L’utopia dell’Equilibrio Economico Generale

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Political and social notes

Nella concezione popolare, ma spesso anche in lavori teorici poco rigorosi, troviamo una visione mitica del capitalismo, come sistema di garantita efficienza: in questo mondo ideale ogni individuo massimizza la propria utilita’ soggetto a vincoli di bilancio, uguagliando i tassi di sostituzione fra vari beni che consuma ai loro prezzi relativi; ogni impresa massimizza il profitto uguagliando i tassi di sostituzione fra i vari inputs ai loro prezzi relativi, e il costo marginale del prodotto al suo prezzo. Ne risulta – escludendo alcune difficolta’ che enunceremo piu’ avanti – un equilibrio economico generale che gode di efficienza Paretiana, per cui cioe’ non e’ possibile produrre una maggiore quantita’ di un bene senza ridurre la quantita’ prodotta di un altro bene, ne’ migliorare la posizione di alcuno senza peggiorare quella di qualcun altro.

Purtroppo questo tipo di sistema economico e’ un’utopia, nel senso letterale di un sistema che non esiste e non puo’ mai esistere. Innanzitutto i mercati sono incompleti, rispetto a quelli che sarebbero necessari per convalidare questa visione. Mancano i mercati intertemporali per beni futuri (o a termine), tranne un piccolo numero di mercati per prodotti primari omogenei e valute nazionali e estere, e per orizzonti temporali ristretti. In secondo luogo mancano mercati contingenti, ossia per beni associati a particolari “stati del mondo”, che potrebbero eliminare il rischio (quando la distribuzione delle probabilita’ di eventi futuri e’ nota e quindi il rischio e’ assicurabile) ma in ogni caso non l’incertezza (quando la distribuzione delle probabilita’ non e’ nota – una distinzione introdotta da Knight 1921).

In terzo luogo per garantire le proprieta’ di efficienza attese questi mercati dovrebbero aprirsi, registrare le transazioni per tutti i periodi da qui all’eternita’ e per tutti gli stati possibili del mondo, chiudersi e mai riaprirsi, lasciando che le transazioni contrattate fossero semplicemente eseguite senza fallo fino alla fine del mondo. Infatti se i mercati riaprissero l’acquisto di beni futuri potrebbe essere rimandato, e le transazioni sarebbero decise sulla base non di prezzi e quantita’ correnti ma dei prezzi e delle quantita’ attese dagli operatori nei mercati spot che prevarranno in tutti i periodi successivi, senza garanzia di efficienza economica. (Keynes 1921 e 1936, specialmente il capitolo 12, e Goodwin 1947 sezione IV). Nel nostro mondo i mercati aprono, chiudono e riaprono continuamente, anzi nell’economia globale chiudono raramente, solo in corrispondenza di festivita’ universali. Non comandano i prezzi, ma le aspettative.

E anche se, per assurdo, tutti questi mercati esistessero e aprissero e chiudessero una volta per tutte appena concluse le transazioni, nessuno potrebbe garantire l’esecuzione dei contratti, e di conseguenza il volume delle transazioni ne risulterebbe sostanzialmente ridotto. E in ogni caso questi mercati non potrebbero mai applicarsi al lavoro senza assoggettarlo a condizioni feudali di asservimento irrevocabile a un padrone o a un’impresa, che a sua volta sarebbero obbligati a impiegarlo. Un sistema siffatto potrebbe essere considerato una “economia di scambio” (come ambiguamente la chiama Debreu 1959, uno dei teorici principali dell’Equilibrio Economico Generale), ma nella maniera piu’ assoluta e incontrovertibile non un sistema capitalista dove il lavoratore e’ salariato, esposto al licenziamento subitaneo e al tempo stesso libero di lasciare la sua occupazione in qualsiasi momento .

Nel mondo Keynesiano in cui viviamo i risparmiatori non devono necessariamente convertire i loro risparmi in domanda di beni futuri, e questo e’ il motivo per cui un eccesso di risparmio sull’investimento causa disoccupazione anziche’ la desiderata accumulazione di ricchezza. L’eventuale flessibilita’ dei salari verso il basso puo’ peggiorare o migliorare la disoccupazione, a seconda del valore netto dell’effetto sulle esportazioni (positivo in un’economia aperta con domanda di importazioni e esportazioni sufficientemente elastica, ma necessariamente zero in in un sistema chiuso come l’economia globale), l’effetto negativo della conseguente riduzione di consumo dei salariati e l’effetto incerto sugli investimenti (vista la probabile riduzione dell’intensita’ di capitale a fronte di un probabile aumento di capacita’ produttiva).

Per tutti questi motivi l’unico sviluppo realistico e rigoroso della teoria dell’equilibrio economico generale e’ stato l’equilibrio “temporaneo” di Hicks (1936), con una sequenza di equilibri di breve periodo che non corrisponde necessariamente alle aspettative degli agenti e quindi non gode necessarianente di proprieta’ di efficienza (vedasi Drèze 1999).

La teoria economica neoclassica ha cercato di superare queste difficolta’ piu’ che altro con ipotesi ad hoc che in sostanza ne trascurano l’esistenza:

1) capitale malleabile, trasformabile in qualsiasi aumento di capacita’ produttiva di ogni tipo o consumato se in eccesso; se poi a questo si aggiunge l’ipotesi che la funzione di produzione abbia la forma Cobb-Douglas (a rendimenti costanti di scala e elasticita’ del prodotto rispetto ai fattori lavoro e capitale costanti e se sommati uguali all’unita’), le quote dei fattori nel reddito corrispondono alle rispettive elasticita’ e la distribuzione del reddito e’ determinata, come diceva la Joan Robinson, “da dio e gli ingegneri”. Queste ipotesi venivano criticate fortemente dagli economisti di Cambridge nella controversia sulla Teoria del Capitale negli anni ’60, vedi Cohen e Harcourt 2003;

2) equilibrio parziale di un agente economico rispetto a un dato singolo cambiamento di prezzo, o di quantita’, o di tecnologia, senza considerare il feedback degli equilibri parziali sul sistema complessivo, del tipo investigato da Kaldor (1959) con la sua impresa rappresentativa (la cui curva di domanda replica l’andamento della domanda nell’intera economia a seconda delle fasi del ciclo, contrapposta alla equivalente impresa Marshalliana con curva di domanda data e invariata nel ciclo, vedi anche Harcourt 1963);

3) perfetta conoscenza del futuro, inconcepibile nel caso di una pluralita’ di soggetti economici che su questo futuro influiscono con le loro azioni individuali;

4) l’ipotesi di Mercati Efficienti, quando “i prezzi riflettono pienamente tutta l’informazione disponibile” (Fama 1965, Samuelson 1965), comprese le aspettative di tutti i partecipanti al mercato, nel qual caso le variazioni di prezzo non possono essere previste: ognuno sfruttera’ il piu’ piccolo vantaggio informatico (e se vedi una banconota da 100 dollari per terra non ti devi chinare a raccattarla perche’ se veramente lo fosse qualcun altro l’avrebbe gia’ raccattata…);

5) l’ipotesi di aspettative razionali (Muth 1961, Lucas 1972), che in realta’ non hanno niente di razionale e semplicemente si presumono corrette nel senso di non generare sorprese. Seppure screditate (ad esempio, rinnegate dallo stesso Muth che le aveva introdotte) le aspettative razionali sono strumentali alla tesi che la politica economica del governo e’ sempre inefficace poiche’ viene correttamente anticipata dal pubblico. Un altro sottoprodotto di questa teoria e’ il principio della indipendenza della Banca Centrale dal governo: si ritiene che un banchiere centrale indipendente debba adottare un obiettivo di inflazione, su cui il governo non puo’ comunque influire, data la presunzione di una curva di Phillips virtualmente verticale che esclude l’esistenza di un trade-off fra disoccupazione e inflazione.

I pianificatori sovietici talvolta sostenevano che la loro pianificazione centrale era sempre necessariamente ottimale, perche’ se avessero saputo come fare di meglio lo avrebbero fatto. Certo dovrebbe essere piu’ facile riconoscere opportunita’ di migliori allocazioni di risorse da parte di molteplici soggetti economici impegnati in ripetute transazioni bilaterali in un’economia di mercato, grazie alla divisione della conoscenza fra i soggetti economici (Hayek 1945) che da parte di una singola agenzia centrale di pianificazione. Ma se la costruzione di un piano fosse decentralizzata, come previsto da Lange (1936 e 1937; vedi anche Ward 1967), Mercati Efficienti e Pianificazione Ottimale sarebbero ugualmente plausibili (o, piuttosto, ugualmente implausibili).

Sempre dal punto di vista di un equilibrio economico generale, l’efficienza dei mercati richiede varie condizioni addizionali: 1) concorrenza perfetta; 2) mancanza di rendimenti crescenti di scala (che sarebbero incompatibili con la concorrenza perfetta); 3) mancanza di economie o diseconomie esterne, che influenzerebbero i costi marginali; 4) informazioni simmetriche per tutti gli operatori economici; 5) la unicita’ dell’equilibrio stesso. Sappiamo con assoluta certezza che queste condizioni non sono soddisfatte in nessun angolo del mondo in cui viviamo.

Il modello originale di equilibrio economico generale alla Walras-Arrow-Debreu e’ stato successivamente sviluppato in modelli macroeconomici aggregati che poco hanno in comune con i modelli originali tranne alcune limitate interdipendenze fra variabili aggregate, fino a produrre DSGE o modelli Dinamici e Stocastici di Equilibrio Economico Generale. In risposta a critiche della loro utilita’ nell’analisi della Grande Depressione, Blanchard (2018) riconosce che sono “seriamente difettosi, ma sono eminentemente migliorabili e centrali al futuro della macroeconomia” (l’intero volume della rivista in cui Blanchard pubblica queste valutazioni e’ dedicato ai modelli DSGE). Ai posteri l’ardua sentenza.

Anche se tutte le condizioni per l’efficienza dei mercati fossero soddisfatte, non c’e’ alcun motivo di ritenere che essi siano necessariamente giusti da un punto di vista distributivo. Infatti la distribuzione del reddito dipende dalla distribuzione iniziale di fattori produttivi (ossia di ricchezza, compreso il tempo di cui tutti dispongono e che puo’ essere conservato come ozio o impiegato in lavoro trasformandolo in prodotto o in salario), dai mercati che determinano i prezzi dei prodotti e dei fattori, dalle preferenze dei soggetti economici, la tecnologia e le istituzioni. Pertanto non c’e’ alcun motivo per cui la distribuzione risultante debba essere considerata come giusta, sia dal punto di vista della maggioranza dei soggetti economici o di un governo democraticamente eletto attraverso il quale la societa’ esprime i suoi valori collettivi, o nel giudizio di organizzazioni internazionali rappresentative (ad esempio dal punto di vista degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, Sustainable Development Goals, per la riduzione della poverta’ o per gli altri obiettivi distributivi adottati dalle Nazioni Unite per il 2030).

Al contrario, i mercati possono essere giudicati come doppiamente ingiusti, perche’ dipendono da una distribuzione ineguale e arbitraria di ricchezza che non e’ democratica (un voto per ogni dollaro, per cosi’ dire, invece di un voto a testa), e perche’ questa distribuzione ineguale di reddito si traduce in ulteriori ineguali incrementi di ricchezza accumulata. Infine, proprio in un’ottica di equilibrio economico generale, i salari dovrebbero essere considerati come equivalenti al valore del tempo dedicato al lavoro anziche’ all’ozio, e quindi a rigore dovrebbero essere esclusi del tutto dal computo dei redditi dal punto di vista della disuguaglianza, anziche’ essere trattati al pari del reddito di quei rentiers che godono dell’intero tempo a loro disposizione senza essere costretti a trasformarlo in salario per la loro sussistenza.

*Professore Emerito di Sistemi Economici Comparati, Facolta’ di Economia, Sapienza Universita’ di Roma

dmarionuti@gmail.com

http://sites.google.com/site/dmarionuti/

http://dmarionuti.blogspot.com/

L’articolo è parte di un saggio piu’ lungo “Ascesa e Caduta del Socialismo”, disponibile in versione integrale al link http://www.insightweb.it/web/content/ascesa-e-caduta-del-socialismo, e in inglese al link  https://doc-research.org/en/rise_and_fall_of_socialism/.

Bibliografia

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Drèze, Jacques H. (1999) “On the Macroeconomics of Uncertainty and Incomplete Markets”, Presidential Address, International Economic Association, n. 9964.

Debreu Gérard (1959). Theory of Value. An axiomatic analysis of economic equilibrium, New Haven and London, Yale U.P.
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