Lo spettro della deflazione e la BCE

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1. Sia il Rapporto Annuale della BCE che alcune recenti dichiarazioni di Draghi hanno richiamato l’attenzione sul rischio di una deflazione cumulativa nell’area dell’euro. In sé ovviamente la caduta dei prezzi non è un fatto negativo. Ad esempio, a parità di salari monetari, essa determina un aumento dei salari reali e dunque dei consumi. Inoltre, probabilmente, essa porta ad un aumento delle esportazioni e ad un miglioramento della bilancia commerciale. Se ci si preoccupa della deflazione è per il maggior onere in termini reali dei debiti che essa comporta, ed anche perché per questo e per l’aspettativa di ulteriori cadute di prezzo potrebbe avere effetti negativi sui consumi e sugli investimenti – in termini simili a quanto descritto da Irving Fisher con riferimento alla crisi del 1929, o di quanto osservato nel decennio passato in Giappone. E’ questa possibilità che spingeva Caffè[1] a dire che è un dovere civile di ogni economista il mettere in guardia le autorità di politica economica da una deflazione cumulativa.

In effetti, la preoccupazione per una caduta dei prezzi nell’eurozona è tale che si sta facendo strada in questi giorni tra le autorità monetarie l’idea di rispondervi con un acquisto massiccio di titoli da parte della BCE ed un ulteriore abbassamento dei tassi dell’interesse. La questione che si pone è però se tali provvedimenti potranno essere efficaci, e soprattutto quanto la BCE risulti nel complesso coerente nelle sue indicazioni di politica economica. In particolare, viene da chiedersi se la richiesta da parte della BCE di ulteriori consolidamenti fiscali ed “aggiustamenti strutturali” specialmente nei paesi periferici dell’Unione europea, così come il mancato intervento nei mercati dei cambi a fronte del recente apprezzamento dell’euro, non contrastino proprio con l’obiettivo dichiarato di voler allontanare lo spettro della deflazione.

2. Va detto che l’annuncio di Draghi di possibili ulteriori immissioni di liquidità ed acquisti di titoli da parte della BCE troverebbe ampio spazio in una qualche regola di “inflation targeting”[2] o guardando al bilancio della BCE – di molto inferiore per ammontare di titoli in bilancio a quello della Federal Reserve, e ridottosi nel 2013 sia per il rimborso da parte del sistema bancario dei prestiti avuti nel 2011 con le operazioni di rifinanziamento LTRO a tre anni, sia per la scadenza di titoli acquistati nel 2009. Va anche detto che un beneficio dall’acquisto di titoli da parte della BCE potrebbe sicuramente aversi se venissero comprati principalmente titoli pubblici[3], e ciò fosse fatto in proporzione non alle quote di capitale della BCE possedute dalle diverse banche nazionali che compongono l’Eurosistema, ma in base allo scostamento dei rendimenti dei titoli decennali dei vari paesi da quelli sui titoli a lungo termine valutati con tripla A dalle agenzie di rating. Questo permetterebbe infatti da un lato di abbattere quei differenziali nei tassi dell’interesse che ancora permangono nell’eurozona e rendono più costoso il credito ed il servizio del debito pubblico nei paesi periferici;[4] e, dall’altro, di aprire spazi in questi paesi a politiche fiscali più espansive – anche semplicemente per il fatto che, a parità di disavanzo pubblico, il minor costo del servizio del debito potrebbe trovare ‘compensazione’ in un aumento di voci di spesa con un effetto moltiplicativo sul reddito maggiore.

L’idea che il ‘quantitative easing’ annunciato da Draghi possa avere successo contro la deflazione si scontra tuttavia con i limiti nei meccanismi di trasmissione della politica monetaria che lo stesso ultimo Rapporto Annuale della BCE ha evidenziato[5], così come con i vincoli statutari posti alla BCE ad una monetizzazione del debito pubblico nell’eurozona – vincoli che certo limiterebbero l’acquisto di titoli pubblici rispetto a quanto fatto ad esempio dalla Federal Reserve. Inoltre, essa si scontra con l’idea espressa con forza nel Rapporto della BCE (cfr. p. 8 ) che la strada per consolidare la ripresa economica debba essere quella di “strategie fiscali” in linea con il fiscal compact, e di riforme del mercato del lavoro e dei prodotti tali da “rafforzare la competitività, incrementare la crescita potenziale, [e] creare opportunità di occupazione”.

Non voglio entrare qui nel tema delle riforme del mercato del lavoro, progressivamente attuate da qualche decennio ma senza effetti positivi e significativi sull’occupazione[6]. Voglio invece dire qualcosa circa la politica fiscale, perché centrale per le prospettive di crescita nell’area dell’euro, e dunque anche per l’andamento dei prezzi nell’eurozona.

Tra i motivi per cui secondo la BCE risulterebbe necessario predisporre ed attuare piani credibili di rientro del deficit e del debito pubblico c’è il fatto che i tassi dell’interesse sui debiti sovrani tenderebbero altrimenti di nuovo ad aumentare nei paesi che presentano un elevato debito pubblico (cfr. ad esempio p. 79 del Rapporto), e ciò a copertura del maggior rischio di default a cui chi possiede quei titoli andrebbe incontro. Si tratta di un rischio che però sembrerebbe di fatto cadere proprio se la BCE garantisse un suo intervento sui mercati dei titoli come fatto da altre Banche Centrali. E che ciò non avvenga (o avvenga in misura troppo limitata) non fa altro che rendere più evidente la necessità di una riforma dei Trattati Europei e dello stesso statuto della BCE.[7]

Si può poi osservare che il controllo dei bilanci dei singoli Stati nazionali così come la progressiva riduzione del rapporto debito pubblico/Pil prevista dal fiscal compact potrebbero avere un senso solo se a ciò si affiancasse un bilancio pubblico federale crescente nel tempo e finanziato con moneta o emissione di titoli garantiti dalla Banca Centrale Europea. In caso contrario, infatti, l’effetto restrittivo di quelle misure non potrebbe che essere devastante per l’economia europea, e di fatto socialmente intollerabile per gran parte dei suoi paesi – Italia compresa. Basti pensare che – come evidenziato da Gattei e Iero[8] – se effettivamente come previsto dalla legge del 23 luglio 2012 n. 114 si dovesse a partire dal 2015 ridurre entro venti anni nel nostro paese al 60 per cento l’incidenza del debito pubblico sul Pil, supponendo un tasso di crescita reale del Pil costante all’1,6%, una inflazione dell’1,5% ed un rendimento nominale medio sui titoli di Stato stabile al 4%, si dovrebbero avere avanzi primari per venti anni non inferiori al 4.5 per cento del Pil nominale. E ciò ipotizzando che tali avanzi primari non abbiano essi stessi effetti negativi sul tasso di crescita del reddito nazionale.[9]

In realtà implicita nelle richieste di consolidamento fiscale avanzate dalla BCE e dalla Commissione Europea sembra esserci l’idea, espressa da Rogoff, Cecchetti ed altri, e ripetuta continuamente dall’OCSE,[10] che misure fiscali restrittive abbiano in realtà effetti espansivi. Si tratta però di una tesi non solo smentita dall’esperienza, ma che si basa su ipotesi particolari circa ad esempio il comportamento forward-looking o meno del consumatore rappresentativo, o circa l’entità delle variazioni nel rischio di credito e quindi nei tassi dell’interesse al variare del debito pubblico.[11] Soprattutto, quella tesi si basa sull’idea che in fondo ad una riduzione della spesa pubblica seguirebbe per varie vie, ed in particolare tramite la riduzione del tasso dell’interesse, un aumento della spesa privata, senza dunque alcun effetto negativo sulla domanda complessiva e l’occupazione.

Il quadro ovviamente appare completamente diverso in un’ottica keynesiana in cui la spesa pubblica non spiazza la spesa privata, ma genera di contro risparmi che altrimenti non si sarebbero manifestati. In questo caso il perseguimento di una riduzione del rapporto debito pubblico/Pil tramite avanzi di bilancio nel tempo non potrebbe che avere effetti negativi sull’occupazione ed il reddito, e determinare quindi una distruzione di ricchezza del settore privato.[12] La via per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil apparirebbe allora quella di bassi tassi dell’interesse e politiche fiscali espansive tali da garantire elevati tassi di crescita nel denominatore di quel rapporto – ovvero nel reddito nazionale.

3. Non sono però solo le richieste da parte della BCE di un “consolidamento fiscale” a essere in contrasto con il timore espresso da Draghi circa il rischio di deflazione. Contraddittorie rispetto a tali timori risultano anche le decisioni (o, meglio, come usuale in questo campo per la BCE, le non-decisioni) riguardo al tasso di cambio.

Leggendo il Rapporto Annuale della BCE il lettore rimane in effetti colpito da due cose rispetto alla bilancia dei pagamenti. La prima è che non vi si trova alcun accenno al surplus eccessivo della bilancia commerciale tedesca che ha allertato gli Stati Uniti e la stessa Commissione europea. La questione non è ovviamente di poco conto, perché molte difficoltà in Europa sono legate proprio al rifiuto tedesco, come già altre volte nella sua storia, di operare da locomotiva della crescita, condannando così l’Europa a tassi di crescita minori di quelli potenzialmente raggiungibili. E tale rifiuto riflette non solo la convinzione tedesca che il riequilibrio delle bilance dei pagamenti debba effettuarsi attraverso la compressione della domanda nei paesi in disavanzo, e non anche tramite l’espansione nei paesi in avanzo, ma un definito modello di specializzazione produttiva perseguito nel tempo ed esteso progressivamente in Europa anche grazie alla perdita del controllo sui tassi di cambio da parte di altri paesi manifatturieri europei tra cui l’Italia.[13] Quei surplus commerciali hanno d’altra parte come contraltare un crescente peso politico e finanziario tedesco – tramite il finanziamento diretto o indiretto dei paesi in deficit con la Germania[14] e l’acquisizione di attività all’estero.

La seconda cosa che colpisce il lettore è che vi si trova conferma (cfr. pag. 98) del fatto che la BCE non ha effettuato alcun intervento per evitare l’apprezzamento dell’euro iniziato dalla fine del 2012 (vedi la figura 5 del Rapporto qui riportata).[15] Ciò contrasta con il timore espresso dalla BCE verso la deflazione, non solo perché l’apprezzamento del cambio di fatto la favorisce tramite il minor costo che determina dei prodotti importati (tra cui quelli energetici ed alimentari), ma perché esso potrà avere effetti negativi sulle esportazioni dell’eurozona, in un momento tra l’altro in cui si hanno segnali di un rallentamento nel volume del commercio mondiale e nella crescita dei paesi emergenti. La tesi che si trova nella Relazione che l’esposizione dell’area dell’euro verso tali paesi risulterebbe relativamente limitata non sembra del tutto convincente: l’esportazione di merci dell’eurozona si indirizza comunque per il 5,1 per cento verso la Polonia, il 4,7 verso la Russia, il 3,8 verso la Repubblica Ceca, il 3,3 verso la Turchia, ed il 7 verso la Cina, e negli ultimi anni si è avuta una forte crescita delle esportazioni verso l’America latina, i paesi Opec e l’Asia. Molti di questi paesi hanno poi deliberatamente deprezzato le loro monete verso l’euro per aumentare le loro esportazioni e ridurre le importazioni.

C’è anche un altro elemento da considerare. L’apprezzamento del cambio colpisce i paesi dell’eurozona in modo differenziato, per cui c’è da sperare che la BCE non lasci tornare, sotto la spinta del ritorno dei capitali verso l’euro, il cambio ai valori che aveva tra il 2008 ed il 2009.[16] Mentre infatti quei valori avrebbero ripercussioni limitate sulle esportazioni tedesche (sia per la loro composizione, sia per la bassa crescita di salari nominali e prezzi in Germania rispetto ad altri paesi, sia perché il deprezzamento del cambio di paesi quali la Repubblica Ceca, la Polonia e la Romania riduce al tempo stesso il prezzo dei prodotti intermedi importati dall’industria tedesca) diverso è il caso di altri paesi, tra cui l’Italia. Essi si troverebbero di fronte ad un peggioramento nei loro tassi di cambio reali proprio nel momento in cui vi si manifestano alcuni deboli segnali di ripresa economica. E se – sotto la spinta di tale peggioramento – vi si verificassero ulteriori contenimenti o riduzioni di salari monetari e prezzi, la deflazione non potrebbe a questo punto che trasformarsi in una triste realtà per una vasta area dell’eurozona.

*Università Roma Tre

[1] Cfr. F. Caffè, La solitudine del riformista, Torino, 1990, p. 167.
[2] Chi volesse applicare una qualche regola di inflation targeting non potrebbe del resto non concordare con la necessità di una ulteriore riduzione dei tassi dell’interesse – risultando il tasso di inflazione minore di quello target del 2 per cento, e quello che viene definito il NAIRU (ovvero, il tasso di disoccupazione per cui l’inflazione non accelera) di certo minore del 12 per cento (ovvero minore dell’attuale disoccupazione nell’eurozona) – e ciò tanto più visti i continui interventi di deregolamentazione del mercato del lavoro avutisi in questi ultimi anni.
[3] Un beneficio, di cui certo terrebbe conto la BCE, si avrebbe anche per il sistema bancario, che potrebbe ottenere plusvalenze dalla vendita di titoli alla BCE, e migliori condizioni di mercato per i suoi aumenti di capitale.
[4] Mentre i tassi di interesse sui titoli a lungo termine valutati AAA (quelli di Austria, Finlandia, Germania, Lussemburgo e Olanda) crescono dall’1,7% al 2.2% da gennaio a fine dicembre 2013, ma si mantengono per la prima volta al di sotto di quelli statunitensi (anche a seguito dell’annuncio a luglio da parte della Fed di un possibile ridimensionamento nell’acquisto di titoli nel caso di miglioramenti sostanziali nell’economia), i differenziali rispetto a quelli tedeschi dei rendimenti dei titoli dei paesi periferici migliorano, ma rimangono comunque più alti che prima del 2008.
[5] Su ciò si veda E.S. Levrero, Potenza e limiti della BCE, Economia e Politica, maggio 2014.
[6] Si veda comunque Realfonzo e Tortorella Esposito: “Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine“, Economia e Politica, maggio 2014.
[7] Sui problemi legati al trattato di Maastricht cfr. ad esempio J. Bibow, The Euro and its Guardian of Stability: the Fiction and Reality of the 10th Anniversary Blast, The Levy Institute,Working Papers, n. 583, Nov. 2009.
[8] Cfr. L’insostenibile rimborso del debito, Economia e Politica, Marzo 2014.
[9] Per esempi storici in cui ciò di contro è avvenuto si veda ad esempio V. Chick e A. Pettifer, “Fiscal Consolidation: Lessons from a Century of Macro-Economics Statistics”, June 2010.
[10] Cfr. OECD Economic Policy Papers, “Fiscal Consolidation: How Much, How Fast and by What Means,” April 2012; o OECD Economic Policy Papers, “Choosing Fiscal Consolidation Instruments Compatible with Growth and Equity”, July 2013.
11] Si veda ad esempio Corsetti e altri, “Sovereign Risk, Fiscal Policy and Macroeconomic Stability”, IMF Working Paper, January 2012, per i quali un aumento nel rapporto debito pubblico/Pil porterebbe ad un tasso dell’interesse più elevato per compensare il rischio di default, e renderebbe più esposto un paese alle reazioni dei mercati finanziari. Quando questi rischi siano elevati, il moltiplicatore fiscale risulterebbe negativo.
[12] Da qui la richiesta che almeno si punti ad una stabilizzazione, piuttosto che ad una riduzione, del rapporto debito pubblico-Pil. Cfr. a riguardo l’articolo di R. Realfonzo, “Stabilizzare il debito per arginare l’austerità“, in questa rivista.
[13] Funzionale a quel modello è un cambio forte che permetta all’industria tedesca di ottenere dall’estero prodotti intermedi, beni salario e prodotti energetici a basso costo; che incentivi razionalizzazioni ed aumenti di efficienza nell’industria; che favorisca gli investimenti all’estero. Sul dibattito sul neomercantilismo tedesco (che dura di fatto da qualche decennio) si veda F. Vianello, “L’Europa fra dollaro e marco: note sul dibattito italiano”, in idem, Il Profitto e il potere, Torino, 1979; e S. Cesaratto e A. Stirati, “Germany in the European and Global Crises”, International Journal of Political Economy, 39, 4.
[14] Dopo la crisi del 2007 ciò è avvenuto in modo crescente con l’accumulo di crediti della Bundesbank presso il sistema Target2.
[15] Ci si riferisce al tasso di cambio rispetto ai 20 principali partners commerciali dell’eurozona. Più in particolare, l’euro risulta stabile rispetto alla sterlina, si apprezza rispetto allo yen dopo un deprezzamento nel 2008-2011, ha un leggero apprezzamento rispetto al reminbi sempre dopo un deprezzamento nel 2008-11, e si apprezza rispetto al dollaro (anche se il suo valore è ancora inferiore a quello del 2007).
[16] Un timido segno positivo al riguardo lo si è avuto dalla preoccupazione espressa da Draghi l’8 maggio circa l’apprezzamento del cambio – benché poi abbia specificato che il tasso di cambio non è tra i target della BCE.

 

 

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