da Pagina 99, 15 maggio 2014
Governo – Approvato ieri il provvedimento sul lavoro e la precarietà. Come le riforme approvate negli ultimi anni partono da un assunto: meno rigidità significa più opportunità di impiego e quindi meno disoccupazione. Ma il “teorema” non trova riscontro nelle analisi empiriche. Intervista a Riccardo Realfonzo.
«Con le misure contenute nel decreto si vuole dare una risposta urgente alla necessità di rilanciare l’occupazione». Per il ministro del lavoro Giuliano Poletti il decreto convertito in legge alla Camera è il primo tassello di una strategia complessiva che ha messo il lavoro al centro dell’agenda del governo. E con 3 milioni 248 mila di disoccupati in Italia – tasso di disoccupazione al 12,7% (42,7% fra i giovani) – è difficile non concordare sul fatto che sia proprio la mancanza di lavoro l’emergenza numero uno cui dovrebbe essere dedicato ogni sforzo da parte delle istituzioni pubbliche.
Meno scontata è la fiducia che il ministro sembra riporre nelle nuove regole che rendono più semplice l’utilizzo dei contratti a termine, con il passaggio da 12 a 36 mesi dell’“acausalità” (la possibilità, per il datore di lavoro, di non indicare le ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che rendono legittima l’apposizione di un termine al rapporto) e l’aumento da uno a cinque del numero delle proroghe possibili (nel decreto originale licenziato dal governo erano otto).
La tesi sottesa al ragionamento di Poletti sembrerebbe essere grosso modo questa: più flessibilità uguale più occupazione. Si tratta di una teoria fondata? Pagina 99 lo ha chiesto a Riccardo Realfonzo, ordinario di Fondamenti di economia politica all’Università del Sannio.
Professore, fermiamoci un momento “al di quà” delle ultime norme introdotte dal governo Renzi. È possibile misurare esattamente il grado di rigidità di un mercato del lavoro?
Si, con qualche approssimazione è possibile. Gli studiosi di tutto il mondo fanno a questo proposito riferimento all’indicatore EPL dell’Ocse, che misura il grado di protezione dell’occupazione previsto dalla legislazione del Paese che si considera. Quanto minore è l’EPL tanto maggiore è la flessibilità del mercato del lavoro. Questo indicatore è calcolato mediante 21 indici piuttosto complessi e si divide in due sottoindicatori. Il primo è l’EPRC, che misura il grado di protezione, se si vuole di rigidità, di un Paese per ciò che concerne il lavoro a tempo indeterminato. Il secondo sottoindicatore è l’EPT, che misura la protezione del lavoro a termine.
E questi indici cosa ci dicono sull’Italia?
I dati Ocse mostrano che dal 1990 ad oggi la gran parte dei paesi europei ha praticato politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro, tentando di aumentare la flessibilità e per questa via l’occupazione. L’Italia è tra i paesi che hanno fatto i più ampi sforzi in questa direzione. Infatti, abbiamo ridotto l’indicatore generale di protezione del lavoro di oltre il 40%. In particolare, abbiamo liberalizzato intensamente il ricorso al lavoro a termine, riducendo l’indice di protezione di circa il 60%. Alla fine del 2013, ben prima della riforma Poletti, il grado di flessibilità nel lavoro a termine era già in linea con la media dei paesi dell’Eurozona. Ora si ridurrà ulteriormente.
Dai dati empirici di cui disponiamo è possibile stabilire una correlazione fra politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e diminuzione del tasso di disoccupazione?
Con Guido Tortorella Esposito ho appena terminato uno studio, pubblicato da economiaepolitica.it, il quale mostra che se vi è una correlazione è semmai esattamente opposta a quella che viene ipotizzata dalla letteratura economica conservatrice. Intendo dire che l’analisi mette in evidenza come all’aumentare della flessibilità del lavoro la disoccupazione tenda a crescere. Però la correlazione che viene fuori è troppo bassa per avere certezza che le cose stiano effettivamente in questi termini. Quello che possiamo dire con certezza, sulla base dei dati ufficiali e alla luce delle metodologie più consolidate, è che la flessibilità non fa espandere l’occupazione. Questo è sicuramente vero per l’insieme dei paesi dell’Eurozona, dal 1990 al 2013.
Ma la mancanza di correlazione fra maggiore flessibilità e maggiore occupazione non può essere dovuta ad una semplice “distorsione ottica”? Mi spiego: molti paesi con elevata disoccupazione hanno dovuto fare riforme per rendere più flessibile i propri mercati del lavoro. Forse senza queste riforme la disoccupazione sarebbe stata ancor maggiore…
Dal 1990 la gran parte dei paesi che oggi compongono l’Eurozona ha aumentato la flessibilità del mercato del lavoro. Soprattutto, si sono mossi in questa direzione la Grecia, l’Italia, il Portogallo e la Spagna. Ma ci sono anche paesi che hanno tenuto invariato il loro assetto normativo o che hanno aumentato le tutele, come l’Austria e soprattutto la Francia. Complessivamente, noi avremmo dovuto assistere a una riduzione della disoccupazione, o a una sua minore crescita, nei paesi che hanno liberalizzato e viceversa a performance peggiori dei mercati del lavoro nei paesi che hanno reso più rigidi i loro mercati.
E invece cosa avete riscontrato?
Che non si è verificato nulla di tutto ciò. Aggiungo che nel nostro studio abbiamo provato anche a fermare l’analisi al 2007, per verificare se per caso i risultati fossero inquinati dallo scoppio della crisi. Ma anche questa verifica ha confermato quei risultati. Insomma, anche con riferimento al periodo pre-crisi si mostra che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, anche con specifico riferimento al lavoro a termine, non hanno determinano alcun effetto espansivo. Un vero fallimento.
Il ministro Poletti nega che il suo decreto serva ad aumentare la precarietà. Semplificare i contratti a termine, sostiene il ministro, è come dire alle imprese: «potete assumere senza preoccupazione e non avete alcuna ragione per usare impropriamente contratti come partite Iva o di collaborazione per mascherare un rapporto di lavoro». Non crede sia comunque un passo avanti?
Purtroppo il ministro Poletti ha torto. La flessibilità tende a favorire la stagnazione salariale e sembra determinare semplicemente una tendenziale sostituzione di contratti a tempo indeterminato con lavoro a termine. Insomma, si trasforma in precarietà, con grandi costi sociali soprattutto a carico dei giovani. Una precarietà che non riesce nemmeno a fare crescere l’occupazione e il Pil. Sono francamente preoccupato, perché invece di sviluppare gli aspetti interessanti che pure erano presenti nel Jobs Act, e cioè la semplificazione normativa e le politiche industriali, si sta andando avanti sulla strada infruttuosa della “precarietà espansiva”.