Crescita diseguale, diseguale recessione

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Political and social notes

La disuguaglianza tra ricchi e poveri negli ultimi vent’anni è aumentata in tre quarti dei paesi Ocse. È questa l’evidenza amara che emerge dalle statistiche sulla distribuzione del reddito in oltre 30 paesi pubblicate a fine ottobre dall’Ocse [1]. Della crescita economica degli ultimi vent’anni, in altre parole, hanno beneficiato maggiormente i ricchi piuttosto che i poveri. In alcuni paesi tra cui Stati Uniti e Italia le disuguaglianze tra i redditi e tra i patrimoni si sono inasprite. Nei paesi con maggiore disuguaglianza si è assistito ad un aumento della povertà e a una sensibile diminuzione della mobilità sociale (Stati Uniti, Inghilterra e Italia sono i paesi in cui la mobilità sociale è diminuita maggiormente).

Certo nella dinamica dei redditi ci sono categorie sociali che se la passano meglio di altre. Nella media dei paesi analizzati, infatti, è fortunatamente diminuita la povertà degli anziani mentre è aumentata la povertà dei bambini e degli adulti soli (spesso a seguito di un divorzio o della perdita del lavoro). Nei paesi Ocse i bambini ed i giovani adulti hanno il 25% di probabilità in più di essere poveri rispetto al resto della popolazione. Questi dati sono confermati, per l’Italia, anche dall’Istat che da qualche anno segnala la crescita della povertà tra i minori [2] (si veda anche l’ultimo rapporto del 4 novembre 2008). Dato che, oltre ad essere odioso in sé, si associa a fenomeni di trasmissione intergenerazionale della povertà: le persone giovani in condizioni di povertà genereranno figli poveri i quali, a causa della scarsa mobilità sociale, faranno fatica ad affrancarsi da questa condizione. In altre parole la povertà dei minori è associata all’aumento della povertà tra le famiglie con figli a carico.

Per quanto riguarda in particolare l’Italia, il rapporto rileva che il nostro paese è passato da livelli di disuguaglianza vicini alla media Ocse vent’anni fa, a livelli ben superiori oggi. Siamo infatti il 6° paese sui 30 censiti per livello delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. La disuguaglianza tra ricchi e poveri è cresciuta infatti del 33% rispetto alla metà degli anni ’80 mostrando l’inefficacia delle misure di contrasto alla povertà che pure l’Ocse rileva siano state implementate nell’ultimo ventennio. Il reddito medio del 10% più povero si aggira intorno ai 5.000 dollari (sotto la media Ocse di 7.000), mentre il reddito del 10% più ricco è di 55.000 dollari (leggermente sopra la media degli altri paesi). Ancora più accentuata è la disuguaglianza nei patrimoni (i dati precedenti si riferiscono invece ai redditi, cioè dati di flusso): il 42% della ricchezza totale è detenuta, infatti, dal 10% dei cittadini, mentre “solo” il 28% del reddito totale è ascrivibile allo stesso 10%.

Secondo i ricercatori dell’Ocse in buona misura le crescenti disuguaglianze sono generate dalla trasformazione del mercato del lavoro, con un aumento dei lavoratori a basse qualifiche e di lavoratori poveri. Anche le misure di contrasto alla povertà e i sussidi sociali hanno perso efficacia negli ultimi vent’anni, ragione per cui sarebbe necessario ridisegnarli. In questo scenario si colloca l’attuale crisi finanziaria: è lecito domandarsi se ad una crescita economica così disuguale corrisponderanno effetti disuguali nella recessione, ovvero se la crisi colpirà in proporzione con maggior durezza i redditi più bassi. È questa la domanda che si è posto anche A. Atkinson, uno dei maggiori studiosi europei in materia di distribuzione del reddito e disoccupazione, in un recente scritto [3]. Dipenderà dalle politiche pubbliche che i governi attueranno, è la risposta dello studioso. In prima battuta i Governi si sono comportati da prestatori di ultima istanza, correndo in soccorso delle istituzioni finanziarie in difficoltà e garantendo così, in una certa misura, anche i piccoli risparmiatori. Ma affinché gli effetti della recessione non pesino maggiormente su chi già è in difficoltà è necessario qualcosa di più. Molto dipenderà dalla capacità delle coalizioni di governo di immaginare interventi sociali redistributivi, ancor più efficaci se studiati su scala sovranazionale. Solo nelle settimane più recenti i governi hanno cominciato a varare misure anti crisi (a cominciare dagli Stati Uniti per arrivare in Europa con Francia, Inghilterra e Germania e in Asia con un inedito piano della Cina) che guardino oltre il sistema finanziario. Ma, per quanto riguarda l’Europa, l’idea di un intervento sociale coordinato (se non addirittura sovranazionale) auspicato da Atkinsons è ben lontana dal prendere corpo tra le coalizioni di governo del vecchio continente. Ciascuno farà come e quanto potrà. E così mentre l’Inghilterra pensa ad interventi sull’ordine del 7% del Pil (della stessa dimensione le misure anti crisi della Cina), in Italia si pensa di intervenire muovendo cifre dell’ordine dello 0,3% del prodotto interno lordo che rischiano di essere del tutto inefficaci e frammentarie (ovvero quel poco che si spende è anche mal speso).

Come già segnalato nel rapporto Ocse, le misure di contrasto alla povertà ed i sussidi che non siano orientati a fare “massa critica” (cioè a concentrare più interventi e di diverso tipo verso gli stessi beneficiari, per esempio i disoccupati) rischiano, a parità di spesa, di rivelarsi del tutto inutili. Sembra andare esattamente in questa direzione la misura di sostegno al reddito dei lavoratori parasubordinati (i co.co.pro che non beneficiano di alcun tipo di ammortizzatore sociale) contenuta nel decreto cosiddetto “anticrisi” del 29/11/2008 n. 185. Il provvedimento prevede l’erogazione una tantum del 10% dei compensi percepiti nell’anno precedente (sempre che tali compensi siano compresi tra 5mila e 11.516 euro) a beneficio del collaboratore a progetto (sono così esclusi i collaboratori coordinati e continuativi che ancora esistono nel settore pubblico) che abbia operato in settori o territori definiti in crisi (da un successivo decreto) per almeno tre mesi in regime di monocommittenza e che risulti non avere avuto contributi versati per almeno due mesi. In altre parole i requisiti di accesso alla misura che potrà ammontare al massimo a 1150 euro (il 10% del massimale di reddito) sono lo stato di monocommittenza (non meglio definito: tre contratti con tre diversi committenti l’uno di seguito all’altro come vengono considerati?), il lavoro in collaborazione per almeno tre mesi e per meno di 10, la residenza in aree dichiarate in crisi, lo stato di disoccupazione da almeno 2 mesi. Il decreto nulla dice, inoltre, sulla copertura contributiva della misura.

Un provvedimento così costruito è condannato all’inefficacia sia per l’intensità del contributo (che in media raggiungerà i 700-800 euro, una tantum) che per l’estensione dei beneficiari. Le stime più attendibili [4] parlano di una platea di 10.000 lavoratori contro gli 80.000 previsti dal Governo per un ammontare di spesa vicina agli 8 milioni di euro. Se gli interventi sociali messi in campo dai Governi saranno di questa natura e di questa entità, anche la recessione, così come è stato per la crescita, avrà effetti diseguali in proporzione tra ricchi e poveri. I poveri soffriranno di più.

 

* L’autrice è ricercatrice presso la Camera del Lavoro di Milano.
[1]
Oecd (2008), Growing Unequal?: Income distribution and povertry in Oecd Countries.
[2]
Si veda anche l’ultimo rapporto Istat, La povertà relativa in Italia del 4 novembre 2008 (http://www.istat.it/).
[3]
A. Atkinson (2008), Unequal growth, unequal recession?, Oecd Observer.
[4]
Berton, Richiardi, Sacchi, Indennità ai co.co.pro. Un bel gesto che non impegna, lavoce.info 2008.

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