Aiutiamoli a casa loro…i nostri cervelli in fuga

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Let us help them in their own homes – for the so-called “migrants emergency” – and Brains on the run for the youths mobility, they are misleading Italian rhetoric to talk about international mobility. Their deconstruction can help us to ask questions about the new dynamics of the public sphere.

 Aiutiamoli a casa loro è la retorica “umanitaria” opposta usualmente alla cosiddetta emergenza migranti.  Uno slogan che copre impudicamente la volontà di rimozione collettiva di fenomeni – quelli delle migrazioni economiche e della fuga dalle guerre e dalle calamità – che hanno radici nella politica e nell’economia che hanno permesso e permettono a noi di costruire le nostre piccole roccaforti di benessere e di tentare di continuare a viverci, sebbene con un costante aumento delle diseguaglianze interne.

Ma che è doppiamente falso. Se, da un lato, ipotizza un po’ di carità pelosa per le vittime, senza purtuttavia nemmeno valutare ad aggredire le cause delle loro fughe di massa, dall’altro risponde a un’emergenza fasulla. É dal 2010 che la nostra dinamica demografica ha iniziato a farsi preoccupante perché il saldo migratorio positivo non compensa quello naturale negativo.[1] Le presenze straniere in Italia, che al 1° gennaio 2017 ammontavano a 5.029.000,[2] a stento vanno a compensare la diminuzione dei residenti.[3] Abbiamo, inoltre, un problema di degiovanimento della popolazione (Rapporti ISTAT 2016 e 2017). I residenti di età compresa tra i 18 e i 34 anni sono diminuiti di circa 1,1 milioni e, come la piramide demografica ISTAT 2016 mostra chiaramente, sono costituiti anche da “stranieri” in età giovane produttiva (che dunque contribuiscono a pagare le pensione di anziani che, nella piramide, appaiono pressoché tutti italiani dopo i 65).

Se, dunque, vogliamo proprio parlare di un’emergenza legata a flussi di mobilità dovremmo forse rivolgerci al tema degli espatri. Nel 2016, 157.000 persone (42.000 stranieri e 115.000 italiani), perlopiù giovani, in età fertile e produttiva, sono andate via dall’Italia.[4] Gli italiani che, al 1° gennaio 2016, vivevano all’estero erano 4.811.163, e stanno aumentando ogni anno, ogni anno di più.[5]

 

Perché emergenza?

In primo luogo perché una delle caratteristiche che differenzia questa nuova mobilità dalla “vecchia” emigrazione è che non espatriano più masse di uomini semianalfabeti. Nel 2015, quando le opportunità formative sono enormemente aumentate e la disparità di genere si è praticamente azzerata nella mobilità così come nella formazione, mentre in Italia si laureavano circa 300.000 studenti,[6] sono andati via 23.000 laureati:[7] donne e uomini che hanno portato altrove gli investimenti fatti dalle famiglie e dallo Stato per la loro educazione e formazione.

Il rapporto Education at a Glance 2014, stima che, solo per la gestione dei luoghi d’insegnamento e gli stipendi degli insegnanti, chi si istruisce in Italia costi 6.000 dollari l’anno quando frequenta una scuola materna pubblica, 8.000 l’anno alle elementari, 9.000 alle medie e alle superiori e 10.000 all’università. Per i contribuenti il costo (di base) di produzione di un laureato in Italia sarebbe quindi di circa 180.000 dollari, oltre 150.000 euro. Confindustria (2017) sarebbe quindi ottimista quando, considerando la spesa media per studente dalla scuola primaria all’università, stima che insieme ai 51mila emigrati under 40 del 2015  siano espatriati “soltanto” 5,6 miliardi. Ancora secondo Confindustria, e sempre per il solo 2015, ci sarebbero da aggiungere altri 8,4 miliardi circa, calcolati valutando intorno ai 165mila euro la spesa familiare per la crescita e l’educazione di un figlio, dalla nascita fino ai 25 anni. In breve, secondo Confindustria, nel 2015 sarebbe uscito dall’Italia un “capitale umano” valutabile, per il suo solo costo economico, intorno ai 14 miliardi di euro.

Ma c’è un’altra differenza fra la vecchia emigrazione e le nuove mobilità da tenere in conto. In passato, i migranti italiani inviavano una consistente parte del loro guadagno alle famiglie, in Italia. Queste rimesse – secondo alcuni autori, ad esempio Grubel e Scott (1966) – limitavano e più che compensavano le esternalità negative prodotte dall’emigrazione.

Nella questione delle nuove mobilità giovanili italiane dobbiamo invece valutare, con la cosiddetta fuga dei cervelli, anche un’altra “fuga”. Vale a dire il costante deflusso di denaro che lascia l’Italia per seguire i nostri connazionali all’estero. Nella ricerca che ho fatto sui nostri giovani connazionali a Berlino (Stazio 2017), ho costatato come studenti e giovani adulti disoccupati, sottoccupati o con un mini-job, percepiscano molto frequentemente “integrazioni” dalla famiglia. I singoli importi sono bassi. Ma i giovani adulti a Berlino sono oltre 11.000. È difficile quantificare con precisione questo fenomeno, anche perché è difficile immaginare fonti statistiche adeguate. Io ho tentato un’approssimazione basandomi sul 48° Rapporto Censis (2014), secondo il quale in Italia circa il 22% (948.000) dei 4,4 milioni di giovani che vivono da soli non riesce a coprire le spese mensili con i guadagni. Nel 2014, i genitori avrebbero speso, per la loro prole di età compresa tra 18-34, circa 4,8 miliardi di euro; ogni famiglia avrebbe sopportato un costo annuale valutato in oltre € 5.000, vale a dire più di 420€ al mese per ogni figlio.

Secondo i dati forniti da Confindustria (2017) dal 2008 al 2015, hanno spostato la residenza all’estero 509mila italiani: di questi, circa 260mila avevano tra i 15 e i 39 anni. Se – rispettando la ‘ratio italiana’ del rapporto Censis – il 22% di essi ricevesse mensilmente 420€ dall’Italia, in un solo anno partirebbero per l’estero, provenienti dalle premurose famiglie italiane, oltre 250 milioni di euro. Inoltre, le strategie d’investimento delle famiglie s’intrecciano spesso con le mobilità dei figli. Molti genitori investono risparmi e liquidazioni per accompagnare i ragazzi nelle loro nuove vite, nelle università, o nell’esperienza di lavoro. In più i flussi di denaro che ho costatato spostarsi dall’Italia non provengono solo dalle famiglie che sostengono la prole. Durante il lavoro sul campo, ho appreso che un certo numero d’italiani disinveste sui diversi mercati italiani (immobiliare, commercio, piccole e medie imprese, etc.) e investe a Berlino, per avviare nuove attività imprenditoriali, o per sopravvivere il tempo necessario a trovare un lavoro dipendente. Infine, le persone che ho intervistato mi hanno confermato di aver portato con sé tutti i risparmi (anche fra i giovanissimi, i più previdenti avevano un gruzzolo accumulato grazie a borse di studio, lavoretti estivi ed elargizioni dei parenti per festività e ricorrenze), per sopravvivere un certo numero di mesi, o il primo anno. Specialmente tra i più adulti, c’è chi mi ha parlato di piccoli capitali fra i 10.000 e i 20.000 euro.

La categoria giornalistica dei cervelli in fuga, con la quale abitualmente si designa il fenomeno, dovrebbe riguardare soltanto individui altamente qualificati. In realtà quelli che partono sono solo per un 30% laureati triennali e magistrali.[8] Più o meno altrettanti sono i diplomati.[9] Fra le cause di queste partenze c’è il fatto che, rispetto alle generazioni precedenti, si è ridotta la differenza di opportunità lavorative tra chi dispone o meno del titolo di studio. Secondo l’OCSE, Education at a Glance 2017:

 

L’Italia è uno dei due Paesi in cui le prospettive di occupazione per i giovani adulti con un’istruzione secondaria superiore a indirizzo generale non sono superiori rispetto alle prospettive di chi ha un livello d’istruzione inferiore al ciclo secondario superiore (51%) (…)

L’Italia è uno dei pochi Paesi in cui le prospettive di lavoro per i 25-34enni con un livello di studi terziario sono inferiori rispetto ai diplomati dei percorsi di studio professionali della scuola secondaria superiore. (…)

I Paesi dell’OCSE e i Paesi partner tendono a registrare una relazione inversa tra la quota della popolazione che ha raggiunto un livello d’istruzione terziario e il vantaggio retributivo per gli adulti laureati. Tuttavia, in Italia questa relazione ha un comportamento anomalo, registrando sia un tasso di conseguimento di titoli di studio a livello terziario relativamente basso, sia retribuzioni relativamente basse per le persone che hanno un livello d’istruzione terziario.

 

Fatto, questo, confermato dai dati Alma Laurea,[10] che ci attestano che nel 2015 il tasso di disoccupazione dei laureati triennali a un anno dalla laurea era del 20,8% e la loro retribuzione media di 1.104 euro al mese; mentre il tasso di disoccupazione dei laureati magistrali a un anno dalla laurea era del 19,8% e la loro retribuzione media di 1.153 euro al mese. Il fenomeno dei laureati (triennali e magistrali) che trovano all’estero un’occupazione adeguata ai loro titoli di studio è, nella maggior parte dei Paesi OCSE, collocato nel campo della circolazione dei cervelli. La migrazione istruita, quella con maggiore possibilità di scelta, non si dirige però verso l’Italia (Milio, Lattanzi et alii, 2012). Le scarse opportunità professionali, unite alla carenza di politiche che pongano l’accento sull’istruzione degli stranieri in entrata, producono un adverse selection effect per i laureati stranieri. In breve, ogni Paese attrae i flussi che la sua economia richiede. Italiani, europei ed extraeuropei fanno tutti i conti con le caratteristiche del tessuto produttivo italiano, poco predisposto a impiegare lavoratori qualificati e di elevato livello d’istruzione. Così questi ultimi – tutti: italiani, europei ed extraeuropei – vanno, o cercano di andare, altrove.

È notevole, inoltre, come spesso i nostri diplomati e laureati vadano all’estero a fare lavori meno qualificati di quelli cui – teoricamente – il loro titolo di studio darebbe loro accesso. Più che di fuga di cervelli, ci sarebbe da parlare quindi di brain waste, che è un modo di definire la sottoutilizzazione di lavoratori qualificati e formati, impiegati in lavori che non richiedono il livello di competenza e esperienza acquisito durante la formazione e/o durante precedenti lavori. Perché se ne vanno, allora, quelli che – esattamente come in patria – vanno incontro a una probabile sottooccupazione?

La risposta sta – tra le altre cose – nel fatto che la nostra politica sta a 360° seguendo le direttive di una classe imprenditoriale più interessata alla flessibilità e al basso costo del lavoro che agli investimenti produttivi. I lavoratori ideali, in questo tessuto produttivo, sono deboli, poco qualificati, “flessibili”. Proprio come gli immigrati. Inoltre, da noi le retribuzioni di questi “lavoretti” sono molto più basse che negli altri Paesi europei, e non permettono una vita indipendente. Al contrario che in altri Paesi, in molti dei quali – come la Germania e la Francia – si può contare in più su efficaci sostegni in caso di disoccupazione o basso reddito.

Così molti giovani mettono in atto una strategia di “salvezza” individuale, e partono per cercare un altrove in cui sperimentare una condizione materiale ed esistenziale che vedono irrealizzabile nel loro Paese. È insieme una crisi di fiducia e di opportunità, che apre alla ricerca di un luogo dove si apra uno “spazio del possibile” che si crede esaurito in patria.

Se ci sono dunque soggetti che potremmo “aiutare a casa loro”, questi sono proprio i giovani italiani. Quelli che partono non tanto, o non solo, per voglia di avventura e conoscenza ma, ancora una volta, come “migranti economici”. E anche quelli che scelgono la strada dell’estero per volontà di esperienza e ricerca del nuovo. Oppure i ricercatori che vanno via per far parte di un fronte di ricerca avanzata. Tutti soggetti che, presto o tardi, si trovano in una condizione di esilio, impossibilitati a tornare in Italia senza andare incontro a gravi perdite economiche, esistenziali, professionali.

Rimane da chiedersi perché mai – e a dispetto della loro palese inconsistenza – in tema di flussi di mobilità di persone le retoriche dell’aiutiamoli a casa loro e della fuga dei cervelli continuino ad avere tanto posto, e tanto successo, nei discorsi giornalistici e politici e nel discorso pubblico. Perché si preferiscono gli argomenti correlati all’invasione (con tutte le implicazioni di tipo razzista sempre più evidenti negli ultimi tempi) piuttosto che presentare l’evidenza che siamo un Paese che avrebbe bisogno di attirare flussi piuttosto che respingerli? Perché si preferisce attardarsi sugli argomenti dei migranti che rubano lavoro agli italiani, piuttosto che insistere sull’urgenza di una politica industriale che punti alla creazione di lavoro qualificato per una popolazione giovanile (italiana e non) altamente scolarizzata e qualificata?

Possiamo limitarci a pensare che sia la politica a indirizzare il discorso pubblico? O è piuttosto

l’infomediazione degli algoritmi che, riproponendo a ciascuno prevalentemente ciò che gli è già familiare, muta molto profondamente il legame fra informazione, formazione dell’opinione pubblica e sfera dell’elaborazione e della decisione politica?

Appare, in breve, urgente riportare all’attenzione il tema della “sfera pubblica” e riflettere sistemicamente e sistematicamente su come le reti e le varie forme di social media abbiano cambiato profondamente lo “spazio pubblico mediatizzato” dall’epoca in cui esso era formato soltanto da giornali e media broadcast (Wolf 1994; Wolton 1991). Ci sono in particolare due aspetti intorno ai quali dovremmo riarticolare le nostre precedenti domande. Uno è il modo in cui i web analytics da un lato e i social media dall’altro influiscono sulla rappresentazione che i giornalisti e i politici hanno degli interessi del pubblico. L’altro è l’effetto dello sfruttamento pubblicitario delle pagine viste sull’insistenza su determinati temi e sul modo di trattarli, il cosiddetto clickbaiting che innesca nuove forme di quella che Habermas (2001:172) aveva chiamato la “rifeudalizzazione” della sfera pubblica.

 

 

*Università di Cassino e del Lazio Meridionale

 

 

Bibliografia

CENSIS (2014), Quarantottesimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese, Milano, Franco Angeli.

Confindustria (2017), Le sfide della politica economica, Scenari economici, 30.

Grubel H. G., Scott A. (1966) The International Flow of Human Capital, American Economic Review, 56 (1/2): 268-74.

Habermas, J. (2001), Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza.

Milio S., Lattanzi R., et alii (2012 ), Brain Drain, Brain Exchange and Brain Circulation. The case of Italy viewed from a global perspective, Aspen Institute.

Stazio, M. (2017), Esploratori e Fuggiaschi. La mobilità giovanile italiana nella Berlino che cambia, Milano, Mimesis.

Wolf M. (1994), “Le discrete influenze”, Problemi dell’informazione, XXI, n. 4, dicembre 1996.

Wolton D.(1991), “Les contradictions de l’espace public médiatisé”, Hermés, 10.

 

[1] Cfr. ISTAT, La popolazione in Italia, nuove stime per l’anno 2016, www.istat.it

[2] ibidem.

[3] Nel 2016, il saldo complessivo è stato negativo per 76.106 unità: la flessione della popolazione di cittadinanza italiana (-96.981) non è stata compensata dall’aumento della popolazione straniera (+20.875); cfr. ISTAT, Bilancio Demografico 2016, giugno 2017

[4] Cfr. ISTAT, La popolazione in Italia, nuove stime per l’anno 2016, www.istat.it

[5] Cfr. Migrantes (2016), Rapporto italiani nel mondo, Todi, Tau.

[6] Miur – Statistica, Indagine sull’Istruzione Universitaria, Dati generali: Laureati anno solare 2016 per ateneo e sesso.

[7] ISTAT, Bilancio Demografico 2016, giugno 2017.

[8] ISTAT (2013), Disoccupati, Inattivi, Sottoccupati. Indicatori complementari al tasso di disoccupazione,

[9] Cfr. Fondazione Migrantes (2015) – Rapporto Italiani nel mondo 2015, Tau, Todi

[10] XIX Indagine (2017) – Condizione occupazionale dei Laureati

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