Fuori dall’euro?

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Political and social notes

La moneta unica è sotto attacco in Italia e in Europa. Ad essa viene attribuita la responsabilità della crisi che soffoca l’economia europea. I partiti populisti, nazionalisti e xenofobi, fanno dell’uscita dell’euro il simbolo della loro strategia politica. Anche a sinistra vi sono voci critiche sempre meno isolate. Riemergono vecchie pulsioni nazionalistiche, isolazioniste, provinciali, e vecchie paure che da sempre albergano nel sottofondo emotivo e culturale del nostro Paese.

Naturalmente è difficile, sul piano logico attribuire all’euro in quanto tale la responsabilità degli effetti delle politiche di austerità adottate in Europa negli ultimi 5 anni, ma l’euro è un bersaglio facile, anche perché è un vincolo, un condizionamento, un limite di cui ci si vorrebbe liberare nella convinzione (illusione) che recuperati gradi di libertà le cose andrebbero sicuramente meglio.

In Italia persone come Michele Salvati o Salvatore Biasco, protagonisti dello sforzo per l’ingresso dell’Italia nella moneta unica fin dall’inizio, oggi dicono che entrare fu un errore.

E tuttavia se venisse indetto un referendum sulla permanenza nella moneta unica è probabile che i favorevoli continuerebbero a prevalere, e non è un caso che favorevole alla permanenza nell’euro sia ancora oggi la maggioranza della popolazione greca e il nuovo governo di Syriza. Sembra proprio che il timore per possibili conseguenze ancora più negative del non brillante presente, giochi un ruolo non secondario in questa prudenza. E del resto, se tanti Paesi economicamente deboli si affollano alle porte dell’euro chiedendo di poter entrare, una ragione ci sarà: l’euro appare ancora come una protezione, una difesa rispetto ai rischi della globalizzazione e della durezza dei mercati.

E’ stato giusto e conveniente entrare nell’euro? Molti Paesi, pur facendo parte della Comunità Europea, non hanno aderito all’Unione monetaria e si sono trovati bene, mi riferisco ovviamente al R.U. e ai Paesi nordici, Finlandia esclusa.

Naturalmente se l’Italia si fosse trovata nelle condizioni economiche, politiche e sociali di quei Paesi, l’opzione poteva anche essere presa in considerazione, anche se la nostra storia di cofondatori del progetto europeo spingeva nella direzione opposta. Ma agli inizi degli anni’90 l’Italia era un Paese in condizioni tutt’altro che brillanti; eravamo un Paese che veniva da anni di alta inflazione, alta conflittualità sociale sfociata in un terrorismo politico diffuso, arroganza della malavita organizzata, stragi, con un sistema politico ancora bloccato. Un Paese che negli anni ’80 aveva più che raddoppiato il debito pubblico passando dal 57% del PIL del 1980 al 124% del 1992, un Paese che nel 1992 era stato prossimo al default, considerato inaffidabile e condannato all’insolvenza: proprio in quegli anni Rudiger Dornbusch (uno dei più autorevoli economisti in attività) sosteneva che l’eventualità di default italiano non era definibile in termini di “se” ma di “quando”. In quegli anni si discuteva anche della possibilità di una ristrutturazione del debito pubblico italiano che allora era in massima parte interno e in mano alle famiglie. Bruno Visentini evocò questa possibilità in termini di “patrimoniale” non ricevendo particolari sostegni: erano contrari la Banca d’Italia, il sistema bancario e finanziario, e perplessa gran parte della comunità degli economisti: solo Marcello De Cecco e chi scrive adombrarono, con la dovuta prudenza, tale possibilità, che tuttavia sarebbe stata politicamente molto difficile da attuare in quanto l’impatto sarebbe andato direttamente sulle famiglie e sui loro risparmi. Nel frattempo: i tassi di interesse erano intorno al 10%, lo spread superiore ai 500 punti base, la spesa per interessi sul PIL superiore al 10%, mentre il debito pubblico continuava a crescere pur in presenza di una imposta inflazionistica significativa.

Stando così le cose anche la eventuale ristrutturazione del debito pubblico non avrebbe risolto il problema; sarebbe stato comunque necessario attuare politiche di rigore per riportare il bilancio in equilibrio (con le conseguenze politiche relative) e affrontare una fase di riforme molto profonde che consentissero all’Italia di non essere esposta alle turbolenze dei mercati, facendole recuperare reputazione e credibilità.

L’ingresso nell’euro rappresentava quindi una soluzione più che ragionevole: la convergenza dei tassi di interesse avrebbe consentito un risparmio di spesa di più di 5 punti di PIL, mentre gli impegni assunti in sede europea avrebbero rafforzato il compito del governo nella realizzazione delle riforme necessarie. Si trattava senza dubbio della soluzione più conveniente e meno dolorosa per il Paese.

Naturalmente nessuno ignorava il fatto che la zona euro non era un’area monetaria ottimale, ma da un lato si faceva affidamento sulla necessaria evoluzione della integrazione economica, fiscale e politica della zona euro, e dall’altro nessuno a quel tempo poteva immaginare il verificarsi di uno shock esterno della portata di quello del 2007. Né va dimenticato che l’ingresso nella moneta unica richiedeva da parte dei Paesi contraenti il rispetto di varie condizioni: una inflazione non superiore di 1,5 punti rispetto a quella media dei tre Paesi più virtuosi, un disavanzo pubblico non superiore al 3% del PIL, un debito pubblico non superiore al 60% del PIL o in rapida riduzione, tassi di interesse a lungo termine non superiori di più di due punti alla media dei tre Paesi più virtuosi.  Inoltre al momento dell’introduzione dell’euro le bilance commerciali dei Paesi erano ragionevolmente in equilibrio. Le premesse per partire erano quindi presenti.

L’aver abbandonato da parte della Commissione e dei singoli Paesi il controllo sul rispetto di tutte le condizioni ricordate concentrandosi solo su quella relativa al disavanzo non poteva che mettere in moto processi di divergenza tra Paesi con strutture economiche molto diverse. Inoltre, a livello politico, invece di procedere all’approfondimento” dell’Unione si decise di impegnarsi sul suo “allargamento”, accogliendo i Paesi dell’est europeo, con costo del lavoro molto più basso, nonchè livelli di reddito e sistemi di welfare non paragonabili a quelli prevalenti negli altri Paesi europei. Il cambio delle maggioranze politiche in Europa (da centrosinistra a centrodestra), infine, provocò un affievolimento della spinta verso l’integrazione.

In sostanza tutti i Paesi non appena introdotto l’euro si sono impegnati a porre le premesse per la sua crisi: l’Italia ha sperperato in pochissimo tempo un surplus primario di 5 punti aumentando la spesa corrente (soprattutto regionale) e concedendo generosi aumenti contrattuali (soprattutto nel pubblico impiego), mantenendosi entro il vincolo del 3% grazie alla finanza creativa, e dimenticandosi delle riforme; la Germania ha realizzato una svalutazione fiscale interna riducendo welfare e salari, per accrescere la propria competitività nei confronti soprattutto degli altri Paesi Europei, mentre avrebbe dovuto fare la locomotiva; Spagna e Irlanda hanno approfittato della discesa dei tassi di interesse per innescare un processo di rapida crescita drogato dalla bolla immobiliare, incuranti della perdita di competitività e dei disavanzi con l’estero crescenti; il Portogallo ha fatto un po’ di tutte le cose; la Grecia come è noto, di tutto e di più.

La situazione, già precaria, è stata resa insostenibile dalle politiche di austerità adottate come risposta alla crisi del 2007, sulle quali è inutile soffermarsi perché sulla loro valutazione esiste un unanime accordo. La risposta corretta avrebbe dovuto consistere in politiche differenziate per i diversi Paesi, riforme strutturali, Quantitative Easing da parte della Banca Centrale, rilancio della domanda globale in Europa mediante un forte programma di investimenti pubblici.

In conclusione il problema non è tanto l’euro che pure è rimasto un progetto imperfetto e incompiuto, quanto l’insostenibilità di politiche economiche inutilmente e violentemente deflattive che hanno aggravato la situazione preesistente invece di migliorarla e che rendono molto difficile la coesistenza in una unione monetaria di economie che anzichè convergere, divergono.

La fine dell’euro è quindi possibile, anche se non necessariamente auspicabile. Del resto nella vita delle nazioni e delle istituzioni su cui esse basano la loro convivenza tutto può avere una fine, come ha avuto un inizio. Ma per lo meno bisogna essere consapevoli di come e perché si è arrivati a questo punto e quali possono essere le conseguenze di una eventuale “fuoriuscita”.

L’articolo di Realfonzo e Viscione fornisce alcune indicazioni in proposito, basandosi sull’esperienza concreta della crisi valutarie recenti di molti Paesi che hanno comportato ampie svalutazioni del cambio, l’abbandono di accordi di cambio precedenti, e valutandone gli effetti reali. I risultati non sembrano in verità tali da suscitare un grande entusiasmo. L’uscita dall’euro comporterebbe una svalutazione della nuova moneta dei Paesi più deboli (Italia in testa), ed è per l’appunto questo l’obiettivo che i sostenitori dell’uscita desiderano realizzare, ma a parte il fatto, ben noto, che gli effetti di una svalutazione sono temporanei e transitori, bisogna considerare che l’aumento dei prezzi successivo alla svalutazione può rimangiarsi percentuali rilevanti del guadagno competitivo ottenuto; che pur verificandosi un miglioramento della bilancia commerciale (crescita delle esportazioni e riduzione delle importazioni), non sempre questo miglioramento si traduce in un aumento rilevante del PIL, e spesso gli effetti sull’ occupazione sono nulli o limitati. Inoltre, normalmente l’aggiustamento reale che segue una svalutazione si manifesta attraverso l’inflazione che riduce i salari reali e produce un nuovo equilibrio. In sostanza concludono i due autori, l’uscita dall’euro non sarebbe “un toccasana” per l’Italia.

Mentre il sostegno all’ipotesi di abbandonare la moneta unica da parte della destra populista e nazionalista è comprensibile in quanto per loro l’euro rappresenta un simbolo da esorcizzare oltre che un impegno alla integrazione sovranazionale che esse rifiutano, più difficile risulta comprendere perché anche a sinistra si tende da parte di alcuni a sopravvalutare i benefici di un ritorno alle monete nazionali. L’illusione di poter restituire alla Germania i torti subiti in questi anni e di liberarsi da condizionamenti e impegni privi di razionalità economica e dalla sudditanza politica, giocano probabilmente un ruolo rilevante. Ma anche da un punto di vista economico probabilmente si sopravvaluta la possibilità di ripresa dell’Italia industriale, e quindi della possibilità di una crescita robusta e autoalimentantesi, non tenendo conto del fatto che in questi anni di crisi la struttura dell’economia italiana è radicalmente cambiata e si è fortemente indebolita: oggi gli addetti al settore manifatturiero rappresentano non più del 15% del totale e la nostra struttura produttiva basata su micro e piccole imprese, spesso improbabili, non sembra rispondere alle necessità di una economia moderna competitiva.

Questi problemi rimarrebbero dopo l’eventuale uscita dall’euro, anzi apparirebbero ancora più gravi e richiederebbero interventi strutturali e politiche di investimento molto costose che non consentirebbero certo aumenti salariali generalizzati.

Così come, nella migliore delle ipotesi, e cioè che l’uscita dall’euro si limitasse ad attivare il semplice meccanismo svalutazione-inflazione-aggiustamento- ripresa, resterebbero tutti i problemi relativi all’elevatezza del nostro debito pubblico e alla necessità di ridurlo o per lo meno stabilizzarlo, cosa non facile in un contesto di deflazione e stagnazione che oltretutto durano da 15 anni e derivano da insufficienze strutturali della nostra economia e non certo dall’euro. I proponenti dell’uscita dalla moneta unica pensano probabilmente alla inevitabilità di ristrutturare il nostro debito pubblico e si illudono (probabilmente) che ciò sia possibile senza un formale default. Del resto, si argomenta, il debito pubblico italiano è per oltre il 60% posseduto da soggetti italiani e quindi soggetto alle leggi italiane, e quindi suscettibile di essere eventualmente trasformato in lire svalutate. Sfortunatamente la realtà è un po’ più complessa; infatti nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori. Si tratta per l’Italia di oltre 400 mld di euro, ai quali si devono aggiungere i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE che saranno per definizione di diritto estero. Ne deriva che in caso di uscita dall’euro una quota molto rilevante del debito pubblico italiano dovrebbe comunque essere rimborsata in una valuta di valore considerevolmente superiore (30%?, 50%?) alla nuova lira. Il default sarebbe quindi pressochè inevitabile, con il conseguente fallimento di banche, imprese ( che in molti casi a loro volta fatturerebbero  in lire e risulterebbero indebitate in euro), con effetti catastrofici sull’economia reale.

Siamo così giunti a un punto di fondo che il paper di Realfonzo e  Viscione non esamina, vale a dire gli effetti finanziari di una eventuale dissociazione dall’euro di un Paese “too big to fail” come l’Italia. In altri termini il problema non può essere trattato come una semplice svalutazione senza considerare le interconnessioni finanziarie esistenti sia a livello europeo che globale e che sfuggono alla nostra capacità di individuazione e di analisi. Del resto questo è il problema che, dopo la crisi del 2007, si è posto con tutta evidenza anche a livello teorico per la credibilità dei modelli macroeconomici tradizionali che non incorporano gli effetti finanziari indiretti di uno shock esogeno. Questo aspetto, sottolineato sia da Biasco che dagli autori del Keynes blog e da Gallegati, è della massima importanza perchè il verificarsi di effetti sistemici di grande portata non può essere escluso, anche se non può essere previsto.

Del resto da un punto di vista monetario l’euro è stata una storia di successo, una moneta forte che è la seconda moneta di riserva del mondo che – come ricorda il Keynes blog – coinvolge il 40% degli scambi sui mercati valutari internazionali.

In sostanza, nella situazione attuale, sembra proprio che i Paesi dell’eurozona si siano messi in una trappola (una prigione) da cui è difficile evadere senza correre (e far correre all’economia mondiale) rischi molto seri e poco prevedibili. Ne segue che la soluzione non può che essere cercata all’interno della stessa zona euro attraverso un cambio delle politiche economiche e un recupero di fiducia e collaborazione tra i diversi paesi. E’ evidente che nella situazione politica attuale e nell’assenza di leadership autorevoli questa prospettiva appare come un “wishful thinking” ma dal momento che il permanere e il protrarsi della situazione attuale porta inevitabilmente al collasso dopo il quale rimarrebbe solo terra bruciata per tutti, su di essa è gioco forza concentrare i nostri sforzi evitando di investire su scorciatoie improbabili se non inesistenti.

E da questo punto di vista personalmente non ho trovato convincente la gestione del semestre italiano da parte del nostro governo. Dopo un avvio un po’ sopra le righe, e quindi poco produttivo, la nostra linea è stata quella di evocare la necessità della crescita e di chiedere “flessibilità” per i nostri conti. Più utile sarebbe stato probabilmente ribadire che l’Italia era pronta e disponibile a rispettare gli impegni assunti, (dai governi precedenti) ma, al tempo stesso, porre formalmente il problema di una linea di politica economica chiaramente fallimentare, soprattutto se confrontata con quella seguita altrove (USA, UK,…), e che invece di rilanciare la crescita aveva creato recessione, deflazione, disoccupazione e aumento di debiti pubblici, producendo idonea documentazione  ed evidenza sia empirica che teorica in modo da provocare un dibattito serio ed esplicito. Si è invece preferito proseguire con un approccio di tradizionale “perbenismo europeista” continuando a confidare nei tempi lunghi e sul recupero di buon senso da parte dei partners core .

Vi è infine un altro aspetto che va sottolineato. L’euro non è stato solo un progetto economico tecnicamente incompleto, bensì anche un progetto politico di primaria importanza, un progetto di globalizzazione virtuosa che avrebbe dovuto porre l’Europa e la sua moneta in competizione con gli Stati Uniti, la Cina, ecc…

Al tempo stesso l’euro avrebbe dovuto condizionare la Germania e contenerne eventuali pulsioni egemoniche soprattutto dopo l’unificazione tedesca, diluendone il potere in un più ampio contenitore, condizionamenti e responsabilità collettive. Mentre la Germania è stata abile a sottrarsi a questa operazione, l’insipienza e l’inconsapevolezza degli altri Paesi, a partire dalla Francia di Sarkosy, è stata totale e sorprendente. Tuttavia il progetto rimane anche perché è partito 70 anni fa e ha garantito al nostro continente pace e prosperità, e sia perché la sua interruzione o la sua rottura potrebbe avere conseguenze politiche pericolose per tutti, e in particolare per la Germania.

Personalmente sono convinto che il rischio che un’uscita della Grecia possa portare al mutamento degli assetti strategici nel mediterraneo e ad un’alleanza di questo Paese con la Russia di Putin rappresenta un motivo più che valido a far sì che alla fine un accordo verrà trovato, con buona pace di Schauble e dei falchi tedeschi.

In ogni caso, il tempo a nostra disposizione non è molto. Occorre una inversione di tendenza, un piano Marshall europeo che riguardi sia il rilancio dell’economia che la ristrutturazione concordata dei debiti (in proposito esistono più proposte realistiche e realizzabili), e una maggiore integrazione politica. Questa è la responsabilità che hanno oggi di fronte la Germania  e i leaders europei. Se non saranno all’altezza il Continente si dirigerà non verso Syriza e Podemos, bensì verso le destre più radicali.

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