No a una nuova dismissione nel Mezzogiorno

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Political and social notes

Tornano a fare notizia a livello nazionale le vicende in corso all’Ilva di Taranto, sia per la ritrovata combattività rivendicativa di larga pare dei suoi dipendenti, e sia per il sempre più acceso dibattito avviato da tempo nel capoluogo ionico sull’impatto ambientale del grande sito produttivo e persino sulla prosecuzione del suo esercizio, che una frangia di ambientalisti locali vorrebbe far dismettere nella sua interezza, o almeno nell’area a caldo, mediante un referendum cittadino (peraltro consultivo) per la cui indizione da parte dell’Amministrazione comunale si stanno raccogliendo le firme necessarie.

Il 14 maggio si è svolto uno sciopero indetto dalle segreterie di Fiom Fim e Uilm per il rinnovo del contratto integrativo scaduto nel 2008. Sarebbe stata una giornata di lotta come tante altre del passato – e come tale non particolarmente memorabile – se non fosse accaduto che questa volta, dopo molti anni, la partecipazione dei lavoratori è stata particolarmente alta grazie alla discesa in campo anche di molti giovani operai assunti nell’ultimo decennio, ma poco sindacalizzati e ancor meno politicizzati, che in precedenza si erano mostrati restii a mobilitarsi. Si consideri, al riguardo, che dopo l’ingresso in fabbrica avvenuto il 1° maggio 1995 del nuovo management del Gruppo Riva all’indomani della privatizzazione – a partire dal luglio del 1997, insieme al pensionamento di molti dipendenti per raggiunti limiti di età, in applicazione delle normative sull’amianto sono stati accompagnati alla pensione altri 7.800 operai e tecnici al cui posto sono entrate – in questo che è il più grande stabilimento siderurgico a ciclo integrale d’Europa per pmp (produzione massima possibile) e la maggior fabbrica manifatturiera italiana per numero di addetti diretti – molte migliaia di giovani[1] che hanno consentito di abbassare l’età media di coloro che lavorano nell’impianto, portandola a 33 anni.

Inoltre, nel mentre proseguiva in città il confronto vivace e a tratti molto teso fra i movimenti ambientalisti, le Istituzioni locali, la Regione, l’Arpa, i Sindacati, la Confindustria e gli organi di informazione sulle problematiche prima richiamate riguardanti l’impatto sull’ecosistema del Siderurgico e delle altre grandi industrie insediate in città, (raffineria dell’Eni, cementificio della Cementir, centrali elettriche), nelle settimane precedenti lo sciopero del 14 maggio 650 operai ‘precari’ dell’Ilva – 150 interinali in scadenza e 500 con contratto a tempo determinato, al momento disoccupati – avevano manifestato presso i cancelli della fabbrica, chiedendo di esservi assunti a tempo indeterminato. Già da mesi peraltro questi lavoratori stanno premendo in tal senso, chiedendo anche l’aiuto di Comune e Provincia che hanno loro assicurato il proprio interessamento. Le Organizzazioni Sindacali a loro volta hanno avviato una trattativa con la Direzione aziendale che, da quanto si è letto sulla stampa, sarebbe disponibile – il condizionale è d’obbligo – ad assumere però solo coloro che abbiano svolto almeno 24 mesi di attività nello stabilimento.

Questi due eventi, comunque – lo sciopero per il rinnovo del contratto integrativo e le manifestazioni dei precari finalizzate all’assunzione – a prescindere dal loro esito affidato al confronto anche duro fra le controparti, delineano una dialettica che, pur essendo tornata conflittuale dopo lungo tempo, rientra tuttavia nella fisiologia delle relazioni industriali nella più grande fabbrica in esercizio nel Mezzogiorno e nel Paese, anche se al momento essa non può dispiegare al massimo le sue potenzialità produttive, a causa di una domanda di coils, lamiere e tubi in acciaio che, non solo non è tornata ai livelli massimi del 2007 e della prima metà del 2008, ma sta nuovamente rallentando dopo gli incoraggianti segnali di rilancio registrati nel primo trimestre dell’anno in corso.

Ma, come si diceva in precedenza, in queste settimane a Taranto un’associazione ambientalista sta raccogliendo le firme necessarie per lo svolgimento di un referendum (consultivo) sulla chiusura dell’impianto, o almeno della sua area a caldo; si vorrebbe cioè da parte dei promotori della consultazione far cessare la produzione, o ridurla significativamente, proprio in quello stesso sito industriale in cui, invece, i suoi dipendenti scioperano per salari più elevati ed altri lavoratori vorrebbero esservi assunti a tempo indeterminato. Insomma, non potrebbe esservi contraddizione più stridente fra la legittima domanda di un salario maggiore e il diritto all’occupazione di chi già è in azienda – o vuole ritornarvi a produrre – e chi, invece, chiede che quella stessa fabbrica venga chiusa, o almeno ridimensionata con la dismissione della sua area a caldo, che comporterebbe anch’essa una pesante contrazione produttiva e occupazionale.

Confindustria e Sindacati – ma anche la stessa Regione Puglia, con il rieletto Presidente Nichi Vendola e l’Arpa, l’Agenzia regionale per l’ambiente – si sono dichiarati contrari al referendum, sottolineando come le questioni dell’impatto ambientale della grande acciaieria stiano trovando ormai da tempo efficaci soluzioni grazie ai massicci investimenti sinora realizzati dal Gruppo Riva che – per il solo miglioramento dell’ecosostenibilità – sono ammontati fra il 1995 e il 2008 a 907,5 milioni di euro, cui si aggiungeranno quelli già programmati per i prossimi anni e che, non lo si dimentichi, sono sempre stati totalmente autofinanziati. Nel periodo 1995-2009 poi gli investimenti globali del Gruppo nel sito di Taranto – per manutenzioni ordinarie e straordinarie, revamping di singoli impianti, ammodernamento di tecnologie di processo ed inclusivi di quelli per la riduzione dell’impatto sull’ecosistema e la sicurezza sul lavoro – sono ammontati ad oltre 4 miliardi di euro[2].

Ma ci sono anche altri dati riguardanti l’Ilva su cui bisogna riflettere attentamente: Taranto e la sua provincia, qualora si dismettesse il suo sito siderurgico, possono privarsi di 11.876 posti di lavoro diretti[3], cui si aggiungono 2.703 unità fra gli indiretti? E il solo capoluogo può privarsi di 4.021 dipendenti dell’Ilva, cui si uniscono 676 indiretti residenti in città? E quali concrete alternative offre oggi il mercato del lavoro cittadino e dell’hinterland a chi perdesse il lavoro in questa fabbrica?

E la provincia può rinunciare a 219 milioni di stipendi netti[4], quanto corrisposto cioè dall’Ilva nel 2008 ed equivalenti ad un reddito medio annuo pro-capite di un dipendente di 21.222 euro, calcolato come valore medio per inquadramento ed anzianità aziendale? E il territorio può rinunciare ad un impianto che dal 1995 al gennaio 2010 ha corrisposto ben 2 miliardi e 437 milioni di euro di subforniture a favore di 929 aziende iscritte alla locale Camera di Commercio[5]?

Ed ancora, si può dismettere un opificio che alimenta il 76%, ovvero i ¾ della movimentazione del porto, che assicura gettito anche agli Enti locali per il pagamento delle imposte ad essi dovute, e le cui vendite all’estero rappresentano ormai da anni la prima voce dell’export pugliese[6], nonché il cardine di una sezione strategica dell’industria meccanica italiana?
Non sarebbe allora più giusto – raccogliendo le legittime sollecitazioni della popolazione e dei settori più accorti dell’ambientalismo locale per un ulteriore contenimento dell’impatto sull’ecosistema di questa grande fabbrica – proseguire sulla strada degli interventi impiantistici concordati con l’azienda nelle sedi competenti (Ministero dell’Ambiente, Regione) alla luce delle normative vigenti e delle prescrizioni ad esse connesse, volte a migliorarne l’ecosostenibilità, evitando veri e propri salti nel buio ai suoi dipendenti, alla città, al territorio che vi gravita intorno e all’intera economia pugliese?

Tuttavia, ove malauguratamente un determinato pronunciamento referendario – peraltro non facilmente traducibile poi in un atto esecutivo di chiusura dell’intero impianto o della sua area a caldo – concorresse comunque a determinarlo, il capoluogo ionico vivrebbe una situazione già conosciuta a Napoli con la dismissione dell’impianto siderurgico di Bagnoli, avvenuta a partire dall’ottobre del 1991, per decisione governativa ‘imposta’ dalle Autorità comunitarie, nell’ambito dei piani di ristrutturazione e privatizzazione della siderurgia pubblica italiana. Le conseguenze? Smantellamento di una grande fabbrica in cui alcuni anni prima si erano investiti circa 800 miliardi di vecchie lire per ammodernarne parte dell’acciaieria, distruzione sociale, culturale e identitaria di un forte nucleo ‘storico’ di operai, tecnici e dirigenti avviati al prepensionamento, lunghissimo processo di bonifica dell’area e suo rilancio produttivo con altre destinazioni, peraltro ancora oggi in fase del tutto iniziale, cancellazione di una grande memoria di storie e di lotte collettive che sono state tanta parte del movimento operaio partenopeo e dell’intero quartiere-città che gravitava su una fabbrica promossa, com’è noto, dalla Legge speciale per Napoli del 1904 e avviata in produzione nel 1908.

Anche altri centri urbani e territori del Mezzogiorno hanno conosciuto nell’ultimo ventennio smantellamenti di antichi comparti industriali che per decenni costituirono non solo punti di forza produttivi delle rispettive aree, ma luoghi di formazione e accumulazione di saperi ed esperienze di fabbrica e di forti nuclei di moderno proletariato manifatturiero, dal Crotonese – con il tracollo del suo polo chimico e di altre aziende che contribuivano a farne uno dei siti industriali più forti del Sud – all’area di Manfredonia, ove con la chiusura dell’Enichem e delle sue produzioni di caprolattame e di fertilizzanti e il crollo di tutte le attività indotte – dismissione in questo caso determinata da errori dell’Eni ed anche da forme di estremismo ambientalista – si è perduto un intero patrimonio di tecnologie, grandi infrastrutture ed esperienze professionali di operai e tecnici di livello medio-alto. Processi di deindustrializzazione, quelli appena ricordati, cui poi si è cercato di sostituire l’avvio di nuovi insediamenti favoriti da costosi strumenti della programmazione negoziata come i ‘contratti d’area’, con cui lo Stato ha tentato in qualche modo di risarcire i territori e le popolazioni delle città che erano state colpite dalle pesanti crisi industriali, in qualche caso ‘pilotate’; ma quei processi di rigenerazione economica non solo ancora oggi, a molti anni di distanza dal loro avvio, non hanno prodotto i risultati attesi in termini di occupazione e rilancio delle economie locali, ma già subiscono gli effetti negativi della globalizzazione.

Allora, anche per questa ragione, Taranto e il suo grande impianto siderurgico – con la giovane classe operaia che vi si sta formando, accanto ai tecnici e al management del Gruppo Riva – deve continuare ad essere un saldo presidio industriale della Puglia, del Mezzogiorno e dell’Italia, naturalmente in un quadro di crescente ecosostenibilità del suo esercizio.

*Docente di Storia dell’Industria nell’Università di Bari e di Politiche economiche territoriali nell’Ateneo di Lecce.

[1] Cfr. ILVA, Rapporto ambiente e sicurezza 2009, stabilimento di Taranto, p.16.
[2] Ivi, p.4.
[3] Fonte: Direzione del personale ILVA, aprile 2010.
[4] Fonte: Direzione del personale ILVA, aprile 2010.
[5] Fonte: Direzione acquisti ILVA, aprile 2010.
[6] Cfr. Banca d’Italia, L’economia della Puglia, varie annate.

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