L’economia, la terra e la pace

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

Gaza
I morti di Gaza rischiano di essere inutili, a meno che non riprendano sul serio i negoziati che si sono interrotti otto ani fa. Nel confronto fra Israele e Palestinesi il vero problema non è Gaza, non lo è mai stato, il problema è la Cisgiordania, il West Bank. Vediamo da dove si può ripartire, ma per questo è necessario esaminare alcuni dati.

 

I popoli
La demografia gioca un ruolo fondamentale nel contesto israeliano-palestinese. Nella terra fra il Mare e il Giordano vivono più di dieci milioni di persone, ai tempi di Gesù Cristo erano forse sette-ottocentomila. Gli abitanti di Israele sono poco più di sette milioni, di questi 1.400.000 sono arabi che si sono trovati entro confini d’Israele dopo la guerra del 1948. A Gaza vi sono 1.600.000 persone e 2.300.000 sono i palestinesi del West Bank. Il tasso di crescita della popolazione araba è dappertutto più alto di quella israeliana e quindi entro il 2020 ci sarà il sorpasso, nonostante l’arrivo di quasi un milioni di ebrei dalla Russia e dall’Africa dal 1990 in poi.
La fertilità a Gaza è di 7.4 figli per donna, in Israele è di 2.6 per gli ebrei e di 4 per gli arabi. Sergio della Pergola della Hebrew University, il miglior demografo del Medio Oriente, ha illustrato questi dati in un libro edito in italiano dal Mulino[1]. Il problema è semplice: con il crescere della quota di popolazione araba, anche all’interno dei confini del 1949, come potrà Israele restare una democrazia e al tempo stesso uno stato ebraico?
Alla fine della guerra del 1967 iniziò il processo di costruzione delle colonie israeliane nel West Bank, nel 1988 i coloni erano circa 110.000, ma ci fu una accelerazione dopo il 1990 e non solo con i governi del Likud, ma anche con i governi Rabin-Peres durante il periodo degli accordi di Oslo dal 1993 al 1996. Oggi i coloni nel West Bank sono circa 250.000, oltre 400.000 comprendendo Gerusalemme est e le alture del Golan. Nonostante questa crescita, dopo più di quarant’anni essi sono poco più del 10 per cento della popolazione del West Bank, la prospettiva della colonizzazione è fallita. La decisione di Sharon di costruire il muro ed abbandonare Gaza, dove ottomila coloni erano immersi in una popolazione di 1.600.000 palestinesi, è stata influenzata anche da questi dati. Anche ad Hebron 500 coloni vivono in una città di 160.000 palestinesi.

L’economia
Il rapporto fra l’economia palestinese e quella israeliana è quanto di più squilibrato si possa immaginare, questo succede spesso fra economie ricche e povere in cui prevalgono le asimmetrie, che però spesso non portano affatto ai vantaggi comparati di tipo statico, che compaiono nei libri di testo. Ma per questi due paesi si può parlare di relazioni economiche da ‘patologia’, certamente per la Palestina, che nei rapporti ufficiali viene indicata come West Bank and Gaza. In Israele il reddito pro capite è poco meno di quello italiano attorno ai 22.000 dollari all’anno, quello del West Bank e inferiore a 3000 dollari, a Gaza non raggiunge i 1500. La Palestina ha gli aiuti ufficiali allo sviluppo pro capite più alti del mondo, oltre 1000 dollari, e un rapporto fra aiuti e PIL che supera il 25%. In queste condizioni non stupisce che la Palestina abbia una differenza ampia e sistematica fra Prodotto Interno lordo, poco più di 4 miliardi di dollari e Reddito Nazionale Lordo, che supera i 6.5 miliardi.
I dati sul commercio fra i due paesi sono quasi difficili da credere: le importazioni di Israele dalla Palestina sono lo 0.7% del totale, ma la Palestina rappresenta il secondo mercato di esportazione per Israele con il 4.7%! D’altra parte la Palestina importa il 74% del totale da Israele e vi esporta il 90%, con un deficit corrente di quasi 1.500 milioni di dollari circa il 30% del PIL. Tutti i beni intermedi importati in Palestina provengono da Israele, per cui anche gli aiuti alla Palestina finiscono in gran parte ad Israele.
Prima della seconda intifada Israele era il secondo datore di lavoro dopo l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha circa 140.000 dipendenti. Fino al 2000 c’erano circa 120.000 pendolari palestinesi, la grandissima parte giornalieri, che lavoravano in Israele o negli in sedimenti del West Bank, ora sono meno di 30.000, ovviamente questo ha significato una forte riduzione del reddito nazionale in Palestina.
Questi dati sono anche il risultato del protocollo di Parigi del 1994, che rappresenta la parte economica degli accordi di Oslo. Nonostante le enormi differenze fra le due economie di fatto è stata costituita una Unione Doganale fra Israele e Palestina a cui si aggiunge che la moneta usata in Palestina è lo shekel israeliano oppure il dollaro USA, quindi vi è anche una unione monetaria spuria. Solo i depositi sono prevalentemente in dinari giordani. Insomma i palestinesi non hanno uno stato ma ben tre monete.
Fin dalla fine degli anni novanta anche la Banca Mondiale sottolineava l’eccessiva dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana e la difficoltà di sviluppare settori competitivi con salari e prezzi che venivano inevitabilmente influenzati da quelli di un economia con un reddito pro capite quasi dieci volte più grande, e quasi venti nel caso di Gaza. Ma ciò che blocca l’economia palestinese sono soprattutto le difficoltà ed i costi, a volte l’impossibilità, di movimento e di commercio fra le varie città del West Bank, oltre ovviamente che fra il West Bank e Gaza. Il problema dei trasporti e delle comunicazioni è stato sottolineato in molti studi da parte dell’UNCTAD ed anche da un recente rapporto della Banca Mondiale del settembre 2008.
Per garantire un minimo di sostenibilità all’economia palestinese e di prospettive al suo popolo è essenziale capire quale potrebbe essere il territorio dello Stato Palestinese. Per questo è necessario esaminare i negoziati di Camp David.

La terra
I colloqui di Camp David dell’estate 2000 sono falliti su tre questioni: la definizione geografica dello Stato palestinese, Gerusalemme, i rifugiati. Il 28 Settembre di quell’anno Sharon ‘visita’ la spianata delle moschee, luogo sacro per i Musulmani e simbolo palestinese a Gerusalemme. Scoppia la seconda intifada quella detta di Al Aqsa, dal nome della moschea che sta sulla spianata. Una chiara provocazione quella di Sharon: non c’era nessuna ragione di sicurezza per quella visita, se non dare il colpo definitivo al dialogo fra le due parti. Ma da parte palestinese l’intifada covava già sotto la cenere.
Israele e Clinton hanno dato la colpa del fallimento ad Arafat, ma da qualche anno emerge una realtà diversa; ripercorriamo gli eventi dell’autunnno-inverno 2000 anche con l’aiuto di alcuni autori israeliani ed americani.
Il fallimento di Camp David nell’estate del 2000 fu una tragedia annunciata. L’amministrazione americana era ormai in scadenza e aveva sottovaluto le distanze che ancora separavano le due parti e l’esasperazione che covava fra i palestinesi per la mancanza di progressi nel processo di pace dopo gli accordi di Oslo del 1993. Non vi fu sufficiente preparazione diplomatica prima di un gesto così forte ma anche così rischioso come quello di chiamare Barak ed Arafat ad una stretta finale. Barak arrivò ai negoziati con una situazione debolissima nel governo e all’interno del partito laburista.
Anche Arafat era debole, criticato per come amministrava l’Autorità Nazionale Palestinese e indebolito dal radicamento di Hamas sul territorio; era pressato dall’esasperazione del suo popolo e da chi, anche all’interno di Al-Fatah la sua organizzazione, era in favore di una qualche forma di lotta armata di liberazione. Quel negoziato fu un tragico azzardo.
‘Terra in cambio di pace’ è lo slogan dell’organizzazione pacifista israeliana Peace Now, in sostanza la restituzione dei territori occupati da Israele nel 1967 e la costruzione dello Stato Palestinese, ma quale e quanta terra restituire? Come era noto e ora documenta Ilan Pappe storico all’Università di Haifa[2], a Camp David Barak offrì tre pezzi di West Bank non collegati fra di loro: il Nord con Nablus e Jenin, il Centro con Ramallah, il sud con Betlemme e Hebron. E’ il cosiddetto modello dei Bantustan sudafricani. Inoltre Israele di fatto avrebbe mantenuto il controllo della valle del Giordano e di tutti i confini esterni dello Stato Palestinese, che di fatto non avrebbe avuto frontiere da lui controllate con Egitto e Giordania, i due paesi arabi che hanno con Israele accordi di pace. La proposta era ovviamente inaccettabile poiché non si sarebbe trattato di uno stato, ma di tre province separate in Cisgiordania più Gaza. Questo problema insieme con quelli di Gerusalemme e dei rifugiati portano al fallimento di Camp David.
Ma i negoziati non si interruppero e si arrivò piano di Clinton presentato il 23 Dicembre 2000 e noto come i ‘parametri di Clinton’ e poi ai negoziati di Taba del Gennaio 2001. Dai tre pezzi di terra divisi si passò allo Stato Palestinese con continuità territoriale su quasi tutto il West Bank, salvo alcuni insediamenti israeliani maggiori, Maale Adumim a est di Gerusalemme, Ariel a sud di Nablus e Gush Etzion a sud di Betlemme ed il controllo palestinese sulla valle del Giordano. Era previsto anche un corridoio per persone e merci fra Gaza e West Bank, il cosiddetto safe passage, di enorme importanza visto ce la popolazione palestinese e quindi anche il potenziale mercato è divisa: quaranta per cento a Gaza e sessanta nel West Bank.
C’erano punti di possibile accordo sia sui rifugiati che su Gerusalemme, ed è nella proposta Clinton che si trova l’idea della sovranità palestinese sulla superficie della spianata delle moschee e di quella israeliana sul sottosuolo della stessa. Questa storia si trova nel libro di Martin Indyk[3]. Questi è stato ambasciatore USA in Israele ed ha lavorato per l’American Israel Public Affairs Committee, la più grande organizzazione lobbistica di Israele negli USA, parole dell’Economist. Ma soprattutto racconta quegli eventi Shlomo Ben-Ami[4], Ministro degli Esteri con Barak e capo negoziatore nel dopo Camp David fino a Taba.
Il piano Clinton era “il massimo delle concessioni” mai fatto da Israele; erano concessioni fortemente osteggiate anche all’interno dello stesso partito laburista ed era chiaro che Barak avrebbe perso le elezioni, per cui difficilmente il nuovo governo guidato da Sharon le avrebbe convalidate, e quindi l’accettazione di Arafat avrebbe potuto essere inutile. Ma Arafat sbagliò nel rifiutare questa proposta, nessun governo israeliano potrà mai spingersi oltre, almeno per molto tempo, ed in ogni caso, le proposte di Clinton sarebbero rimaste come punto acquisito nei negoziati, e comunque avallate dagli USA e di sicuro dalla comunità internazionale. Come scrive Ben-Ami Arafat non si rese conto che per molti anni il Labour party e le ‘colombe politiche’ israeliane non avrebbero più governato. Arafat pensava che avrebbe potuto ottenere qualche cosa di meglio con una rivolta anche armata, come chiedevano molti anche dentro Al-Fatah, che lo portasse a negoziare da un maggior punto di forza e con una amministrazione americana più amica, per via dei buoni rapporti di Bush padre con i Sauditi, uno dei molti errori di valutazione dei leaders palestinesi ed arabi. Nel febbraio del 2001 Sharon vinse le elezioni ed iniziò un’altra storia.

Il periodo del non-dialogo
Dall’avvento al governo di Sharon non c’è più stato nessun dialogo con i Palestinesi; questo è la vera tragedia dell’attuale politica israeliana. La strategia politica di Sharon è stata subito chiarissima: isolare Arafat sostenendo che non faceva abbastanza contro il terrorismo e che non c’era nessuno con cui dialogare, cosìcché il piano Clinton rimanesse sepolto almeno per un bel po’ e forse difinitivamente. Ovviamente ci sono ‘falchi’ anche in campo palestinese. Già fra il 1996 ed il 1999 Hamas aveva attuato attacchi a civili con le bombe agli autobus e nei centri commerciali, Hamas vuole far fallire il processo di pace di Oslo. Ovviamente il leader del Likud Netanyahu aveva colto la palla al balzo per bloccare la consegna di ulteriore territorio alla ANP, come era previsto dagli accordi di Oslo II del 1995. Fra il 2000 ed il 2002 sia Hamas che le brigate di Al Aqsa che provengono dalle file di Al Fatah procedono alla militarizzazione dell’intifada, con gli sciagurati attacchi suicidi ai civili in Israele. Questo ovviamente favorisce la strategia di Sharon di isolare Arafat. Con costui isolato fisicamente a Ramallah, il moderato Abu Mazen viene fatto primo ministro, di fatto viene imposto ad Arafat dagli USA con il gradimento di Israele, ma nessun negoziato inizia, anzi Abu Mazen viene dichiarato ‘irrilevante’ da Sharon, non rappresentativo dei palestinesi.
Nel 2002 Principe Abdullah dell’Arabia Saudita propone ad Israele un negoziato di pace con riconoscimento da parte di tutti i paesi arabi. Ma la proposta non viene di fatto presa in considerazione da Sharon.
Morto Arafat, Abu Mazen diventa Presidente e ci dovrebbero essere le condizioni per riprendere il negoziato politico, ma non è questa la politica di Sharon. Ne è un tipico e tragico esempio la decisione di uscire da Gaza nel 2005, che viene molto propagandata come segno di buona volontà, ma viene presa unilateralmente da Israele. Tutta la comunità internazionale chiede un ritiro da Gaza concordato con l’Autorità Palestinese, quindi con Abu Mazen, certo non con Hamas. Sharon rifiuta di negoziare con Abu Mazen e a nulla valgono le pressioni di Condolezza Rice e l’attivismo di Wolfenshon ex Presidente della Banca Mondiale e incaricato speciale dell’ONU per il ritiro da Gaza. Due sono le conseguenze di questo unilateralismo di Sharon: primo Al-Fatah non riesce a controllare Gaza dove tutti sanno, e ovviamente lo sa Sharon, che Hamas è molto forte. Tuttavia dal punto di vista di chi non vuole il dialogo ogni fallimento a Gaza, o la guerra civile fra Hamas e Al-Fatah, sarebbero la prova che i palestinesi non sono maturi per avere un loro stato.
Il secondo effetto è che Abu Mazen non può presentarsi al suo popolo con un qualche successo: la sua politica di moderazione ed anni di road map e ‘quartetti’ di mediatori internazionali (USA, UE, Russia ed ONU) non portano alcun miglioramento. Oltre allo schiaffo di Gaza c’è il fatto che in Cisgiordania la politica di nuovi insediamenti israeliani e i check points continuano più e peggio che ai tempi di Arafat, anzi ora si costruisce anche il muro.
I palestinesi sono disillusi ed esasperati nel Gennaio 2006 Abu Mazen e Al-Fatah sono sconfitti da Hamas nelle elezioni politiche ed iniziano mesi terribili di boicottaggio economico a tutta la Palestina e di tentativi di influenzare la politica palestinese anche con il ricatto economico. Tutto questo viene accettato dalla UE che si presta in modo tristissimo alla politica americana.
Il governo Olmert non cambia la politica di ‘non-dialogo’ anche se nel frattempo l’Autorità nazionale palestinese ha un nuovo primo Ministro Salam Fayyad, ex funzionario della Banca Mondiale ancora più moderato e più gradito agli americani di Abu Mazen. Di Fayyad non si è mai parlato in questi tristi giorni di guerra ma è la persona chiave che controlla gli aiuti internazionali all’ANP. Abu Mazen e Fayaad non si amano ma certamente sono i politici palestinesi più graditi all’occidente e più pronti ad un negoziato serio, su questo sono d’accordo tutti i commentatori politici.
Dovrebbe essere interesse di tutti rafforzare i due ed aiutarli ad acquisire credibilità fra palestinesi. Olmert fa un po’ di maquillage con qualche stretta di mano con Abu Mazen e ci sono le varie conferenze di Annapolis che però non portano a nulla, soprattutto non migliorano la qualità della vita per i palestinesi della Cisgiordania, che in sostanza significa semplicemente meno numerosi e meno rigidi check points. In realtà Olmert fa varie promesse in questo senso anche agli USA, ma sul terreno non cambia nulla e ciò contribuisce ad accrescere fra i palestinesi la sfiducia nei negoziati.
Se non con Abu Mazen e con Fayyad con chi negoziare? Insomma a forza di indebolire i leaders palestinesi moderati tutto il West Bank diventerà come Gaza? La vera tragedia della politica israeliana degli ultimi otto anni è stata l’assenza di dialogo, si veda il discorso per la commemorazione di Rabin di David Grossman del Novembre 2006, pochi mesi dopo l’uccisione di suo figlio Uri in Libano, in cui invita Olmert al dialogo con tutti e con la Siria in particolare e lo stesso Grossman nel gennaio 2009 invita Israele a parlare anche con Hamas.

Ripartire da Taba
E’ importante raccontare questa storia perché il piano Clinton rappresenta il punto più prossimo ad un accordo di pace che sia mai stato raggiunto e solo da li si può ripartire per un accordo credibile e duraturo. Tutti gli attori politici di questa tragica vicenda lo sanno perfettamente. E’ un piano pieno di compromessi, ma quando i compromessi servono a disinnescare la violenza e ad aiutare il dialogo diventano buona politica.
Con il piano Clinton lo Stato palestinese avrebbe un territorio molto piccolo, ma comunque indipendente e con le condizioni minime per cercare uno sviluppo economico. Si porrebbe il problema di quali rapporti stabilire con l’economia israeliana: area di libero scambio, ancora unione doganale, completa separazione economica. Su questo punti ci sono parecchi studi ormai da oltre dieci anni e con punti di vista molto differenti, che non è qui possibile riassumere. Su due cose tutti concordano: primo, un territorio indipendente e che colleghi in un unico mercato i quasi quattro milioni di palestinesi del West Bank e di Gaza è una pre-condizione per ogni tipo di sviluppo economico. Secondo, gli accodi economici del protocollo di Parigi hanno fallito come strumento di sviluppo dell’economia palestinese. Ovviamente il futuro Stato Palestinese potrebbe avere un’economia meno dipendente da quella israeliana e più collegata con quella giordana ed egiziana , cioè i paesi confinanti e per altro sede di grosse comunità di rifugiati. Senza questo territorio minimo i palestinesi saranno sempre un popolo che vive grazie agli aiuti internazionali.
Quindi dal piano Clinton possono ripartire Barack Obama ed un altro Clinton, Hilary nuovo Segretario di Stato, che gode della fiducia di Israele.
Per una pace accettabile non ci sono alternative; ogni alternativa sarà solo il prolungarsi di una tragedia e quelli di Gaza saranno gli ennesimi morti invano.

*Gianni Vaggi (ordinario di economia, Università di Pavia) è stato dal 2001 al 2008 vice-Presidente del programma PEACE (Palestinian European Academic Cooperation in Education), dal 2002 al 2005 ha lavorato con un gruppo misto di economisti Israeliani, Palestinesi e Francesi alla Economic Road Map, e dal 2006 coordina un gruppo di ricerca economico italo-palestinese.

[1] Israele e la Palestina la forza dei numeri, Bologna, Il Mulino, 2007.
[2] A History of Modern Palestine, Cambridge University Press, 2004
[3] Innocent abroad, Simon and Schuster 2008.
[4] Scars of war, wounds of peace, Weidenfeld & Nicolson 2005.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.