Il reddito di cittadinanza è un diritto naturale?

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Political and social notes

1. Vorrei proporre alcune brevi riflessioni sull’articolo di Beppe Grillo “Società senza lavoro”, pubblicato sul suo blog il 14 marzo 2018.

Le mie non vogliono essere riflessioni politiche e sono svolte per cercare di spostare il tenore della discussione che l’informazione sta cercando di imprimere a questa tematica. Basti dire che il “Corriere della sera” del 16 marzo con un articolo di P. Battista taccia Grillo di utopismo e di marxismo, onde meglio sottolineare il carattere “estremo, anzi estremista”, in ultima analisi totalitario (“si sa che nella storia molto spesso le utopie paradisiache hanno generato molti inferni totalitari terreni”) del pensiero del fondatore del Movimento Cinque Stelle e per sottolineare la netta torsione a sinistra che Grillo vorrebbe imprimere al movimento (niente aperture alla Lega, dunque)[1]. Per quanto la linea editoriale del “Corriere della sera” sia mutata con il cambio di proprietà, è però opportuno ricordare che il quotidiano milanese ha avuto un ruolo fondamentale nel definire il cosiddetto “liberismo di sinistra”, cioè l’ideologia portante del Partito Democratico. E questo ruolo lo ha giocato ben prima che questo partito venisse preso in mano da M. Renzi. Il neo-liberismo del maggior partito della cosiddetta sinistra italiana si definisce, infatti, già negli anni Novanta ed ha avuto nell’ex-classe dirigente del PCI un protagonista di primo piano[2].

Credo dunque sia opportuno commentare la riflessione di Grillo per quello che vuole essere: una riflessione meta-politica, anche se alla politica in ultima analisi vuole essere rivolta.

2. Il ragionamento di Grillo penso possa essere suddiviso in due parti. La prima che considero è quella racchiusa nella chiusura del suo testo, ove si legge:

“Una società evoluta è quella che permette agli individui di svilupparsi in modo libero, generando al tempo stesso il proprio sviluppo. Per fare ciò si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato.”

Il ragionamento si caratterizza per il fatto che invita a considerare la proposta, non dal punto di vista tecnico, ma come un nuovo diritto naturale. Non è, dunque, in prima battuta, un problema di finanza pubblica o di incentivi individuali al lavoro e alla produttività. Non si tratta di escogitare l’equilibrio possibile tra risorse da destinare al reddito di cittadinanza e i vincoli di sistema: quelli internazionali legati al debito pubblico, quelli legati al bilancio dello stato, infine quelli legati alle ricadute sul mercato del lavoro.

3. Potrebbe sembrare che questa sorta di diritto naturale nella società oggi esistente sia una novità assoluta. Cioè potrebbe sembrare che nell’Italia di oggi non vi siano redditi garantiti per nascita e dunque garantiti a prescindere dal lavoro svolto da chi il reddito lo percepisce.

Ebbene non è affatto così. Tutti gli individui, infatti, nascono in determinate famiglie. E queste famiglie garantiscono di fatto un reddito individuale naturale ai nascituri.

Certo: Grillo implicitamente invita a considerare il reddito naturale, un reddito garantito dallo Stato. Le famiglie, invece, sono a prima vista un fatto del tutto privato. Se però andiamo a fondo della questione, ci accorgiamo che così non è. E non lo è nemmeno per quelle famiglie che non devono le proprie entrate ad imprese cosiddette private. La mole dei dipendenti pubblici esistenti; la mole dei servizi resi dallo Stato a tutti i cittadini, anche ai non dipendenti pubblici; la molte delle leggi dello Stato che garantiscono un certo diritto ereditario, cioè una determinata forma di passaggio della ricchezza privata all’interno della famiglia: sono altrettante forme attraverso le quali lo Stato, direttamente o indirettamente, garantisce un reddito naturale ai cittadini italiani, e, più in generale, a tutti coloro che in Italia, anche se non ne sono cittadini, usufruiscono dei servizi e delle leggi. In tutti questi casi siamo di fronte a redditi garantiti per diritto di nascita e che non hanno alcun legame con il lavoro svolto dall’individuo che percepisce, direttamente o indirettamente, il reddito.

4. Il ragionamento di Grillo, in conclusione, invita a prendere in considerazione una tematica molto rilevante: quella dei punti di partenza degli individui. Punti di partenza che possono essere analizzati da differenti punti di vista: sociali, culturali e via discorrendo, infine economici. Il reddito di cittadinanza appartiene a quest’ultima categoria.

Prima, dunque, di cominciare la discussione sull’idea di Grillo, varrebbe la pena approfondire e analizzare nel dettaglio tutte le forme che già oggi assume il diritto naturale al reddito. Prima tra tutte il diritto di ereditare la ricchezza e le organizzazioni economiche e non economiche dei genitori. E bisognerebbe analizzare la questione non solo sul piano generale, cioè del principio, ma anche dei sui effetti, dati i vincoli oggi esistenti: che poi sono i vincoli di cui ho parlato prima: contesto internazionale, finanza pubblica, mercato del lavoro. Ma questi vincoli apparirebbero ben maggiori, vista la natura differente del diritto al reddito in questione. Per esempio tra i vincoli metterei senz’altro il seguente: che già esiste un reddito semi-naturale elargito da un organismo quasi-statuale quale la criminalità organizzata (è lo Stato che amministra la forza e la giustizia), che lo utilizza per controllare il territorio e costruire quella che con una espressione tecnica che certamente al “Corriere della sera” di Battista non piacerà, si definisce “egemonia”.

5. Ma rimaniamo nei limiti di una società “normale”, cioè in cui l’unico ad amministrare la forza e la giustizia sia lo Stato fondato su moderni diritti democratici. Che merito hanno i figli di coloro che hanno costruito un organismo capace di generare reddito, di ricevere fin dalla nascita parte di questo reddito e poi di costruire sulla base di quella originaria organizzazione gran parte della propria esistenza? La risposta è semplice: non hanno nessun merito; godono di un diritto di nascita. Certo: si aprirà la discussione se questo diritto è funzionale al progresso o al regresso della comunità. Ma è indubbio che si tratta di un altro problema. Non c’è infatti alcun legame tra reddito percepito e merito lavoristico.

6. Se poi volessimo approfondire l’argomento sul piano della filosofia della storia, cioè sul piano dei risultati di una società siffatta, allora potremmo dire che una società come quella attuale italiana, dove le tasse di successione sono molto basse (e sono state abbassate in modo bipartisan da Berlusconi e dal PD, a torto o a ragione ora non è in discussione), è tale per cui si arriva ad un paradosso evidente, sotto gli occhi di tutti e che dunque non c’è affatto bisogno del “Corriere della sera” per vaticinarlo perché relegato ad un limbo lontanissimo nel tempo e nello spazio. Il paradosso consiste nel fatto che già esistono milioni e milioni di beni che però non si trasformano in merci, perché manca da parte di chi questi beni vorrebbe goderli la capacità monetaria di acquistarli. Il paese di cuccagna non è affatto un mondo utopistico: è un mondo che vediamo sotto i nostri occhi e che spesso riusciamo a vedere solo sotto le lenti del moralismo e/o dei vincoli di sistema esistenti. Per cui lo chiamiamo “consumismo”, “eccessivo consumo” (di cibo, come di territorio o di risorse); oppure, quando le cose vanno male, lo chiamiamo “sovrapproduzione”, “crisi di liquidità”, “fallimenti industriali e bancari”, “crisi fiscale dello Stato”. Viviamo il paradosso per cui vi sono centinaia di migliaia di uomini e di donne senza casa, mentre vi sono centinaia di miglia di appartamenti già costruiti e vuoti. Viviamo il paradosso che i supermercati buttano tonnellate di cibo, mentre vi sono migliaia di persone che, pur avendo fame, non possono comperare questo cibo. E il paradosso del cibo si cerca di risolverlo tramite la carità pubblica e privata, nate, entrambe (si pensi alla Chiesa cattolica), quando il problema era la congenita incapacità tecnica da parte della società di produrre cibo per tutti.

7. Dicevo che nel mio ragionamento sarei partito dalle battute finali del testo di Grillo. Veniamo ora al resto. Ad un certo punto l’A. scrive: “Abbiamo una capacità produttiva che è di gran lunga superiore alle nostre necessità”. La tecnologia e il reddito di natura, insomma, sembrano aver reso possibile per la prima volta una diminuzione dei nostri consumi. Si tratta di un ragionamento che è bene ricordarsi che è sempre stato proposto in economia: ciclicamente, soprattutto coloro che volevano cristallizzare un certo tipo di gerarchie sociali (sempre presentate come immutabili), hanno sottolineato come le risorse fossero scarse. Oggi questa argomentazione non è più appannaggio della conservazione, ma anche di teorie, come quelle della cosiddetta “decrescita felice”, che hanno di mira il progresso dell’umanità. Forse Grillo è sensibile a questo tipo di argomentazioni. Non voglio entrare nel merito. Mi limito ad osservare che il progresso tecnologico trasforma radicalmente anche i nostri bisogni, cioè ciò che noi riteniamo necessario, addirittura indispensabile. I bisogni non sono un dato di natura, ma sono socialmente determinati: ed avere oggi, per esempio, un insaziabile bisogno di pace o di energia pulita e riuscire ad appagarli (con l’industria umana), ritengo che sia fondamentale. E poiché Grillo mi sembra che condivida questa esigenza, l’invito che gli rivolgo è appunto a non rimanere intrappolato nell’anti-industrialismo/anti-consumismo di Rousseau, perché esso è stato oggettivamente superato dalla storia.

8. Finisco. Nella chiosa finale Grillo contrappone una società che mette al centro dei propri problemi l’umanità da quella che mette al centro il mercato. Il reddito naturale di cittadinanza è lo strumento per privilegiare la prima a discapito della seconda. Il ragionamento che ho fatto a proposito dei punti di partenza invita a considerare come percorribile e legittima questa strada. Le incompatibilità di sistema non sono altro che l’indicazione del fatto che vi sono forze oggettive che spingono a modificare questo sistema.

Naturalmente, è solo il concreto divenire storico che saprà indicare la forma di questa modifica. Il risultato non potrà che essere quello dato dalla lotta sociale e politica, rese tanto più complicate e ricche di rischi ed incognite quanto più la nostra storia è diventata storia internazionale. E forse un modo per rendere questo risultato, cioè questo nuovo equilibrio sociale, meno rischioso (guerra sociale e guerra tra Stati) e meno insondabile, passa per una ri-nazionalizzazione dei problemi e delle soluzioni.

Ora, però, come dicevo, non è di politica che vorrei parlare. Quale che sia la forma che prenderà il bisogno di pace sociale, è opportuno avere ben chiaro un tema, tutt’altro che utopistico perché è la quotidianità del mercato capitalistico che lo pone sotto i nostri occhi. Il progresso tecnologico, cioè l’espansione illimitata delle forze produttive del lavoro e dei nostri bisogni, rende di fatto un’anticaglia lo stesso scambio di mercato e il capitalismo. E’ proprio la famiglia, per non allontanarci dall’esemplificazione fatta in precedenza (ma è solo un esempio), ad insegnarci che lo scambio di mercato è solo uno dei modi possibili di soddisfare i bisogni. Lo storico conosce bene questa realtà fattuale non solo perché ha studiato Marx, ma anche perché conosce le innumerevoli società che hanno relegato il mercato in uno spazio circoscritto della propria organizzazione. E c’è chi ha scritto, in tempi terribili e non sospetti – Keynes, tra le due guerre mondiali –, che sono proprio le società più ricche e più evolute sul piano mercantile e capitalistico – Grillo forse sottovaluta la precisazione, che spinge a mettere in contrapposizione all’umanità non solo il mercato, ma il profitto – ad avere il dovere, perché ve ne sono le condizioni oggettive, di tentare questo esperimento. Lasciarlo intraprendere ai più poveri può invece comportare seri rischi, come non smette di ricordarci ogni giorno il “Corriere della sera”.

[1] P. Battista, L’ultima utopia di Beppe che rispolvera Marx e il mondo senza lavoro, “Corriere della sera”, 16 marzo 2018, p. 9.

[2] Rimando a L. Michelini, La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Firenze, Il Ponte editore, 2008.

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