La guerra dei mercati. Competizione, speculazione e interessi nella crisi dell’eurozona

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La domanda che questo articolo si pone è se la correlazione tra rendimenti sui titoli del debito e stabilità dei conti pubblici di un paese sia sufficientemente robusta da reggere da sola il peso della spiegazione della tempesta che si è abbattuta dalla primavera del 2011 sui titoli pubblici di alcuni paesi europei.

L’ampliarsi del differenziale tra i rendimenti dei titoli pubblici dei paesi europei sotto attacco e quelli del paese considerato più sicuro sintetizza la forma assunta dall’attacco speculativo: per continuare ad acquistare obbligazioni pubbliche degli Stati sottoposti a pressione, i “mercati finanziari” pretendono rendimenti elevatissimi. Se in seguito agli attacchi il paese fallisce e/o esce dall’euro, i rendimenti maggiori compenseranno il minor valore futuro atteso della nuova/vecchia moneta nazionale; se lo Stato non fallisce e resta (nel)l’euro, il guadagno sarà evidentemente ancora maggiore perché contabilizzato in una valuta forte.

Fig. 1 I rendimenti delle obbligazioni governative a 10 anni di sette paesi europei[1]

Per inciso, è possibile avanzare l’ipotesi che una preoccupazione analoga motivi, a parte la sacrosanta ma non del tutto credibile lotta all’evasione fiscale[2], l’accentuata pressione tributaria che l’italiana Agenzia delle entrate ha imposto ad Equitalia: meglio assicurarsi che le entrate siano denominate in euro, ché del doman non v’è certezza.

Tornando ai rendimenti delle obbligazioni pubbliche, un primo elemento da sottolineare è che, sia prima dell’euro, che durante la fase caratterizzata dalla “coesistenza pacifica” con le altre valute forti, il trend dei rendimenti appare caratterizzato da una marcata tendenza alla diminuzione. Dopo lo scoppio della crisi negli Usa il trend comune si spezza, con un gruppo di paesi che diventa il bersaglio privilegiato della speculazione, ma è sui rendimenti dei titoli dei paesi generalmente considerati virtuosi che c’è da segnalare un paradosso che resta tale se non si prendono in considerazione elementi strategici.

Il paradosso è che, se i rendimenti più o meno alti sul debito pubblico dovessero davvero segnalare unicamente o principalmente la solidità dei bilanci degli Stati che li emettono, non si capisce perché – a parte la Germania – i titoli di due paesi fortemente indebitati come Usa e Regno unito non segnalino tale rischio. Se si esamina la condizione dei bilanci pubblici di questi due paesi e la si mette a confronto con la proverbiale austerità teutonica, il puzzle della dominanza del rapporto tra rendimenti sui titoli e disciplina di bilancio appare evidente.

Fig. 2 Debito pubblico netto di Germania, UK e US

Tralasciando le previsioni, le statistiche ufficiali ci dicono che nei cinque anni compresi tra il 2006 e il 2011 il debito pubblico netto tedesco è cresciuto dal 53 al 58%, quello inglese è passato dal 38 al 78%, quello nordamericano dal 48 all’80%. Questo significa che per tutti e tre questi paesi il debito pubblico netto è cresciuto, che nel caso inglese è più che raddoppiato, che quello Usa è il più alto, eppure al 10 di maggio del 2012 il rendimento di un’ obbligazione pubblica tedesca a 10 anni era dell’1,44%, quello sull’analogo titolo nordamericano dell’1,85 e quello inglese 1,9.

Fig. 3 I rendimenti delle obbligazioni governative di US, UK, Germania e Giappone

Se aggiungiamo al confronto il Giappone osserviamo che, differentemente da quanto si sarebbe potuto prevedere accettando la tesi della dominanza della correlazione negativa tra rendimenti e solidità dei bilanci pubblici, i tassi di interesse pagati sul debito pubblico di questi quattro paesi tendono complessivamente a convergere da almeno vent’anni. Ci sono oscillazioni e divergenze cicliche, ma i rendimenti sui titoli giapponesi sono sistematicamente più bassi degli altri, e non c’è nulla che segnali la dimensione del debito pubblico inglese e americano.

Emblematica la storia del Giappone. Alla fine del 1990, quando la bolla finanziaria delle dotcom era già scoppiata da qualche mese, un titolo del debito pubblico giapponese a 10 anni rendeva il 6,7%. Quando l’economia nipponica, anche per effetto delle decisioni prese al Plaza sul valore del dollaro, entrò in recessione, i diversi governi che si sono succeduti alla guida del paese risposero con massicce iniezioni di spesa pubblica che provocarono un notevole deficit di bilancio, ma “ciononostante” i rendimenti sul debito pubblico più alto del mondo (in rapporto al Pil) ma detenuto per lo più all’interno del paese non aumentarono. Anzi, peggiore appariva la condizione dei conti pubblici, più diminuiva il rendimento dei titoli.

Niente di sorprendente se si tiene conto che il Giappone ha deciso da tempo governare il rendimento delle proprie obbligazioni precludendo la possibilità di un attacco speculativo esterno ai conti pubblici.

Grazie al ruolo strategico della Banca federale, i rendimenti dei titoli Usa a 10 anni, che erano del 5,1% poco prima dello scoppio della crisi bancario – immobiliare, sono oggi al 2% nonostante l’ esplosione del debito federale a causa dei salvataggi delle imprese a rischio di fallimento. Molto simile la performance dei titoli inglesi: rendevano il 5,5% a luglio 2007, adesso sono sotto il 2.

Dunque non è sempre verificato che i rendimenti dei titoli pubblici risultino unicamente o principalmente correlati alle condizioni di bilancio dei paesi; alcuni Stati, il cui debito pubblico già considerevole in livelli assoluti è peggiorato e di molto anche relativamente al Pil, vedono riconoscersi dai mercati e dalle loro agenzie di rating un premio inversamente proporzionale al rischio che invece viene segnalato come fortissimo per outsiders della scena internazionale come la Grecia.

Non sono mancati, anche su questa rivista, contributi che hanno messo in evidenza altre possibili determinanti della crisi dei debiti sovrani, dal ruolo delle Banche centrali, ai debiti esteri, alla mancata crescita.

Un’altra possibile spiegazione, non necessariamente alternativa ma complementare rispetto a quelle su accennate, invita a considerare la possibilità che il ritiro dalle obbligazioni denominate in euro sia un comportamento strategico messo in atto da soggetti che hanno inteso in questo modo scaricare sui paesi europei più deboli il peso maggiore dell’aggiustamento seguito alla crisi bancaria – immobiliare il cui epicentro si è verificato negli USA.

Fig. 4 Differenziale di rendimento tra BTP italiani e BUND tedeschi a 10 anni

Il differenziale di rendimento tra BTP italiani e BUND tedeschi a 10 anni si amplia a partire dal mese di aprile del 2011. Il 12 aprile il Fondo monetario internazionale presenta il World Economic Outlook di primavera che non contiene notizie negative per i conti pubblici italiani[3] mentre registra che il deficit pubblico degli US (-10,8%) è il secondo più alto tra le economie maggiormente sviluppate. Pochi giorni dopo, l’agenzia di rating Standard & Poor, pur mantenendo la tripla A, declassa per la prima volta nella storia le previsioni per i titoli del debito US da stabile a negativo. A gennaio il segretario al Tesoro Tim Geithner aveva dichiarato «Un default, guardando a come stanno le cose, è assolutamente possibile e sarebbe un evento catastrofico».

La scena economica internazionale, durante il primo trimestre del 2011, era dunque dominata da questa preoccupazione: il vincolo di bilancio US fissato per legge a 14.294 mld$ stava per essere superato con conseguenze catastrofiche per gli Stati uniti d’America.

Se alcune importanti istituzioni finanziarie decidono in base a questi elementi di modificare i propri portafogli vendendo titoli di un paese impegnato in uno sforzo di risanamento dei propri conti pubblici giudicato sino a quel momento positivamente per comprare obbligazioni di un paese su cui incombe il rischio di fallimento[4], allora è possibile classificare tali scelte come orientate da comportamenti strategici e non ottimizzanti[5].

Una visione irenica del capitalismo produce una narrazione in cui la speculazione non esiste[6], trattandosi del “normale” premio di rischio che gli investitori pretendono per paesi le cui condizioni di bilancio sarebbero messe in crisi da un eccesso di spesa (si sottintende, sociale) che va ridotta, magari iscrivendo – senza troppe discussioni – il vincolo al pareggio di bilancio in Costituzione.

Da una prospettiva diversa si riconosce che tra i diversi Stati e all’interno degli stessi ci sono conflitti e gerarchie, e questo implica che le decisioni prese dai soggetti economici che rivestono un ruolo importante nella gestione del potere avvengono anche sulla base di comportamenti strategici che possono prevedere l’utilizzo della speculazione come forma di pressione per raggiungere obiettivi politici.

Nei “tempi normali” la concorrenza è un elemento determinante ma governato, salvo accentuarsi come necessaria forma di svolgimento della crisi che si esprime anche sulla denominazione monetaria del capitale, assumendo in questa fase l’aspetto di una competizione tra l’area valutaria dollaro e quella euro, con la prima più aggressiva e forte della seconda. Questa stessa competizione si riproduce su scala diversa all’interno dell’area euro con il gruppo dei paesi nord e centro europei più forti che cerca di scaricare il peso dell’aggiustamento sul gruppo dei paesi meno forti.

Se questa spiegazione è plausibile, allora le politiche di austerità agite come una clava sui sistemi di welfare dei Paesi sotto attacco non risultano efficaci, producendo come risultato un inasprimento della crisi e uno scivolamento delle tradizionali forme della rappresentanza democratica verso soluzioni in cui la governance dei sistemi politici viene progressivamente sottratta ai suoi legittimi depositari per essere affidata ad authorities non elette e dunque letteralmente irresponsabili nei confronti delle popolazioni.

Agitando lo spettro del default e nascondendosi dietro lo spread[7], Banca centrale, Consiglio e Commissione europea indicano modalità e tempi di un attacco al salario, diretto, indiretto e differito, nonché ai diritti delle persone che vivono di lavoro. In questo modo la crisi del capitale si svolge in crisi del e contro il lavoro anche se la riduzione del salario, che conta politicamente, non è sufficiente a far ripartire l’accumulazione.

*Università di Teramo

[1] Il grafico è tratto dal rapporto intitolato Due possibilità per risolvere la crisi del debito europeo e curato da John Greenwood, Chief Economist, Invesco Ltd, 22 maggio 2012.
[2] La lotta all’evasione fiscale potrà essere considerata del tutto credibile quando l’UE deciderà di considerare i paradisi fiscali europei alla stregua di “Stati canaglia”.
[3] ”[..] La prima cosa importante da tenere a mente è che i conti pubblici italiani durante questa crisi si sono deteriorati molto meno di altri paesi, particolarmente il deficit e l’avanzo primario. Il rapporto debito/Pil è stato tradizionalmente alto per l’Italia, ma l’aumento del deficit non è stato così forte come in altri paesi. Gli obiettivi fiscali del governo, io credo, sono più o meno appropriati. Abbiamo anche visto nel 2010 che il deficit è stato più basso di quanto inizialmente previsto e questo aiuterà l’ottenimento di ulteriori miglioramenti nei conti pubblici il prossimo anno.” Trascrizione della conferenza stampa di presentazione del Fiscal Monitor del Fondo monetario internazionale, Washington, D.C. , 12 Aprile 2011.
[4] Da Wikipedia: Il debito pubblico USA, al 28 febbraio 2011 ha raggiunto la cifra di 14.194,76 miliardi di dollari, massimo storico assoluto.[5] Il 12 luglio 2011 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato in un’intervista a Cbs News che non può garantire che i pensionati riceveranno gli assegni della pensione dopo il 3 agosto se democratici e repubblicani non trovano un accordo per alzare il tetto del debito nelle prossime settimane. Da segnalare inoltre che nei giorni precedenti alla scadenza del 2 agosto, il governatore dello Stato del Minnesota, Mark Dayton, ha ufficialmente dichiarato il Default dello Stato federato[8].
[5] E’ questo che intendo per speculazione.
[6] Si può prendere ad esempio l’articolo di Roberto Perotti e Luigi Zingales, Crisi finanziaria. La speculazione non c’entra, il sole 24 ore, 9 luglio 2011.
[7] L’utilizzo ripetuto di termini anglosassoni non rappresenta in alcun modo una concessione all’anglismo dilagante nella letteratura pubblicistica contemporanea; al contrario, serve a sottolineare come il linguaggio sia uno strumento adoperato consapevolmente per nascondere, dietro termini di importazione e dunque presuntivamente chic e neutrali, la sostanza di slittamenti contenutistici che hanno bisogno di involucri formali adatti alla rappresentazione che pretendono di evocare.

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