La riforma del TFR nell’era del giudizio

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Il 2008 è stato il primo anno a regime della riforma del TFR introdotta nel 2007. E’ naturalmente facile lasciarsi andare a semplici ironie visti i chiari di luna dei mercati finanziari. Cerchiamo invece di fare una valutazione più complessiva.
1. Le ragioni della riforma
La riforma prevedeva, com’è noto, il trasferimento su base volontaria – ma col principio del silenzio assenso – del TFR maturando ai fondi pensione, negoziali o “aperti”, limitatamente al solo settore privato. Il TFR era già una forma di risparmio gestito (dall’impresa stessa). Con la riforma se ne è dunque trasformata l’amministrazione affidandola ai fondi pensione. Se il TFR rimane in azienda, lo si presta direttamente alla propria impresa; se lo si affida ai fondi lo si presta all’insieme delle imprese, ma nulla cambia a livello macroeconomico[1].
Qualche effetto macro si può invero verificare per la parte di TFR lasciata nelle aziende con più di 50 addetti e che viene deviata presso il Tesoro, ma questo non c’entra nulla coi fondi pensione. Perché dunque si è voluta la riforma?
Il suo scopo principale è la trasformazione di una forma di risparmio gestito che non aveva precipue finalità previdenziali in previdenza complementare nella speranza che ciò possa compensare il calo delle pensioni che si avrà con la progressiva andata a regime della riforma Dini. L’idea è che con la riforma del TFR i lavoratori potrebbero così mantenere la pensione che avevano prima della riforma Dini, poiché il minor importo della pensione sarebbe compensato dalla trasformazione del TFR in previdenza complementare con i suoi presunti più elevati rendimenti. Si trascura tuttavia il dato elementare che prima della riforma Dini un lavoratore poteva contare su una più alta pensione pubblica più il TFR, con i suoi modesti ma sicuri rendimenti (l’1,5% più il 75% del tasso di inflazione), mentre adesso può solo sperare che la trasformazione del TFR in previdenza complementare assicuri la sola stessa pensione pubblica di prima al prezzo di una perdita secca pari all’intero ammontare del TFR.
Ma anche sui presunti maggiori rendimenti v’è molto da ridire. In realtà, essi dipendono dal fatto che le imprese che “perdono” il TFR sono risarcite più che abbondantemente dallo Stato con cospicui sgravi fiscali, che costeranno allo Stato circa 0,5 miliardi all’anno[2]. Sicché in ultima analisi saranno i contribuenti (e specialmente i più solerti tra essi, ossia i lavoratori dipendenti) a pagare i presunti maggiori rendimenti del fondi. Per contro, sebbene sia logico ritenere che i fondi presteranno il TFR alle imprese a tassi più elevati di quelli che le imprese stesse dovevano corrispondere sul TFR di cui disponevano in precedenza, è altrettanto logico supporre che saranno proprio i fondi a lucrare la gran parte della differenza. Di conseguenza, fatti i conti, i lavoratori potrebbero finire per rimetterci.
Insomma, la riforma del TFR non muta nulla dal punto di vista macroeconomico e neppure dal punto di vista del singolo lavoratore. Le sole a guadagnarci saranno imprese finanziarie private e sindacalisti che gestiranno un cospicuo stock di risparmio (il patrimonio dei fondi negoziali nel 2007 era di 11,5 miliardi di euro, ma questo crescerà di parecchi miliardi all’anno con l’andata a regime della riforma).
2. Risultati della riforma: adesioni
Il numero dei lavoratori dipendenti del settore private affiliati a un fondo pensione è cresciuto da 2,16 milioni della fine del 2006 a 3,6 milioni a ottobre 2008, un aumento del 65,9% realizzato soprattutto nel 2007, l’anno della riforma[3]. La maggior parte dei nuovi aderenti (834 mila su un complesso di 1.440 mila nuovi membri) ha optato per i fondi negoziali. Nel complesso, includendo anche i lavoratori autonomi, il numero totale degli aderenti ai fondi è cresciuto da 3,2 milioni a 4,8 milioni, un aumento del 50,8%.
Considerando i soli settori dove i fondi pensione sono pienamente operativi (circa 8 milioni di lavoratori) la Covip stima cifre di adesione ai fondi contrattuali da parte dei lavoratori dipendenti di questi settori che oscillano attorno al 30%. La cifra aumenterebbe se si includessero anche gli aderenti ad altre forme di previdenza complementare. L’obiettivo del governo Prodi del 40% di adesioni è stato dunque avvicinato. Altri autori hanno tuttavia suggerito che se si considerasse l’insieme del lavoro dipendente il tasso di adesione scenderebbe assai (3,6 milioni di aderenti su 13 milioni di lavoratori dipendenti dà il 27,7%)[4]. I tassi di adesione sono più elevati dove la sindacalizzazione è più forte, dunque nelle imprese di maggiore dimensione. Lì il sindacato ha potuto esercitare la persuasione più efficace e le imprese hanno potuto fare meno pressione sui lavoratori affinché trattenessero il TFR in azienda.
I lavoratori hanno fatto nella totalità una scelta consapevole: solo in 60 mila hanno aderito con la formula del silenzio-assenso. Ciò nonostante disinformazione e analfabetismo finanziario, che sono spesso indicati come la causa principale della mancata adesione ai fondi pensione. Ciò va valutato alla luce di quanto un sostenitore delle riforme pensionistiche, Roberto Perotti, ha scritto sul Il Sole 24 Ore (30-11- 2008) a proposito della mancata previsione della crisi finanziaria da parte degli economisti: “[questi] sono stati presi alla sprovvista, in gran parte perché la conoscenza di importanti dettagli, molto tecnici ma fondamentali, non è percolata in tempo dagli esperti di settore ai macroeconomisti”. Chissà perché dovrebbe “percolare” più facilmente a Cipputi.
3. Risultati della riforma: rendimenti
La tabella 1 illustra i risultati finanziari del fondi pensione negoziali e aperti nel periodo 1999-ottobre 2008 e li confronta coi risultati del TFR. La Covip ritiene soddisfacente il rendimento complessivo sul periodo 2003-2007, sebbene nel 2007 i rendimenti dei fondi peggiorino rispetto al TFR, per poi sprofondare nel segno negativo nel 2008 in seguito all’attuale crisi finanziaria. La Covip da un lato rassicura che solo una infima minoranza dei fondi deteneva valori trascurabili di titoli “tossici” e, dall’altro, sostiene che la redditività dei fondi pensione va giudicata nel lungo periodo, anche tenuto conto dei vantaggi fiscali loro accordati e del contributo del datore di lavoro a coloro che hanno devoluto volontariamente il TFR ai fondi.

Circa la redditività nel lungo periodo, tuttavia, la media 1999-2007 da noi calcolata e riportata in tabella mostra come la redditività del TFR non sfigura a confronto di quella dei fondi. Se si include il 2008, il TFR batte ambedue i tipi di fondi. Circa i vantaggi fiscali questi sono certamente cospicui. Va però segnalato che: (a) essi sono assai regressivi: si può detrarre dall’imponibile Irpef contributi fino a 5.164 € laddove il TFR conferito da un operaio ha approssimativamente il valore di uno stipendio (1250€ giusta i dati di Antonella Stirati, new.economiaepolitica.it), e anche in sede di montante finale, più si è accumulato, più si ottengono sconti fiscali; (b) i mancati introiti fiscali dovuti a questi sgravi sono finanziati in gran parte dagli stessi lavoratori. Ammesso dunque, e non concesso, che il lavoro dipendente avesse un po’ più di rendimento rispetto al TFR, si tratterebbe giusto di quel che ha pagato come maggiori imposte per gli sgravi alle imprese e i vantaggi fiscali al ceto medio-alto.
4. Stelle comete
Circa il contributo datoriale che si aggiunge al TFR devoluto alla previdenza complementare, ciò che appare sorprendente è l’inclusione di quest’ultimo da parte dei fondi negoziali nel calcolo del rendimento (non però da parte della Covip nei dati della tab. 1)[6]. Il contributo aggiuntivo del datore di lavoro è chiaramente una quota del salario differito del lavoratore concessa in sede di contratti di lavoro in luogo di aumenti del salario diretto e in nessun senso può essere considerato come un rendimento dei fondi. La tabella 2 riproduce una simulazione di Cometa (il fondo dei metalmeccanici) pubblicata da Il Sole (supplemento Plus 24, 29.11.2008) che esibisce un rendimento sul periodo 1999-2008 del 20,27% ottenuto includendovi appunto il contributo della azienda, contro un rendimento del TFR del 10,4%. Se tuttavia si rifanno i conti considerando il contributo aziendale come una ulteriore parte del salario del lavoratore devoluta ai fondi, il rendimento scende a 6,8%, ben sotto il TFR.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5. Finale della favola e una proposta
Gli economisti chiamano il sistema dei fondi pensione “fully funded”, ovvero totalmente autofinanziato. Pare che invece il nostro governo abbia l’intenzione di intervenire a sostenere le pensioni private di coloro che si pensionano nel periodo 8/2008-8/2009 (almeno per la quota relativa al TFR versato), sperando che poi passi la “nuttata”. Tutto ciò suona come una clamorosa smentita per tutti coloro che hanno sinora decantato l’autosufficienza finanziaria dei sistemi a capitalizzazione.
Perché i sindacati non hanno lottato perché fosse rafforzato il rendimento del TFR in azienda, portandolo ad es. al 2% annuo con copertura al 100% dall’inflazione e con la possibilità di trasformazione in vitalizio a condizioni favorevoli al pensionamento? Si fa sempre in tempo, solo gli sciocchi non cambiano mai idea.


[1] E’ peraltro priva di fondamento la tesi che la destinazione del TFR ai fondi pensione danneggerebbe il sistema economico italiano perché il risparmio dei lavoratori sarebbe portato all’estero. Per un economista rigorosamente keynesiano i risparmi non sono una grandezza che va a spasso per il mondo. Su questo e altro v. S. Cesaratto, Invecchiamento della popolazione e questione pensionistica, “Economia e società regionale”, vol. 99, 2007. Sull’economia delle riforme pensionistiche: Id., The Transition to Fully Funded Pension Schemes: A non-Orthodox Criticism, “Cambridge Journal of Economics”, 30, 2006.

[2]
Chiorazzo e Dilani, Imprese ben compensate, la voce, 25.01.2007, (www.lavoce.info/articoli/pagina2552.html).
[3]
Dati Covip, 2008, www.covip.it/homepage.htm.
[4]
Boeri Zingales, Indipendenti sono le autorità o i numeri?, la voce, 20.9.2007 (www.lavoce.info/articoli/pagina1000045.html).
[5]
Cesari, Grande e Panetta, Quel vantaggio molto fiscale, la voce, 19.06.2007, http://www.lavoce.info/articoli/pagina2777.html.
[6]
Tale contributo è nella misura del 10/15% del TFR (ovvero poco più dell’1% dello stipendio lordo) e lo si ottiene se anche il lavoratore aggiunge al TFR una cifra analoga.

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