La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis 2022)

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Political and social notes

La guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, arricchita dalla postfazione di Roberto Scazzieri, riprende e attualizza una delle più importanti tesi di Marx: la tendenza verso la centralizzazione del capitale, “una tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani, che disgrega l’ordine liberaldemocratico e alimenta la guerra militare tra nazioni”. Come sottolineano gli autori nella introduzione, all’interno del libro viene spiegato e approfondito “il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia” (p. 9). L’intuizione di Marx relativa al processo di centralizzazione dei capitali viene pertanto trattata e approfondita alla luce delle recenti dinamiche economiche internazionali. La forza della legge relativa alla centralizzazione del capitale viene aggiornata e sistematizzata grazie alla network analysis. Gli autori calcolano un nuovo indice di network control che misura la percentuale degli azionisti detentori dei pacchetti di controllo della parte preponderante del capitale azionario quotato nelle borse (p. 99-137). In tal modo è possibile pervenire al “valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107) .
Attraverso l’impiego di un modello vettoriale autoregressivo bayesiano (che viene ben spiegato in modo molto chiaro nella appendice a cura di Milena Lopreite e Michelangelo Puliga) Brancaccio, Giammetti e Lucarelli possono mettere in relazione la politica monetaria delle Banche Centrali con gli indici di centralizzazione precedentemente ricavati: una politica monetaria restrittiva, cioè un aumento dei tassi di interesse, “conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale” (p. 124). Questo risultato sorprende gli autori (la novità in effetti esiste, se si considera l’analisi econometrica), ma è dentro la logica e il funzionamento del sistema capitalistico: se infatti consideriamo i recenti aumenti dei tassi di interesse della BCE – senza entrare nel merito della utilità o meno dell’operazione – è del tutto evidente che sono poche le società che possono generare dei profitti sufficienti per compensare l’aumento dei tassi. Pensando all’Europa, l’aumento dei tassi determinerà non tanto la morte di alcune imprese, piuttosto una riorganizzazione verticale delle stesse dal basso verso l’alto o, in altri termini, dalla periferia al centro .
L’analisi di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli relativa alla centralizzazione/concentrazione dei capitali è puntuale e per molti versi condivisibile, tuttavia, dal mio punto di vista, è necessario sottolineare la superiorità di un’analisi storica che non ricorra per forza alle tecniche econometriche per presentarsi come scientifica. Esistono per esempio alcune variabili che non possono essere trattate all’interno dei modelli econometrici che gli autori utilizzano per sostenere le loro tesi: la centralizzazione dei capitali e financo della proprietà sono condizionate dalla dimensione di scala necessaria per realizzare beni e servizi su cui incide anche la dimensione geopolitica. Non c’è solo la concentrazione dei capitali finanziari che danno luogo a relazioni conflittuali fra debitori e creditori, poiché la fine dell’era del dollaro presuppone un problema politico fondamentale irriducibile alle dinamiche finanziarie. Mi riferisco alla ricerca di un equilibrio superiore rispetto alla nuova geografia economica. Con questo termine – che riprendo in particolare dal quadro concettuale ricavabile dai lavori di Paolo Leon – intendo un assetto dell’economia mondiale caratterizzato dall’impiego di tecniche in grado di sfruttare al meglio le conoscenze tecnologiche disponibili, ciò che comporta una riorganizzazione delle catene del valore su scala globale. Questa riorganizzazione delle catene del valore si risolve per l’appunto in una nuova geografia economica. Quando nei miei scritti parlo di Storia con la s maiuscola, intendo proprio riferirmi a questa complessa dinamica che non è riducibile a una mera analisi quantitativa.
Anche gli autori riflettono sulla Storia economica recente e sul nuovo assetto finanziario internazionale (p. 19-95). Un passaggio di fondamentale importanza nella comprensione del fenomeno lo troviamo quando Brancaccio, Giammetti e Lucarelli discutono la tesi di Rudolf Hilferding per chiarire i nuovi assetti istituzionali del capitale: “i settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza”, secondo un processo che “ha come base il superamento della libera concorrenza” (p. 39), oppure quando citano The Economist (2018): “Le più grandi aziende del mondo non solo stanno diventando più grandi in termini assoluti, ma stanno anche trasformando un numero enorme di aziende più piccole in mere appendici” (p. 27).
Qual è l’esito politico di queste tendenze? Riferirsi genericamente alla categoria di imperialismo appare molto problematico, e gli autori ne sono consapevoli (si veda in particolare l’appendice a cura di Emiliano Brancaccio e Carmen Vita). In cosa consiste il nuovo conflitto imperialista che nel libro emerge come esito della centralizzazione dei capitali? Un testo che andrebbe ripreso, costruendo una comparazione con la situazione contemporanea – testo che gli autori citano, ma che a mio avviso non discutono in modo adeguato – è Moneta e Impero. Economia e finanzia internazionale dal 1890 al 1914 di Marcello De Cecco: ripercorrendo la storia del sistema aureo e della sua crisi De Cecco dimostra infatti che non furono tanto i meccanismi spontanei di mercato a garantire l’aggiustamento degli squilibri, quanto i rapporti gerarchici fra nazioni che si creavano negli scenari politici internazionali . È mia convinzione che solo una ricostruzione storica delle relazioni internazionali che si sviluppano attorno alla evoluzione dei sistemi economici possa condurre ad una reale comprensione della nuova geografia economica, dunque anche a una spiegazione delle tensioni belliche che la caratterizzano. Il rischio che si corre trascurando un approccio come quello di De Cecco è che l’analisi politica venga eccessivamente ridimensionata. La mia impressione è che la politica economica (normativa) nel testo di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli resti soffocata da una sorta di ineluttabilità del movimento del capitale.
Cosa comporta sul piano storico, o meglio sul piano della evoluzione istituzionale, che i capitali maggiori battono i minori , per dirla con lo Schumpeter studioso di Marx? Nel Capitale Marx cercava le leggi di movimento della società moderna, ma non la fine della Storia. La Storia e la società in Marx non sono regolate una volta per sempre, sono invece il riflesso dello sviluppo tecnico e organizzativo della società . L’aumento di capitale può e deve essere la conseguenza di un nuovo mercato, cioè di una nuova struttura istituzionale costruita per lo sfruttamento di nuove opportunità economiche. In questa prospettiva un capitalismo senza crisi è inconcepibile. Dobbiamo pur considerare che l’economia capitalistica “è costantemente rivoluzionata dall’interno da nuove intraprese, cioè dall’immissione, nel quadro esistente della struttura industriale, di nuove merci, o di nuovi modi di produzione, o di nuove opportunità di commercio”. Questa costante rivoluzione della struttura industriale non è di fatto considerata ne La guerra capitalista. Tuttavia, la mia tesi è che da essa dipendano principalmente gli scontri sul piano giuridico che precedono il protezionismo e il friend shoring, l’anticamera delle tensioni belliche, su cui Brancaccio, Giammetti e Lucarelli si concentrano. L’insieme di moduli e di tecniche giuridiche utilizzate da chi dispone delle risorse e della capacità di trasformarle è almeno tanto importante quanto gli squilibri finanziari fra debitori e creditori che per gli autori sembrano rappresentare la principale causa della guerra: “Una risorsa, una volta codificata legalmente, può generare ricchezza per chi la detiene. La codifica giuridica del capitale è un processo ingegnoso senza il quale il mondo non sarebbe mai arrivato ai livelli di ricchezza attuali, eppure il processo in sé è stato in genere celato” .
Quanto ricordato, in fondo, può spiegare le principali conseguenze della centralizzazione del capitale in sempre meno mani. Come scrivono gli autori: “i creditori liquidano e assorbono i debitori, a colpi di esportazioni di capitale, acquisizioni e fusioni” (p. 9). Il fatto però che “una centralizzazione imperialista del capitale [sia] destinata a riscrivere nel sangue il quadro dei rapporti di forza, tra nazioni e tra le classi” (p. 10) appare una conclusione troppo perentoria. Come sottolinea anche Paul Sweezy le così dette leggi di Marx non sono propriamente predizioni del futuro. Anche Joseph A. Schumpeter (1955) restituisce un Marx analista della Storia, che possiamo condensare in due preposizioni: “le forme e le condizioni di produzione sono le determinanti fondamentali delle strutture sociali, che, a loro volta, alimentano comportamenti, modi di azione, civiltà”. L’evoluzione istituzionale fa ogni tanto capolino all’interno del libro; non è un caso che gli autori siano costretti a misurarsi con Norberto Bobbio (p. 95) allorquando accusò la sinistra, specialmente quella marxista, di non avere una teoria dello Stato: tutta la riflessione dei comunisti, a suo parere, concerneva soltanto la questione della presa del potere statuale, non anche quella del modo in cui codesto potere, una volta “preso”, avrebbe dovuto essere esercitato. Tuttavia, Brancaccio, Giammetti e Lucarelli sembrano ricondurre questi aspetti del problema alla “legge” della centralizzazione dei capitali.
Qual è il nesso fra la centralizzazione dei capitali e la guerra? La terza parte del libro, che raccoglie interventi del solo Emiliano Brancaccio cerca di rispondere principalmente a questa domanda: “La tendenza verso la centralizzazione, insomma, potrebbe dar vita a un vero conflitto, una guerra capitalista tale da retroagire sullo stesso meccanismo di movimento, che potrebbe quindi divenire più tortuoso e incerto” (p. 143). È difficile non essere catturati dalle tesi enunciate in questa parte del testo, ma ancora una volta la più grande contesa internazionale e la necessaria rigenerazione delle istituzioni del capitale internazionale restano sacrificate all’interno di un discorso che riduce a spazi angusti l’analisi politica. In particolare, vorrei invitare gli autori a considerare che sebbene Russia e Ucraina “combattano” una guerra fatta per procura in cui i contrasti da risolvere rinviano a quelli esistenti fra gli Stati Uniti e l’area Euro-asiatica, dobbiamo pur considerare le specificità cinesi. La Cina ha un interesse che non è in nessun modo riconducibile a questo conflitto. Essa ha una domanda potenziale enorme davanti a sé, mentre Stati Uniti ed Europa hanno una domanda declinante che gli Stati Uniti vogliono tutta per sé. Forse la BCE può favorire una ulteriore centralizzazione del capitale in Europa attraverso l’incremento dei tassi di interesse, ma il capitale su cui l’Europa può fare affidamento, sebbene diversamente concentrato, è troppo piccolo e subalterno agli Stati Uniti. La Cina sembra giocare un’altra partita. Una partita molto più grande che non riguarda solamente il problema della domanda declinante che stanno invece affrontando Unione Europea e Stati Uniti.
La postfazione di Roberto Scazzieri, che riconosce l’importanza del lavoro condotto da Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, ha il pregio di completare e chiarire un quadro concettuale che nel libro appare troppo spesso sottointeso: “Questa ricerca propone un’economia politica delle relazioni internazionali secondo una prospettiva che unisce all’analisi delle interdipendenze materiali la considerazione del contesto istituzionale di un’economia di mercato globalizzata, e di relazioni fra Stati che in parte riflettono asimmetrie e tensioni generate nella sfera stessa dei rapporti economici internazionali […] I tentativi di affermare e sostenere posizioni egemoniche attraverso la centralizzazione, così come il contrasto a questi processi, sono, secondo gli autori, un elemento fondamentale per spiegare i conflitti fra Stati-economia che partecipano al sistema globale delle interdipendenze fra mercati” (p. 230 e p. 232).
In ragione delle considerazioni avanzate da Scazzieri possiamo porre la seguente domanda: esiste un quadro di riferimento tecnico e politico per riconfigurare gli equilibri che gli autori reputano in qualche misura immutabili?
Le considerazioni di Scazzieri aiutano a sviluppare un discorso urgente che La guerra capitalista ha il merito di introdurre: “i conflitti generati all’interno di un’economia di scambio possono essere considerati come espressione di contrasti per il controllo di scarsità effettive o potenziali (…) Ci si può chiedere se i processi di controllo della scarsità attraverso centralizzazione e conflitti possano essere modificati da dinamiche tecnologiche e istituzionali capaci di intervenire sull’antagonismo-coesistenza fra scarsità e producibilità attraverso il contenimento delle scarsità artificiali”. (p. 234)
Le considerazioni sollevate conducono a delle questioni che mi pare importante analizzare: le asimmetrie sottese all’analisi del libro – e che appaiono in superficie come relazioni fra paesi debitori e paesi creditori – sono relative alla conoscenza? All’alta tecnologia? Alle economie di scala?
Non è il caso di aprire in questa sede una riflessione puntuale sulle domande appena formulate (alle quali andrebbe aggiunta anche una domanda sulla rilevanza della demografia come fattore di polarizzazione dello sviluppo) , ma tutte concorrono a considerare quelle asimmetrie nel mercato che solo l’azione pubblica potrebbe correggere. Ma l’azione pubblica, soprattutto di fronte allo spettro di una guerra mondiale, deve essere collocata a un livello geopolitico adeguato. In gioco c’è la nuova geografia economica, o meglio, la Storia.

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