi del disegno autonomista, pur essendo molto alti per quanto attiene alla sottrazione di risorse al Sud, non sono facilmente quantificabili.

Occorre innanzitutto chiarire che l’idea della scuola regionale ha il suo fondamento (teorico, in senso lato) nella convinzione che occorre formare individui da destinare, come lavoratori, a impieghi immediatamente utilizzabili nelle imprese già esistenti al Nord. In più, la scuola regionale, secondo soprattutto la Lega, trasmetterebbe l’identità locale alle future generazioni, secondo una logica di trasmissione ereditaria della “piccola patria” lombardo-veneta.

Questo processo impone all’intera economia italiana una perdita secca: nel lungo periodo, nessuno ci guadagna e ciò è facilmente dimostrabile. Infatti, la sottrazione di risorse al Mezzogiorno non può che incentivare ulteriormente, nell’immediato, un’accelerazione delle migrazioni intellettuali. Il Nord assorbe molti giovani che emigrano dal Sud e dovrebbe essere suo interesse e sua convenienza – per disporre di forza-lavoro produttiva ed efficiente – avere una scuola ben funzionante al Sud. In più, dovrebbe essere primario interesse del Nord avere una scuola ben funzionante innanzitutto nelle sue regioni. Ma così non è, come ripetutamente certificato nelle analisi degli Istituti di ricerca nazionali e internazionali sulla formazione dei giovani italiani.

Questa convinzione si associa all’idea per la quale il Paese ha bisogno di differenziare anche le sedi universitarie, andando nella direzione di creare “Università orientate alla sola didattica” (teaching universities) – nelle quali si erogano solo lauree triennali – e “Università orientate anche alla ricerca scientifica” (research universities) – nelle quali si offrono anche lauree magistrali e dottorati di ricerca. Questa “riforma”, sollecitata da molti economisti, alcuni dei quali vicini al PD e comunque della sinistra liberista, viene sollecitata dall’idea per la quale è solo finanziando “centri di eccellenza” che si produce buona ricerca scientifica. L’attuale normativa sui Dipartimenti di eccellenza, combinata con l’abolizione degli assegni di ricerca e la loro sostituzione con costosissimi contratti di ricerca, si muove, di fatto, ancorché non formalmente, in questa direzione. Si va – ed è questo “il non detto” (perché politicamente difficile da far digerire alle famiglie meridionali) – verso la differenziazione fra sedi universitarie di serie A e sedi universitarie di sedi B, con le prime localizzate a Nord.

Le poche e decrescenti risorse che l’Italia, da molti decenni (da quando, cioè, la classe politica post-tangentopoli ha deciso di smettere di scommettere sulla conoscenza come fattore di crescita), destina al settore della formazione danno risultati pessimi per quanto attiene all’apprendimento. Le tecnologie già oggi usate nei centri dello sviluppo capitalistico (Cina, Germania, USA), e che sempre più inevitabilmente conteranno, richiedono, come diffusamente osservato da ingegneri e psicologi, competenze trasversali e non immediatamente utilizzabili nelle imprese. Richiedono, cioè, la capacità di imparare ad apprendere, non il semplice (novecentesco) “apprendere facendo” (il c.d. learning by doing). L’imparare studiando (il c.d. learning by schooling) assume un ruolo ancora più importante.

Una recente ricerca dell’Università di Bari certifica che, già oggi, nel Mezzogiorno, la scuola è notevolmente più costosa che al Nord, a ragione della maggiore anzianità di servizio dei professori. La sottrazione di fondi derivante dalla scuola regionale in regime di autonomia differenziata non potrà che comportare ulteriore invecchiamento della classe docente (e probabile aumento dei supplenti, con invece eccesso di domanda di insegnanti al Nord), con conseguente peggioramento della qualità della didattica (essendo il personale stanco, demotivato e poco aggiornato) e conseguente ulteriormente riduzione della produttività del lavoro. Si ricordi, a riguardo, che già oggi le scuole del Mezzogiorno hanno una produttività bassissima e di gran lunga inferiore a quella media europea: a testimoniarlo è soprattutto INVALSI.

Il problema nasce dal fatto che la produttività del lavoro – tramite migrazioni intellettuali, dei diplomati, dei laureati, dei dottori di ricerca (pochi in numero questi ultimi) – verrà trasferita nelle regioni del Nord. L’impoverimento culturale del Sud, in sostanza, non conviene a nessuno.

3 – Gianfranco Viesti ha opportunamente definito il progetto di autonomia differenziata “la secessione dei ricchi”. I principali argomenti che possono essere usati per opporvisi sono i seguenti:

  1. Esistono già rilevanti sperequazioni territoriali nella fornitura di servizi essenziali, che si sono create (o notevolmente accentuate) proprio a seguito della spinta federalista dei primi anni Duemila[2].
  2. Secondo la bozza Calderoli, il progetto autonomista si baserà sulla spesa storica. Il criterio della spesa storica significa reiterazione dell’esistente, in assenza di uniformità territoriale dei servizi: dunque, conferma degli squilibri regionali, a meno di non confidare in un aumento dell’efficienza gestionale a seguito della riduzione dei trasferimenti.

Per contro, l’opposizione politica parlamentare rivendica la necessità di formalizzare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e di assistenza (Lea) nella sanità. I Lep, nella definizione datane dal Ministero per il Sud e la coesione territoriale del Governo Draghi (al quale risale il primo tentativo di quantificazione, dopo la loro previsione oltre 22 anni fa), sono quei servizi e quelle prestazioni di carattere sociale che lo Stato deve garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Questi servizi sono erogati dagli Enti locali data la condizione che il loro godimento sia uniforme sul territorio nazionale, ovvero che non esistano discriminazioni fondate sul luogo di residenza. Non esiste, ad oggi, una quantificazione dei Lep, se non parziale, appunto voluta dal Governo Draghi.

Nel riparto delle risorse su scala regionale, si è fin qui proceduto in base al criterio cosiddetto della spesa storica: le risorse sono state assegnate sulla base di quanto già speso dall’ente per il medesimo servizio. Il risultato è che gli enti che assicuravano determinati servizi hanno ricevuto più risorse rispetto agli enti che non li avevano mai erogati.  È solo nel Disegno di Legge di Bilancio (2022) che si è proceduto a definire i Lep per gli asili nido, il trasporto scolastico degli studenti disabili e per gli assistenti sociali, recependo le direttive del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

È bene chiarire che la quantificazione del Lep è un fatto eminentemente politico, non tecnico, dal momento che il rispetto dei Lep necessita di finanziamenti la cui fonte non può che dipendere da decisioni del Parlamento (le agenzie “tecniche” sono solo un surrogato a eventuale copertura di deficit di democrazia parlamentare)[3].

  • Vi sono poi problemi tecnici nella quantificazione dei cosiddetti residui fiscali, sulla cui base verrebbe stabilita la quantità di entrate fiscali che ciascun territorio può trattenere in loco. Innanzitutto, il calcolo dovrebbe anche tener conto delle produzioni intermedie meridionali che entrano nelle produzioni finali delle imprese del Nord. In secondo luogo, il residuo fiscale subisce significative oscillazioni nel tempo correlate al ciclo economico e alle politiche economiche ed è peraltro molto differenziato all’interno dei territori più ricchi. Si calcola, a riguardo, che ben il 60% del Pil lombardo viene prodotto nella sola città di Milano. La spinta secessionista potrebbe diventare incontrollabile, producendo istanze di rivendicazione di risorse sempre più localistiche.
  • Il progetto autonomista, secondo autorevoli costituzionalisti, confliggerebbe in modo stridente con il dettato costituzionale, sebbene sia formalmente ammissibile. Viene sostenuto che il rafforzamento delle competenze regionali su molte materie[4] confligge con il patto di solidarietà della nostra Costituzione. In tal senso, i meridionalisti che si riconoscono nella “Carta di Venosa” propongono di rivedere gli articoli della Costituzione che danno spazio a istanze secessionistiche.

Vi è poi da considerare che l’autonomia differenziata potrebbe costituire un boomerang per le stesse regioni del Nord. Per comprenderne le ragioni, si parta dalla constatazione per la quale il Mezzogiorno non è più un rilevante mercato di sbocco per le imprese del Nord. Non lo è a causa del calo dei consumi, imputabile alla crescita del tasso di disoccupazione e della povertà, dell’incidenza del lavoro precario, della denatalità (quest’ultima più intensa a Sud che a Nord): è stato calcolato che la perdita di prodotto tra il 2007 e il 2019 è stata pari al 2% nel Centro-Nord e al 10% nel Mezzogiorno, confermando quella che nell’ultimo rapporto della Banca d’Italia sui divari territoriali viene considerata una tendenza (all’aumento appunto di tali divari) comune alla gran parte delle economie avanzate, Germania esclusa.  Contestualmente, la Germania ha rafforzato la sua posizione di primo mercato di sbocco delle merci e dei prodotti intermedi italiani (esportiamo prevalentemente componentistica auto, chimica, metalli, apparecchi elettrici e prodotti alimentari, fra i quali ortaggi e frutta)[5]. In tal senso, la richiesta di autonomia può essere letta come il tentativo, per le regioni del Nord, di accelerare la loro integrazione con l’economia tedesca, in una condizione di estrema crisi dell’industria del Nord. Il problema, posta la questione in questi termini, è che il Nord finirebbe per sincronizzare il suo ciclo economico a quello della Germania, rischiando di diventarne l’area più debole. Peraltro, senza voce in capitolo sulle decisioni di politica economica lì assunte.

La regionalizzazione dell’istruzione, uno dei punti cardine dell’autonomia differenziata nella versione della bozza del Ministro Calderoli, rischia di contribuire a impoverire culturalmente ed economicamente non solo il Mezzogiorno, ma anche il Paese nella sua interezza anche per un altro canale. Si tratta della proposta di far gestire le scuole direttamente alle Regioni, che dovrebbero occuparsi in via diretta del reclutamento dei professori, attingendo al loro bilancio. Non è questa la sede per trattare aspetti di natura qualitativa, relativi al contenuto degli insegnamenti regionali. Avremo bisogno di qualche anno per valutarne l’impatto – verosimilmente molto negativo – sulla produttività del lavoro dei giovani. Quello che interessa maggiormente valutare, ad oggi, è l’effetto stimabile (per grandi linee) della revisione istituzionale in corso sui bilanci regionali al Sud: è acclarato, infatti, nella letteratura scientifica specialistica che i costi monetari complessivi del disegno autonomista, pur essendo molto alti per quanto attiene alla sottrazione di risorse al Sud, non sono facilmente quantificabili.

Occorre innanzitutto chiarire che l’idea della scuola regionale ha il suo fondamento nella convinzione che occorre formare individui da destinare, come lavoratori, a impieghi immediatamente utilizzabili nelle imprese del Nord, secondo una visione funzionalistica e breveperiodista dell’istruzione. In più, la scuola regionale, secondo soprattutto la Lega, trasmetterebbe l’identità locale alle future generazioni, secondo una logica di trasmissione ereditaria della “piccola patria” lombardo-veneta.

Questo processo impone all’intera economia italiana una perdita secca: nel lungo periodo, nessuno ci guadagna e ciò è facilmente dimostrabile. Infatti, la sottrazione di risorse al Mezzogiorno non può che incentivare ulteriormente, nell’immediato, un’accelerazione delle migrazioni intellettuali. Il Nord assorbe molti giovani che emigrano dal Sud e dovrebbe essere suo interesse e sua convenienza – per disporre di forza-lavoro produttiva ed efficiente – avere una scuola ben funzionante al Sud. Di conseguenza, tramite i flussi migratori, la produttività del lavoro al Nord – per effetto della minore dotazione di risorse della scuola del Sud – potrebbe non aumentare.

Le poche e decrescenti risorse che l’Italia, da molti decenni (da quando, cioè, la classe politica post-tangentopoli ha deciso di smettere di scommettere sulla conoscenza come fattore di crescita), destina al settore della formazione danno risultati pessimi per quanto attiene all’apprendimento. Le tecnologie già oggi usate nei centri dello sviluppo capitalistico (Cina, Germania, USA), e che sempre più inevitabilmente conteranno, richiedono, come diffusamente osservato da ingegneri e psicologi, competenze trasversali e non immediatamente utilizzabili nelle imprese. Richiedono, cioè, la capacità di imparare ad apprendere.

Una recente ricerca dell’Università di Bari certifica che, già oggi, nel Mezzogiorno, la scuola è notevolmente più costosa che al Nord, a ragione della maggiore anzianità di servizio dei professori. Il problema nasce dal fatto che la produttività del lavoro – tramite migrazioni intellettuali, dei diplomati, dei laureati, dei dottori di ricerca (pochi in numero questi ultimi) – verrà trasferita nelle regioni del Nord. L’impoverimento culturale del Sud, in sostanza, non conviene a nessuno. Si approfondisce solo ciò che Luca Bianchi – SVIMEZ – definisce divario di cittadinanza.

4 – Nel 1991, Augusto Graziani, scriveva: “l’economia del Mezzogiorno ha trovato un suo equilibrio da economia sussidiata, dotata di scarsa capacità produttiva ma di flussi regolari di spesa pubblica. Anche la società del Mezzogiorno si è andata adeguando a questo schema, ed è oggi dominata da un ceto di politici, amministratori, mediatori affiancati da un ceto altrettanto nutrito di esperti, professionisti, intellettuali. Questo blocco sociale, che si è mostrato capace non soltanto di procurarsi il consenso locale ma anche di ottenere l’appoggio esterno, si tiene saldamente in sella […] Se l’economia del Mezzogiorno dovesse un giorno disporre di un saldo tessuto produttivo, se una classe lavoratrice stabile diventasse il nerbo della nuova società del Mezzogiorno, i ceti dominanti di oggi sarebbero inesorabilmente disarcionati”. Nessuna sorpresa quindi se “la classe sociale che oggi controlla la spesa pubblica del Mezzogiorno mantiene comportamenti che si presentano di fatto ostili all’industrializzazione”.

Questo passaggio è di massima rilevanza per analizzare gli impatti della riduzione dei trasferimenti pubblici nel Mezzogiorno che si è determinato negli ultimi anni, dopo Graziani. L’idea della Destra per la quale la scarsità di risorse spinge a comportamenti virtuosi regge su un’impostazione teorica discutibile, che si basa sull’attribuzione al politico di un criterio di razionalità strumentale in un contesto di perfetta informazione. In ambito istituzionalista, per contro, l’informazione è assunta incompleta e soprattutto si ritiene che i comportamenti sono trainati da norme sociali e morali e da “istinti” (Forges Davanzati, 2006). La riduzione della spesa pubblica in un’area in ritardo di sviluppo e periferica può spingere la classe dirigente locale – ovvero le istituzioni in senso formale – e gli operatori economici del luogo a intensificare il c.d. “scambio di favori” (logrolling[6]), con effetti di segno negativo sul tasso di crescita dell’area considerata.

Il Mezzogiorno, dall’inizio degli anni Novanta, ha visto sempre e significativamente ridursi i flussi di spesa pubblica indirizzata dallo Stato centrale e, per dirla con Graziani, ha dovuto trovare un suo nuovo “equilibrio”, che si è tradotto in un netto peggioramento delle sue condizioni, certificato empiricamente da un continuo aumento dei divari regionali anche a partire da quegli anni (v. SVIMEZ 2022; Banca d’Italia, 2022). Dunque, la tesi del Governo non regge alla prova della Storia recente: la riduzione della spesa pubblica nel Mezzogiorno sembra ridurre, non accrescere, l’efficienza.

La prima conclusione alla quale si arriva – a partire da Graziani (ma estendendo Graziani alla luce delle mie considerazioni) – è dunque che la riduzione della spesa pubblica non è lo strumento efficace per migliorare la qualità della classe politica meridionale.

5 – Il PNRR, a sua volta, è a rischio nel Mezzogiorno. A fronte dell’obiettivo del raggiungimento del 40% del totale degli investimenti, ad oggi si è raggiunto solo il 34% e, soprattutto, con la decurtazione di fondi derivante dall’attuazione “pura” dell’autonomia differenziata ci si allontanerà inevitabilmente sempre più dalla sua realizzazione, con evidente danno per i residenti al Sud in termini di servizi pubblici offerti. La causa fondamentale risiede nei problemi di funzionamento dell’apparato pubblico, con forte sottodimensionamento (v. figura 1, in basso), età media elevata e titoli di studio bassi dei dipendenti pubblici (cfr. Aimone Gigio, 2022).

Occorre osservare che (i) contrariamente all’interpretazione dominante, l’inefficienza della pubblica amministrazione non è il risultato della scarsa attitudine al lavoro dei suoi dipendentiné dall’assenza di incentivi alla produttività. La pubblica amministrazione nel Mezzogiorno è resa inefficiente da specifici provvedimenti di politica economica, segnatamente dal blocco del turnover operato a partire del 2007 e con accelerazione durante il Governo Monti[7]; (ii) un aumento delle assunzioni nel pubblico impiego produce effetti positivi sulla crescita economica attraverso due canali. In primo luogo, agevola il rapporto pubblico-privato a vantaggio delle imprese private e, dunque, con potenziali benefici per la dinamica degli investimenti. In secondo luogo, riducendo il tasso di disoccupazione, inibisce modalità di competizione basate sulla compressione dei salari (e, dunque, della domanda interna), incentivando le innovazioni (cfr. Mazzuccato, 2014); (iii) il blocco del turnover è stato motivato con l’obiettivo di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, ma ha solo contribuito a garantire l’avanzo primario, a fronte di una spesa per interessi sul debito –  e di una modesta dinamica del Pil – tale da generare un costante aumento di quel rapporto (v. https://www.truenumbers.it/avanzo-primario-italia/).

Fig.1: età media e numero di dipendenti nella P.A. italiana

La Fig. 1 mostra l’andamento del numero di dipendenti nella pubblica amministrazione dal 2008 (il blocco del turnover ha inizio con la Legge Finanziaria del 2007) al 2019. Il leggero aumento del numero di dipendenti che si registra fra il 2018 e il 2019 è dovuto allo sblocco parziale avvenuto nel 2019. Il D.L. 34/2019 al quale si deve lo sblocco ha anche stabilito un diverso funzionamento del turnover per gli enti locali a partire dal 2020, che viene calibrato non più sui pensionamenti in essere ma sull’andamento del bilancio[8].

6 – Graziani elaborò, a partire dagli anni Settanta, un’ipotesi interpretativa sul modello di sviluppo esistente in quegli anni per l’economia italiana estremamente originale, che si può innestare nella c.d. Legge di Kaldor e darne una versione più ampia: mentre la Legge di Kaldor stabilisce che l’aumento della domanda aggregata, derivante soprattutto dall’aumento delle esportazioni, accresce la produttività del lavoro (per l’operare di economie di scala e di effetti di learning by doing), la sua versione ampliata con l’ipotesi di Graziani si traduce in questa sequenza di eventi:

Sequenza 1: domanda estera, qualità del prodotto e crescita economica trainata dal settore innovativo

La sequenza 1 descrive gli effetti della domanda aggregata (Y) sull’occupazione (L), non solo e non necessariamente (come invece in Kaldor) sulla produttività, e dunque sul tasso di crescita (g), ma innanzitutto sull’occupazione. La sequenza è riferita al settore innovativo, mentre il settore tradizionale – secondo Graziani, presente soprattutto nel Mezzogiorno – non esporta[9].

Un aumento esogeno della domanda estera e un miglioramento contestuale della qualità delle produzioni esportabili italiane (nei settori ad alta intensità tecnologica ma anche nel settore dei beni di lusso) traina l’aumento della domanda aggregata anche a beneficio del settore tradizionale. Ciò a ragione dell’aumento della domanda di prodotti intermedi e di input che si rivolge dal settore innovativo al settore tradizionale: segue un aumento dell’occupazione e del tasso di crescita, anche in costanza dell’andamento della produttività dei fattori[10].

Lo sviluppo economico italiano era, dunque, consentito dall’esistenza di settori merceologici nei quali è tecnicamente possibile innovare, cioè nei quali all’aumento esogeno della domanda da resto del mondo si può rispondere con miglioramenti qualitativi. Ciò accadeva perché la qualità del prodotto è funzione dell’intensità tecnologica – misurata (oggi) dal rapporto [investimenti (pubblici e privati) /R&D] – o dal lavoro specializzato artigianale nel settore dei beni di lusso.

Le conclusioni alle quali si perviene a partire da questa rilettura del contributo di Graziani sono le seguenti:

  • A partire dagli anni Novanta, in corrispondenza con l’accelerazione del processo di globalizzazione, come mostra l’evidenza empirica, la crescita economica del nostro Paese è stata lasciata a un solo settore, quello dei beni di lusso e del Made in Italy, peraltro sempre più residuale (perché il Nord sviluppato lavora sempre più con contratti di subfornitura verso il Nord d’Europa), avendo il nostro Paese rinunciato al mantenimento e al rafforzamento dell’impresa pubblica in settori tecnologicamente di avanguardia.
  • Seguendo Graziani, questa scelta è stata negativa nel lungo periodo e miope, anche perché (i) ha contribuito alla riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia, (ii) ha accentuato la dipendenza delle nostre imprese, nel loro complesso, dal credito bancario e dai mercati finanziari.

Infatti, l’impresa pubblica non soggiace al problema del potenziale razionamento del credito, dal momento che il suo finanziamento non dipende dal settore bancario ma dal disavanzo pubblico.

Riferimenti biblliografici

Aimone Gigio, L. et al. (2022). Il personale negli Enti territoriali. Il Mezzogiorno nel confronto con il Centro-Nord. Banca d’Italia (Occasional papers), n.677.

Banca d’Italia (2022). Il divario Nord-Sud: sviluppo economico e intervento pubblico. Roma.

Bellofiore, R. (2020). Augusto Graziani and the Marx-Schumpeter-Keynes ‘Cycle of Money Capital’: A Personal Look at the Early Italian Circuitism from an Insider, “Review of Political Economy”, pp.528-558.

Capriati, M., Deleidi M. e Viesti, G. (2022). Che impatto macroeconomia può avere il PNRR nel Mezzogiorno? “Menabò di Etica&Ecconomia”, n.174.

Dutt, A.K. (2012). Distributional dynamics in PostKeynesian growth model, “Cambridge Journal of Economics”,

Forges Davanzati, G. (2014a). Obituary of Augusto Graziani, www.postkeynesian.net (ora in Archivio Augusto Graziani on-line).

Forges Davanzati, G. (2014b). Il pensiero economico di Augusto Graziani, “Il pensiero economico italiano”, XXII, n.1, pp. 183-195.

Forges Davanzati, Pacella, A. and Patalano, R. (2015). The Keynesian features of Graziani’s monetary theory of production and some unresolved issues, “Review of Political Economy”, vol.27 (4), pp.565-584, October.

Graziani, A. Blog/Archivio (2022) https://augustograziani.com/blog/

Mazzucato, M. (2014). Lo Stato innovatore. Bari-Roma: Laterza.

Pieraccini, S. (2023). La ripresa anticipata che rende orgogliosi, “Il Sole 24 ore: Moda24 – Speciale Moda Uomo”, 10 gennaio 2023.

SVIMEZ (2022). Rapporto sull’economia del Mezzogiorno. Roma http://lnx.svimez.info/svimez/il-rapporto/].

Augusto Graziani (1933-2014)


[1] Si veda Forges Davanzati (2014a) per uno dei primi obituari dopo la sua morte. Per una completa ricostruzione del suo pensiero – sull’economia italiana, sulla moneta e le banche, sulla Storia del pensiero economico – si veda Bellofiore (2020) e l’Archivio Augusto Graziani on-line (cfr. Graziani, 2022).

[2] Nel Rapporto ISTAT “Nidi e servizi educativi per l’infanzia” si legge che i posti disponibili nei nidi e nei servizi integrativi pubblici corrispondono al 12.3% del bacino potenziale di utenza al Sud, a fronte di una media nazionale del 24.7%, nell’anno scolastico 2017-2018. Si tratta peraltro di una dotazione notevolmente inferiore all’obiettivo del 33% fissato dal Consiglio europeo di Barcellona del 2022 per sostenere l’occupazione femminile. Altre sperequazioni si ritrovano in altri servizi comunali e nella spesa infrastrutturale dei Ministeri. Su fonte ISTAT, la spesa statale per i servizi socioeducativi destinati ai bambini pugliesi ammonta a circa un sesto rispetto a quella sostenuta per i coetanei nati in Emilia-Romagna. In Lombardia è circa tripla e in Veneto doppia. A Milano circa il 90% dei bambini può usufruire del tempo pieno a scuola, a fronte del solo 4% di Palermo. Il 17.1% delle scuole italiane del primo ciclo è privo di palestre e strutture sportive, con una percentuale che sale al 23.4% al Sud. Gli investimenti del PNRR nell’ambito dei trasporti assegnano alla Puglia l’8.09% del totale delle risorse destinate all’acquisto di autobus urbani a emissioni zero. Alla Lombardia, invece, andrà il 17.36%.

[3] Devo al prof. Gianfranco Viesti questa precisazione.

[4] Scuola, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, tutela della salute, istruzione, tutela del lavoro, rapporti internazionali e con l’Unione europea.

[5] Pieraccini (2023) documenta che il segmento del lusso, nell’Italia del 2022, ha registrato notevoli espansioni, soprattutto per quanto attiene alla moda maschile. Confindustria Moda rileva un incremento dei ricavi nel 2022 di circa l’11% rispetto al 2019, con Pitti uomo che diventa il più importante salone al mondo per questo genere di produzioni.

[6] Un fenomeno analogo, la cui analisi andrebbe sviluppata, è il c.d. barn-raising, che trae il nome dall’uso fra vicini, nei campi, di aiutarsi per la costruzione di granai per “reciprocare” (ovvero per attendersi l’aiuto del vicino a costruire il proprio).

[7] Per una ricostruzione degli effetti del blocco del turnover si rinvia a https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-blocco-e-sblocco-del-turnover-gli-effetti-sulla-pa

[8] La possibile obiezione è che le assunzioni nel pubblico impiego rendono il mercato del lavoro eccessivamente “stretto”, rafforzando i lavoratori come gruppo sociale e generando incrementi salariali, i cui effetti sono alimentare ulteriori pressioni inflazionistiche e generando fallimenti di imprese, a ragione dell’aumento dei costi. Tuttavia, è stato fatto osservare che la riduzione del tasso di disoccupazione, implicando un aumento dei salari, incentiva l’avanzamento tecnico e, dunque, determina incrementi di produttività. In più, l’ampliamento del perimetro della P.A. italiana – in linea con la dotazione di personale della media europea – fa funzionare il PNRR (Dutt, 2012).

[9] Si è qui in presenza del c.d. paradosso di Kaldor, ovvero della constatazione per la quale i consumatori, nei marcti internazionali, si orientano all’acquisto di beni con prezzo elevato a condizione che la qualità sia molto alta. Ho esteso altrove questo caso effetto di Veblen, per stabilire che è il prezzo alto a segnalare un’elevata qualità del prodotto e, dunque, in date condizioni, a incentivare elevata quantità domandata.

[10] La matrice keynesiana di questa impostazione è stata trovata da Forges Davanzati et al. (2015).

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