A destra e a sinistra dell’età pensionistica

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Political and social notes

Lo scorso novembre la Corte di giustizia europea bocciò le modalità di ritiro differenziato donne/uomini nel comparto pubblico e nella lettera del 13-1-09 il governo si è impegnato a riformare il sistema. A dicembre Brunetta colse l’occasione per avanzare cifre fantasiose di aumenti occupazionali che risulterebbero dall’innalzamento dell’età pensionabile per le donne. La principale obiezione è proprio nella diminuzione di opportunità di lavoro per i giovani. Non si deve tuttavia rifiutare ogni ipotesi di riforma se le risorse resesi disponibili andassero direttamente a creare occupazione femminile e incrementare i servizi sociali.

1. Cifre in liberta’

Come reazione alla sentenza europea il ministro Brunetta dichiarò (La Repubblica 15-12-08) che secondo un calcolo del Partito radicale le risorse liberate dalle pensioni ammonterebbero a 7 miliardi di euro da cui ”fatti due conti”, si potrebbero creare 2,5 milioni di posti di lavoro nei servizi e il tasso di occupazione si innalzerebbe di circa 10 punti. Non è serio che un ministro della Repubblica avanzi cifre in questo modo, citando fonti la cui attendibilità è appena superiore a quella di Topolino. Comunque, “fatti due conti”, creare un posto di lavoro costerebbe duemilaottocento euro, si presume di sgravi fiscali ai datori di lavoro, ma anche di incentivi sulla busta paga per stimolare l’offerta di lavoro femminile secondo quanto suggerito da Alesina e Ichino (Il Sole 19-12-2008). Francesco Forte (http://www.loccidentale.it/) ha avanzato cifre simili. Queste prese di posizione appaiono banalizzare il problema dell’occupazione, come se davvero potesse essere risolto innalzando l’età pensionistica. Nella lettera a Bruxelles inviata il 13 gennaio il governo si è impegnato a equiparare “con la dovuta gradualità” l’età pensionabile nel pubblico impiego. Ma l’obiettivo sarà forse più ampio.

2. Età pensionistica e occupazione

La tabella 1 mostra come in Italia l’età effettiva di pensionamento sia più bassa che negli altri paesi europei (con l’eccezione della Francia): 60,4 per maschi e femmine e 59,8 anni per le sole donne contro una media europea rispettivamente di 61,5 e 61,1. La medesima tabella illustra come assai più bassi sono anche i tassi di occupazione dei lavoratori maturi (oltre i 55 anni), in particolare quelli femminili. In Italia, bassi tassi di attività dei lavoratori maturi sono associati a ridotti tassi di attività in generale (48,9% contro, ad esempio, il 56,3% della Francia, per non parlare del 71,1% della Svezia), ma questo non significa che i primi implichino i secondi poiché in Italia i tassi di occupazione sono bassi pressoché in ogni fascia di età, come si evince dalla tabella. Anche la tesi che l’elevato prelievo previdenziale sia causa della bassa occupazione può essere ribaltato sostenendo che, più plausibilmente, è la bassa occupazione a fare in modo che una ristretta base occupazionale sia caricata di oneri fiscali e contributivi indubbiamente elevati, i quali sono un effetto più che una causa. Le ragioni dei bassi livelli occupazionali sono da ricercarsi in problemi antichi e strutturali, aggravati dal contesto deflativo della politica economica europea. Per questo motivo la principale obiezione all’aumento dell’età pensionistica diventa quello di non diminuire ulteriormente i posti di lavoro disponibili per i più giovani. Certo, la piena occupazione e non il pensionamento anticipato sarebbe la soluzione migliore[1].

Una seconda obiezione è che molte occupazioni sono usuranti soprattutto se si è cominciato a lavorare molto presto, mentre le attese di vita sono inferiori rispetto ad altre mansioni. Questo è certamente vero soprattutto per gli operai, mentre sarei più cauto per altre funzioni in cui l’insofferenza per il lavoro può dipendere da fattori culturali da non giudicarsi sempre positivamente (particolarmente nel pubblico impiego), ma su cui “certa sinistra” flirta. L’assenza di servizi sociali adeguati di cura e assistenza a figli e anziani e la disorganizzazione specialmente delle grandi città sul piano dei trasporti, oltre che la nota scarsa partecipazione dei maschi italiani agli impegni domestici, rende certamente il lavoro più gravoso per le donne. Si scaricano però qui sul sistema pensionistico, di nuovo, inefficienze che andrebbero comunque affrontate.

In sintesi, in Italia esiste un problema pensionistico come risultato dei bassi tassi di attività e occupazione, tanto che l’aumento dell’età pensionistica potrebbe solo aggravarli. L’aumento delle risorse sociali messo a disposizione dalla piena occupazione consentirebbe di pagare a tutti pensioni più dignitose dando al contempo a ciascuno margini di flessibilità nello scegliere l’età pensionistica anche attraverso forme morbide e socialmente utili di transizione fra lavoro e pensionamento. La piena occupazione è tuttavia scomparsa dai programmi politici.

L’argomento con cui si vuol far digerire l’aumento dell’età pensionabile è che la prospettiva di una permanenza più lunga delle donne incentiverebbe l’investimento del datore di lavoro e della stessa lavoratrice sulla propria carriera, oltre che farle maturare una pensione più alta. Una obiezione è che già ora è possibile proseguire l’attività lavorativa sino a 65 anni[2], come i maschi, anche se si è conseguito il diritto alla pensione di vecchiaia, e molte donne lo fanno per incrementare la propria anzianità contributiva: infatti: solo il 44% delle lavoratrici pubbliche va in pensione con meno di 60 anni (dati Inpdap, Il Sole 14-12-08) e tale numero si ridurrà progressivamente con l’operare degli “scalini” Prodi-Damiano. Le pensioni di vecchiaia a 60 anni riguardano dunque numeri relativamente piccoli. Circa l’impatto sfavorevole del privilegio femminile di ritirarsi a 60 anni sulle loro carriere si può ricordare come molti studi indichino che tali discriminazioni siano indipendenti da fattori di questo tipo (per cui le scelte di ritiro prematuro, ove occorrano, sono più effetto che causa dello scarso investimento individuale e del datore di lavoro sulle carriere femminili).

3. Opporsi “a prescindere”?

Ci si deve comunque opporre all’aumento dell’età pensionistica femminile, fatte salve le mansioni operaie? Non potrebbero i presunti risparmi di spesa previdenziale trovare qualche utile impiego? Il Sole (14-12-08) ci informa che l’innalzamento della pensione di vecchiaia delle impiegate pubbliche a 62 anni frutterebbe da 1,3 a 1,8 miliardi[3]. Dal punto di vista del complesso della spesa pubblica (di cui la spesa previdenziale è parte) tali risparmi sono assai dubbi in quanto un pensionato costa allo Stato meno di un dipendente in servizio, a meno che questo venga rimpiazzato[4]. Ciò che l’aumento dell’età pensionistica eviterebbe è l’aumento del rapporto fra spesa pensionistica (la quale aumenterebbe) e PIL (il quale diminuirebbe perché c’è una lavoratrice in meno, o rimarrebbe costante se tale lavoratrice venisse rimpiazzata). La sinistra potrebbe allora appoggiare una manovra che destinasse tale mancato aumento alla creazione di ulteriori posti di lavoro pubblici destinati alle donne nei servizi sociali, asili, ecc. creando un apposito fondo presso l’Inpdap. Si noti che questa non è la medesima proposta di Alesina e Ichino che si basa sull’impiego dei risparmi di spesa previdenziale per incentivare domanda e offerta di lavoro nel mercato. La nostra sfiducia nella reazione automatica delle forze di mercato agli incentivi ci fa ritenere che la creazione di posti di lavoro possa essere assicurata solo con la creazione diretta di occupazione da parte dell’operatore pubblico.


[1]
Secondo Cazzola (www.loccidentale.it, 5-1-09), tuttavia, “proprio le norme di innalzamento dell’età legale di vecchiaia (salita dal 1993 al 2000, da 55 a 60 anni) hanno largamente contribuito a determinare, negli ultimi anni, un forte incremento dell’occupazione femminile nella fascia d’età compresa tra i 55 e i 64 anni e più in generale delle lavoratrici over 50”. Tale incremento si è avuto però in tutte le fasce d’età in seguito all’aumento dell’occupazione femminile di un milione di unità, quasi 300 mila nella fascia in oggetto. Da segnalare che fra il 2001 e il 2007 l’occupazione assoluta nella fascia d’età 25-34, più motivata e istruita, sia invece rimasta stabile, nonostante un tasso di occupazione ancora relativamente basso (in questa fascia, infatti, l’aumento del tasso di occupazione è dovuto a una cospicua diminuzione dell’offerta di lavoro in seguito al calo demografico). Senza stabilire frettolose correlazioni, un effetto spiazzamento dovuto all’accrescimento dell’età pensionabile non è da escludere.
[2]
Più due anni, da poco concessi a facoltà dell’amministrazione in contraddizione con l’obiettivo proclamato da Brunetta.
[3]
Secondo Cazzola (cit.), che richiama elaborazioni riservate dell’Inps (alla faccia della trasparenza del dibattito pubblico): “sarebbe sufficiente elevare a 62 anni (in due tranche, entro il 2013) il requisito anagrafico di vecchiaia per le lavoratrici …per consentire il recupero, nell’arco temporale compreso tra il 2009 e il 2013, buona parte di quei di 7,5 miliardi di euro cumulati che verranno a mancare per effetto del nuovo requisito di anzianità, meno rigoroso, previsto nella legge n.247 del 2007”. Cazzola si riferisce evidentemente a un aumento dell’età pensionabile sia nel settore pubblico che in quello privato, come indicato nella sua proposta di legge alla Camera (n.1299, 16-6-08). La proposta di Cazzola (Sole 13-1-09), che potrebbe fare da base alle proposte del governo, è di introdurre per tutti in maniera flessibile la scelta di pensionamento fra 62 e 67 anni (con penalizzazioni per chi si ritira prima), almeno per chi rientra nel contributivo, preceduta da un aumento graduale al 2013 della vecchiaia a 62 anni per le donne che rientrano nel retributivo. Questa proposta potrebbe risultare vincente sull’aumento a 65 anni della pensione di vecchiaia in quanto svantaggioso per le donne che solo in minima parte raggiungono i minimi contributivi per la pensione di anzianità, come invece accade per gli uomini.
[4]
Da una parte il governo sembrerebbe intenzionato a ridurre il numero dei dipendenti pubblici. La Repubblica (14-10-08) ci informa così che in base all’articolo 72 del DL 112/2008, regolamentato da una circolare di Brunetta del 20-10, si incentivano i dipendenti pubblici a starsene a casa a stipendio ridotto, in contraddizione con l’obiettivo declamato di farli lavorare più a lungo. Dall’altra parte il fatto che il numero di dipendenti pubblici negli ultimi anni sia rimasto pressoché costante (3.640 mila nel 2000, 3.632 mila nel 2006 secondo l’ILO) può far supporre che in barba ai blocchi delle assunzioni i dipendenti pubblici siano stati sinora rimpiazzati.

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