L’amaro greco

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Political and social notes


Questo giovedì scade la tranche di 460 milioni di euro che la Grecia deve al Fondo Monetario Internazionale. Dopo aver affermato che tale pagamento era alternativo alla erogazione di salari pubblici e pensioni, il governo greco ha successivamente confermato il rispetto della scadenza e, del resto, mai nessun paese ha mancato un pagamento al Fondo. Altri pagamenti incombono inesorabili da maggio in poi, mentre l’Europa non concede l’ultima tranche di 7,2 miliardi dei prestiti concessi nel 2012, non fidandosi della lista di riforme proposta da Tsipras. E comprensibilmente in questa situazione, il governo greco non riesce sempre a offrire un messaggio coerente.

Fra qualche anno gli storici economici registreranno freddamente la crisi greca come l’ennesimo caso di un paese in ritardo economico vittima dell’indebitamento estero, facilitato da quella forma estrema di gold standard che è un’unione monetaria. Come ben messo in luce da un recente paper di due prestigiosi storici economici, Bordo e James (www.voxeu.org), corollari di queste vicende sono il foraggiamento alla corruzione che proviene dalla fase di afflusso dei capitali stranieri, e l’emergere dopo la crisi debitoria di una opposizione “populista” che rivendica la sovranità nazionale a fronte delle misure vessatorie dei creditori. E probabilmente la crisi greca sarà ricordata come l’ennesima comprova della fredda visione che della storia ebbe Tucidide, quella esemplificata nel discorso degli ateniesi ai melii: prostratevi a noi vincitori e non fate discorsi retorici sulla morale umana; se foste al nostro posto vi comportereste come noi ci comportiamo con voi. Questi sono discorsi duri per una sinistra che preferisce crogiolarsi fra Bella ciao e allegre brigate. Ma se questo è il sottofondo storico di ciò che sta accadendo, che cosa possiamo imparare e, soprattutto, sperare di poter fare?

La principale conclusione è la fine di ogni illusione europeista, per chi ancora la stesse coltivando. L’Europa non concederà nulla o quasi alle richieste greche. Piuttosto la lascerà tentare l’avventura dell’uscita dall’euro per mostrare qual è il destino sciagurato che attende chi tentasse di mettere in discussione la dittatura europea. Una Grexit potrebbe tuttavia lasciare l’Europa più sconquassata e acrimoniosa. Le opinioni pubbliche su cui verranno fatti ricadere i costi del default greco verranno scatenate contro quel paese, ma sarà purtroppo difficile che italiani e spagnoli comincino a domandarsi perché hanno dovuto prima finanziare la restituzione greca dei debiti verso le banche francesi e tedesche, per vedersi poi defalcare i crediti verso quel paese, vedendo così i propri conti pubblici peggiorare e subire ulteriore austerità. Difficilmente si chiederanno perché la Germania non paga lei per i crediti ora inesigibili che ha concesso (spesso via Francia) per sostenere le proprie esportazioni,  fedele al proprio modello mercantilista basato sul “vendor financing” fatto, peraltro, anche di corruzione.

L’illusione europeista cade non perché vi sono governi conservatori al potere o per un generico strapotere finanziario neoliberista (che vorrà dire?), ma perché l’Europa è il combinato (a) del disegno del capitalismo nazionale e globale volto a sottrarre alle classi lavoratrici il terreno naturale entro cui battersi, vale a dire lo Stato nazionale sovrano; e (b) della presenza dominante di una potenza mercantilista disinteressata al sostegno della domanda interna, che anzi va compressa per dar spazio alle esportazioni – presenza quest’ultima che differenzia l’Europa dagli Stati Uniti oltre, naturalmente, al peccato originale dell’assenza di una profonda solidarietà politica fra Stati e popoli europei. L’europeismo è un ideale di influenti e spesso interessate élite liberali, liberal-socialiste e radicali che credono siano i vantaggi economici dei liberi mercati a creare la solidarietà politica, o di sprovvedute e utopistiche frange di sinistra.

Certamente la crisi europea, e quella greca in particolare, potevano (e potrebbero ancora) essere trattate in maniera decisamente più progressista dall’Europa, anche per il doveroso riconoscimento politico che le colpe non sono solo dei debitori ma anche e soprattutto dei creditori. La BCE sarebbe stata infatti in grado di “stoppare” la crisi fiscale nel 2010-11, ma in cambio di un drammatico accentramento e rigoroso controllo delle finanze pubbliche nazionali a Bruxelles, con la creazione al contempo di un bilancio federale che cooperasse con la politica monetaria nel sostenere la ripresa. In quest’ambito espansivo i paesi più disastrati avrebbero potuto usufruire di “piani Marshall” di aiuti straordinari. Per capire quanto questo sia impensabile nell’Europa reale, basti andare a leggersi  le note preparate lo scorso febbraio da Juncker, Dijsselblom e Draghi per avviare una “better economic governance” dell’Euroarea. Un testo che, if anything, accentua il soffocante abbraccio di Bruxelles fatto di austerità e contro-riforme. Le analoghe note preparate da Van Rompuy, Juncker e Draghi nel novembre 2011 “for a deep and genuine EMU”, in cui si proponeva un miserrimo fondo di disoccupazione europeo a cui i paesi colti da un ciclo negativo avrebbero potuto attingere, appaiono oggi come ultra-Keynesiane  (e tali dovettero apparire ai tedeschi che infatti le respinsero prontamente).

In questo quadro, se all’Italia rimane la scelta di perseguire un modello di “mercantilismo povero”, secondo la fortunata espressione di Leonello Tronti, alla Grecia neppure quello. Non va infatti dimenticato che l’economia greca – come quella portoghese e per molti versi anche quella spagnola – è un’economia dal debole settore esportatore, in cui anche un minimo di crescita economica richiede aiuti esteri, pubblici o privati e, nella cruda realtà corrente, di aiuti pubblici l’Europa non ne vuole più dare. L’Europa sa che la Grecia non potrà mai restituire l’enorme debito estero (221 miliardi di euro a fronte di un Pil di 180), e ha infatti già dal 2012 dilazionato i tempi della restituzione e diminuito significativamente i tassi che Atene paga. E’ pronta certamente a fare ulteriori concessioni, nei fatti venendo incontro al programma di Syriza, se non di una cancellazione, perlomeno di una ulteriore ristrutturazione del debito. Ma lo farà solo se la Grecia si porrà in condizioni di non chiedere più una lira di aiuto, dunque un avanzo primario nei conti pubblici e un pareggio dei conti con l’estero. E qui non si fida di generiche promesse sul controllo dei conti pubblici ma, ahi loro, vuole vedere il sangue dei tagli. La verità tragica è che Syriza desiderava contrattare una diminuzione del surplus pubblico primario dal 4,5% all’1,5% per fare un po’ di espansione, ma allo stato attuale dei fatti persino l’1,2% appare una chimera che comporterà la continuazione sostanziale dell’austerità.

La lezione per Podemos è drammatica e a tutti noi non rimane che consumare i frutti amari del sacrificio di Syriza, in un certo senso non inutile agli occhi cinici della storia se avrà finalmente svelato che un’”Altra Europa” non c’è. C’è solo “Questa Europa” che ha trascinato un piccolo e povero paese nel debito, e ora lo punisce. Questa constatazione non risolve, naturalmente, il nostro dramma politico, ma ci pone di fronte al compimento il disegno europeo di svuotamento della democrazia sostanziale: per quali obiettivi batterci se la politica non si decide più entro i confini nazionali, mentre nella dimensione europea i movimenti che pure avessero  accesso al governo possono essere facilmente abbattuti uno alla volta? Proprio la storica fragilità economica della Grecia, stretta fra il chinare la testa o un rifiuto temerario di abbassarla, la rende l’esempio più semplice da additare a chi azzardasse una sfida all’Europa. Una Grexit sconquassi li porterebbe portare, ma in quest’Europa reazionaria, a meno di reazioni inaspettate delle opinioni pubbliche, l’esito più probabile è un giro di vite sui conti pubblici di cui incolpare i greci.

La contestualizzazione storica ci porta infine a ricordare come il caso italiano sia diverso da quello greco (e spagnolo). L’Italia è un gigante regionale ammalato. Gigante lo diventò 60 anni fa con un lontano miracolo economico, ma presto si ammalò di un irrisolto conflitto capitale- lavoro generato dall’incapacità della borghesia di guidare un processo riformatore che andasse incontro alle istanze del lavoro, modernizzando il paese. Dismesse le bombe, la borghesia trovò infine nell’Europa il vincolo alle istanze del mondo del lavoro, prima con lo SME e poi con l’euro. Ciò che differenzia il caso italiano da quello greco (e spagnolo) è che un’Italia politicamente più matura potrebbe navigare meglio fuori dall’euro, essendo il suo debito estero assolutamente più basso in termini di Pil e potendo fare affidamento su una reazione positiva delle esportazioni a un cambio più competitivo. Ciò detto, anche il nostro paese è mutatis mutandis nella gabbia europea, stretto fra un declino certo e un’uscita per ostacolare la quale sono stati già predisposti lacci e laccioli (su cui torneremo).

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