La pericolosa restaurazione europea

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Political and social notes

Il concomitante verificarsi in Europa – a seguito della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 – di situazioni di persistente ed elevata disoccupazione, da un lato, e di crescita del disavanzo e del debito pubblico, dall’altro, aveva fatto riemergere, anche all’interno del paradigma teorico consolidato, dubbi sul fronte della politica economica. Sul versante fiscale, riguardo la necessità incondizionata di contenere la spesa e di risanare il debito pubblico; sul fronte della politica monetaria, circa il mero perseguimento del solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Nonostante però le condizioni economiche di molti paesi non siano, da allora, mutate e la crisi non possa dirsi passata, si assiste oggi ad un nuova chiusura sul fronte della politica fiscale e ad un atteggiamento apparentemente più accomodante sul fronte di quella monetaria, senza, tuttavia, che la minaccia di nuovi rialzi dei tassi di interesse sia fugata.

Quando nacque l’Unione Monetaria, con il Trattato di Maastricht furono fissati i vincoli ai ratios rispetto al reddito di disavanzo e di debito pubblico. Allora il fiscal retrenchment fu generale per tutti i paesi che poi divennero membri, nella fiducia che potessero operare i cosiddetti “effetti keynesiani di politiche fiscali non keynesiane”, ovvero i presunti effetti espansivi di politiche fiscali restrittive (Giavazzi e Pagano 1990). Paradossalmente, dopo il varo dell’UME furono proprio i paesi leader a stabilire atteggiamenti del tutto incoerenti con gli ammonimenti contenuti nel Patto di Stabilità e Crescita, che sembravano essere rivolti solo agli altri paesi dell’Unione: se Francia e Germania, infatti, pretendevano che, ad esempio, Spagna, Portogallo e Italia rientrassero celermente nei valori prefissati del rapporto del disavanzo pubblico con il PIL, nelle circostanze in cui lo sforamento riguardava l’economia tedesca o quella francese si manifestava un’assoluta indisponibilità al risanamento.

Il Patto di Stabilità conobbe poi una seconda versione sottoscritta nel 2006 poco prima dello scatenarsi della crisi finanziaria internazionale. Questa versione più morbida della politica fiscale europea prendeva atto delle resistenze nazionali, specie dei grandi paesi, a subire limiti alla gestione interna del ciclo economico. Il minor rigore istituzionale era il portato, realistico, dell’assenza di vincoli sovranazionali e delle pretese di “extraterritorialità” di Francia e Germania. In quel periodo la BCE, sempre ferma nel condannare il supposto potenziale di instabilità connesso alla crescita dei disavanzi e del debito pubblico, non aveva trovato, ancora, nei grandi paesi europei degli alleati disponibili a riscrivere, e non solo a minacciare, nuove più severe regole del gioco.

Lo scatenarsi della crisi finanziaria degli ultimi tre anni sembrava aver messo in atto tendenze che ridefinivano il quadro della politica monetaria e della politica fiscale, e a livello non solo europeo. Oliver J. Blanchard, guru scientifico del Fondo Monetario Internazionale, teorizzava con prontezza i possibili effetti positivi, e non solo di breve periodo, di politiche fiscali espansive; tutta l’accademia ortodossa esprimeva pareri meno tranchant rispetto al passato a riguardo (Blanchard, Dell’Ariccia e Mauro 2010). L’Unione Monetaria Europea, ma non solo essa, adottava programmi propri di sostegno al reddito comunitario e consentiva, di fatto, deroghe al Patto di Stabilità, a seguito dei massicci interventi nazionali di bail-out del sistema finanziario e della inevitabilità di misure di tamponamento della recessione. Parafrasando l’Economist si passava da Hoover, il presidente americano che non fu in grado di gestire la Grande Depressione, a Keynes.

Ma la normalizzazione speculare, da Keynes a Hoover, è stata altrettanto improvvisa e ora si passa, dopo la grande paura della recessione, ad un nuovo mix di politica economica, caratterizzato da nuova, paradossale, maggiore austerità (International Monetary Fund, 2010). E’ come se la ricreazione fosse finita. E questa volta la restaurazione non è praticata solo dalla Banca Centrale Europea, ma anche dalla Germania.

Forte di una ripresa che sta riguardando sia le componenti interne della domanda aggregata sia la competitività delle esportazioni, la Germania, vincendo le iniziali ritrosie della Francia, propugna un Patto di Stabilità assai più severo, sia nella fase di monitoraggio europeo dei bilanci nazionali, sia nelle sanzioni per i paesi che non dovessero osservare le regole comunitarie. A seguito delle pressioni teutoniche sulle istituzioni comunitarie, una task force sulla governance presieduta da Van Rompuy, ha prodotto un rapporto, recepito dal Consiglio d’Europa del 28 e del 29 ottobre che prevede addirittura un inasprimento delle sanzioni ai paesi che non rispettano il Patto di Stabilità (e Crescita), di fatto traghettando in una nuova fase la politica fiscale in Europa che minaccia così di diventare ancora più restrittiva di quanto non lo fosse stata prima della crisi. La motivazione addotta per tale inasprimento è il rischio default dei paesi con un debito elevato e il fatto che gli attacchi speculativi e la pressione esercitata dai mercati sui titoli dei paesi cosiddetti PIGS – assicurate dalle agenzie private di rating Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s – rischiano di mettere in discussione la stabilità dell’intera area Euro.

Ricacciate dalla porta del conflitto di interessi dopo la crisi dei sub-prime statunitensi (Benmelech e Dlugosz, 2009), accusate di formulare giudizi che seguivano l’euforia del mercato invece di renderlo meno propenso alla speculazione (Covitz e Harrison, 2003), le agenzie di rating trovano nuova linfa, finanziaria e di prestigio, dalle valutazioni della Banca Centrale e della Commissione Europea, a proposito del ruolo che hanno i mercati finanziari nel determinare le condizioni di rischio e di default dei sovereign bonds degli stati nazionali europei. Dovranno essere le agenzie di rating, a svolgere, nei fatti, il ruolo del braccio armato dei custodi dell’ortodossia finanziaria e del nuovo Patto di Stabilità (Manganelli e Wolswijk, 2007; van Riet, 2010). Come se le agenzie di rating avessero qualche informazione aggiuntiva, rispetto ai sottoscrittori, delle condizioni dell’emittente pubblico o della sua willingness a onorare la copertura per lo stock di titoli in circolazione.

In tutta questa discussione non si fa mai menzione esplicita alla relazione che esiste fra andamento dei conti pubblici e crescita.

Il pericolo recessivo non rappresenta però l’unico limite dei nuovi accordi. Infatti, il rapporto van Raumpuy suggerisce una serie di misure che di fatto creano un conflitto fra le istituzioni europee e i governi nazionali: alle sanzioni automatiche si sostituisce – ad esempio – la sospensione del diritto di voto violando di fatto il principio di “no taxation without representation” (de Grauwe 2010).

Le perplessità, oggi, su queste novità non riguardano solo i critici del fiscal retrenchment ma anche analisti meno “schierati”. All’estremo opposto la Banca Centrale Europea considera le sanzioni proposte ai paesi “lassisti” contenute nel Rapporto Van Rompuy ancora troppo “benevole” poiché avrebbero un carattere discrezionale e non automatico, come Jean-Claud Trichet, suo presidente, desidererebbe: solo una totale garanzia di severità sulla conduzione delle politiche fiscali nazionali consentirebbe, nell’ossessiva attenzione alla stabilità dei prezzi, di mantenere l’attuale maggiore duttilità nel rifinanziamento del fabbisogno di liquidità nell’area dell’euro.

Queste le nubi recessive che si addensano sull’Europa (Chowdhury, 2010). E non sembra promettere bene neanche l’annuncio entro dicembre di un meccanismo di salvataggio tutto europeo per i paesi in condizione di estrema instabilità finanziaria perché di certo non ispirato a quei principi che guidarono la creazione del FMI nel periodo successivo agli accordi di Bretton Woods. Perciò, è notizia di questi giorni, non è improbabile che la BCE presto rialzi i tassi di interesse nel tentativo di convincere la “politica” ad adottare ferrei vincoli fiscali e a contenere le eventuali spinte inflazionistiche provenienti anche dai piani di salvataggio dell’ultimo minuto, tornando a ergersi a garante “neutrale” dell’intera area Euro.

Sembra evidente perciò che l’Europa si stia muovendo verso posizioni ignote – e di certo conflittuali – dal punto di vista della praticabilità istituzionale e assai pericolose dal punto di vista della proposta complessiva di politica economica. Come il Financial Times argutamente rileva, l’Europa ricerca il raggiungimento di una trinità di obiettivi impossibile: “no bail-out-no exit-no default”.

Bibliografia
Alesina A. Stella A.(2010), The Politics Of Monetary Policy, NBER working paper 15856, april.
Benmelech E. e Dlugosz J., 2009, The Credit Rating Crisis, National Bureau of Economic Research Working Paper Series, n°15045.
Blanchard O., Dell’Ariccia G. Mauro P.(2010) ” Re-thinking Macroeconomic Policy” IMF Working Paper, February
Canale, R.R., P. Foresti, U. Marani and O. Napolitano (2008) “On the Keynesian effect of (apparent) non-Keynesian fiscal policies”, Rivista di Politica Economica, 1: 5-46.
Chowdhury A., 2010, The Fallacy of Austerity-Based Fiscal Consolidation, A commentary in the VoxEu Debate on the Global Crisis, Luglio.
Covitz D.M. e Harrison P., 2003, Testing Conflicts of Interest at Bond Ratings Agencies with Market Anticipation: Evidence that Reputation Incentives Dominates, Federal Reserve Board Papers.
Giavazzi F. and Pagano M. (1990) “Can severe fiscal contractions be expansionary? Tales of two small European countries”, NBER working paper series No. 3372.
International Monetary Fund, 2010, Fiscal Exit: from Strategy to Implementation, Fiscal Monitor, November.
Manganelli S. e Wolswijk G., 2007, Market Discipline, Financial Integration and Fiscal Rules. What Drives Spreads in the Euro Area Government Bond Market?, European Central Bank Working Paper Series, n°745.
Van Riet A. (ed), 2010, Euro Area Fiscal Policies and the Crisis, European Central Bank Occasional Paper Series, n°109.

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