Il ritorno dello Stato
Da qualche settimana è apparso in libreria l’ultimo lavoro del prof. Giuliano Amato dal suggestivo titolo Bentornato Stato, ma (Il Mulino, 2022). Si tratta di un volumetto assai interessante nel quale l’ex Presidente del Consiglio e attuale Presidente della Corte costituzionale espone le sue idee sui rapporti tra Stato e mercato nella situazione di emergenza creatasi a seguito della crisi finanziaria globale del 2008 e dell’emergenza pandemica da Covid 19, in un contesto mondiale ulteriormente complicato dall’esplodere della guerra in Ucraina.
L’argomento trattato dall’autore è quello del ritorno sulla scena economica dello Stato, soggetto che negli ultimi quarant’anni non aveva goduto di buona salute né politica né mediatica perché veniva generalmente considerato «il problema» e non «la soluzione» delle difficoltà dei mercati interni e internazionali e quindi, nella sostanza, un freno alla crescita economica. Ora invece, almeno a partire dalla crisi del 2008 e dai rimedi adottati dalle classi dirigenti per venirne fuori, lo Stato è tornato ad essere «la soluzione» invocata a gran voce da una maggioranza sempre più ampia di imprese e di semplici cittadini cessando, di fatto, di essere considerato «il problema».
Amato inizia il suo libro riprendendo alcune teorie del premio Nobel per l’economia del 1993 Douglass North e, in particolare, le idee dell’economista americano sui fattori dai quali dipende la disponibilità di istituzioni efficienti all’interno di un sistema economico dato. Amato sottolinea come la principale operazione compiuta da North sia stata quella di aver trasferito il concetto di «efficienza» dai mercati all’attività delle istituzioni politico-amministrative. Di conseguenza si è incominciato a ritenere che le istituzioni efficienti dal punto di vista della teoria economica fossero quelle che azzerano i costi di transazione, cioè quelli che gli operatori non possono sostenere da soli; mentre sono da considerare inefficienti le istituzioni che, assumendo come fine «l’orientamento, la promozione o a volte, all’opposto, il divieto di scelte che il mercato matura al suo interno», spesso finiscono per aumentare i costi e consumare ricchezza anziché produrla. Su questo tema, l’analisi proposta da Amato è molto significativa anche perché basata sull’osservazione di quanto avvenuto in Italia negli ultimi anni: le istituzioni pubbliche finiscono per aumentare i costi estraendo risorse e divenendo, così, inefficienti «quando fanno passare patologie e devianze, o anche quando sono esse a perseguire fini che, anziché migliorare, danneggiano l’economia»[1].
Ragionando in questi termini, in presenza di un generalizzato ritorno dello Stato, si arriva ad affrontare «un tema delicato – sono sempre parole di Amato –, che potremmo trovarci davanti e che si colloca in un’area nella quale ci si confronta con argomenti prima ancora ideologici che storici e fattuali. È l’area degli interventi pubblici accentuatamente restrittivi dell’autonomia imprenditoriale in nome di esigenze pubbliche trasparentemente enunciate, che, in un ordinamento come il nostro, possono essere ritenute coerenti con i limiti che l’art. 41 della Costituzione impone alla libertà di iniziativa privata, ma possono anche apparire contestabili in base al medesimo articolo, per l’eccessiva compressione di tale libertà»[2].
Insomma Amato avverte che il vento è cambiato, lo Stato è tornato alla ribalta e che i tempi non sono più quelli della fine del secolo scorso. Allora, infatti, negli anni Novanta, è stato ritenuto utile e necessario liquidare in quattro e quattr’otto l’intero complesso delle partecipazioni statali italiane perché erano divenute economicamente inefficienti per le loro patologie e devianze.
Ciò avvenne – secondo Amato – non tanto a causa del neoliberismo imperante, ma piuttosto perché bisognava dare un segnale forte a quegli interessi deviati che si erano incuneati nella pubblica amministrazione e nelle partecipazioni statali. Di conseguenza si era reso necessario procedere a un «”alt” che veniva imposto ai partiti, espulsi, da quel momento, dal sistema in cui erano penetrati tanto a fondo»[3].
Nelle politiche attuate alla fine del secolo scorso, se c’è stata una serie di provvedimenti che sono stati presi in ossequio al neoliberismo imperante sono stati, secondo Amato, quelli di liberalizzazione, deregulation e depubblicizzazione delle attività economiche che avevano lo scopo di sciogliere nodi divenuti inestricabili eliminando passaggi burocratici superflui e liberando l’economia dai “lacci e lacciuoli” che la opprimevano.
Non possono dirsi neoliberiste, invece, secondo l’ex presidente del Consiglio, le politiche attuate in quegli stessi anni dall’Unione europea, nemmeno quelle di pesante austerity utilizzate per fronteggiare la crisi della Grecia. Presumibilmente – ma su questo tema l’Autore non si dilunga – la spiegazione potrebbe essere che una scelta neoliberista ‘ortodossa’ sarebbe stata quella di consentire il default della Grecia.
È, dunque, ferma convinzione dell’Autore che, sebbene il neoliberismo sia stato di gran lunga la teoria dominante, non è stata l’unica matrice delle politiche economiche italiane degli ultimi quarant’anni di cui lo stesso Amato, come ricorda nel libro, è stato uno dei protagonisti principali.
D’altronde, come la crisi fiscale dello Stato era stata la causa prima del trionfo del neoliberismo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, così il ritorno dello Stato nell’economia a partire dal secondo ventennio del nuovo secolo non risolve le cose d’emblée tornando al passato, ma riapre una partita complessa ponendo una serie di interrogativi.
Tutto ciò porta il presidente della Corte costituzionale a concludere che: «davanti a emergenze gravissime, frutto non di circostanze occasionali, ma di cambiamenti profondi tali da esigere trasformazioni non meno profonde (e non temporanei tamponi), serva bensì un forte potere centrale e tuttavia si debba anche contare sulle responsabilità di cui è intrisa, e capace, la società nel suo insieme, con le sue istituzioni territoriali, le sue autonomie private, le sue aggregazioni di interessi collettivi e sociali»[4].
Giuliano Amato afferma, inoltre, che il quadro normativo è molto cambiato rispetto al secolo scorso: alcune leggi come la Severino del 2012 rendono molto difficili le infiltrazioni di interessi diversi e devianti all’interno delle amministrazioni pubbliche. Anche lo spoil system che aveva permesso l’infiltrazione dell’interesse di parte nella funzione pubblica è profondamente mutato: «i designati, oggi, non sempre sono dei fedelissimi, spesso sono delle persone ritenute di qualità idonee quindi a far fare bella figura a chi le ha designate. In più, le possibilità, occupando quei posti, di favorire il partito designante sono state drasticamente ridotte dalla nuova legislazione che, un decennio fa, ha letteralmente minato il terreno su cui operavano in precedenza non solo la corruzione e la concussione, ma anche il clientelismo»[5].
Secondo Amato, dunque, il ritorno dello Stato è un fatto indubbiamente positivo sempre che non tornino quei vecchi vizi che ne avevano determinato la fine e cioè l’infiltrazione di interessi diversi da quelli della collettività nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni e delle attività economiche nuovamente gestite dalla mano pubblica, l’ingerenza dei vecchi partiti sull’amministrazione e, soprattutto, senza quell’accentramento autoritario che Amato definisce con l’antico concetto di hybris.
Lo Stato che ritorna, dunque, non può essere quello che si è dimostrato debole rispetto agli interessi di parte. Nessuno Stato ideale pronto a trasformarsi in uno Stato autoritario, perché «ridurre quelle responsabilità [della società nel suo insieme] a mera, responsabile obbedienza significa certo ottenere l’adesione di alcuni, ma anche fomentare le reazioni conflittuali di altri, le resistenze e le paure che suscita il nuovo che si sta solo subendo e che non si concorre a costruire, la difesa insomma dello status quo, nutrita ora dal proprio particolare interesse, ora dalla superstizione, ora dal mero ribellismo»[6].
L’Autore propone nel suo libro anche una pars construens che consiste in una fortissima difesa della democrazia considerata ancor oggi la miglior forma di organizzazione politica, ma di una democrazia che deve evolversi da «democrazia governata» in «democrazia governante» secondo una distinzione proposta per la prima volta dallo studioso francese Georges Burdeau. La prima forma si limita a garantire libertà già acquisite, mentre la seconda, la democrazia governante, è finalizzata «alla trasformazione dell’esistente in funzione di esigenze popolari non soddisfatte»[7].
Più democrazia, dunque, per evitare le degenerazioni dello Stato, purché sia una democrazia matura e consapevole che possa portare, attraverso la partecipazione informata e responsabile di tutti alle decisioni pubbliche, al benessere e alla felicità di ciascuno.
Dalla dicotomia Stato/mercato alla dicotomia Stato/impresa
Il problema affrontato da Amato nel suo libro è quello del rapporto tra Stato ed economia. Come ci insegna la storia del pensiero economico, lo Stato sin dalla genesi della prima rivoluzione industriale ha contribuito «a creare un ambiente economico e sociale, in cui si potesse esplicare pienamente la “libera iniziativa” degli individui e delle imprese, garantendo la continuità della crescita economica»[8]. Lo Stato, dunque, è sempre stato parte integrante del sistema economico.
Ma va fatta un’ulteriore riflessione. Se lo Stato, da una parte, ha garantito all’economia di poter prosperare e ha tutelato la libertà di iniziativa economica, dall’altra, si è assunto sempre più estesi compiti e funzioni non economiche, come la garanzia e tutela delle libertà fondamentali, dell’ordine pubblico, dei diritti sociali dei cittadini. Naturalmente ognuno di questi settori di attività può essere valutato alla luce del calcolo economico. In altre parole esiste un “costo dei diritti”, ma questo costo non può essere ridotto al mero rapporto costi/benefici in termini monetari. Il valore di un diritto non equivale a quanto si spende per realizzarlo. Conseguentemente, anche il soggetto erogatore di tali diritti, se è un’istituzione pubblica, non può essere “valutata” col parametro principale dell’efficienza economica che si utilizzerebbe per misurare e classificare l’efficienza di un’impresa. E ciò perché le istituzioni pubbliche sono state concepite e organizzate per garantire diritti e servizi ai cittadini e per svolgere funzioni ritenute di interesse collettivo.
Dunque il problema oggi non è tanto quello di analizzare in via preventiva le eventuali potenziali distorsioni di un rinnovato intervento dello Stato nell’economia, quanto prevedere un ruolo positivo delle istituzioni pubbliche impegnate nella correzione delle asimmetrie economiche e sociali create artificialmente dal mercato e radicate, ormai, nella società. La distorsione dei mercati privati che è il problema fondamentale per cui si rende necessario l’intervento pubblico viene in qualche modo ridotto unicamente a quello che Amato indica come lo short termism della finanza privata.
Quello che sarebbe necessario chiedere oggi alla teoria giuridica e politica non è tanto di elaborare una strategia preventiva contro il ritorno degli effetti perversi dello Stato; sarebbe forse più utile capire come attuare forme di giustizia redistributiva che correggano le eccessive concentrazioni di ricchezza nelle mani di pochi che hanno ricreato evidenti e dannose asimmetrie strutturali nella società. Sono gli interessi privati a destare maggiore preoccupazione proprio nel momento in cui invocano un maggiore intervento dello Stato in loro sostegno senza voler cedere nulla in cambio in termini di tassazione degli extraprofitti o di redistribuzione delle risorse.
D’altra parte la riflessione del presidente Amato è basata sulla classica dicotomia Stato/mercato che ha dominato il dibattito pubblico e gli studi scientifici per qualche secolo. In questa prospettiva lo Stato era considerato nel senso classico di «istituzione delle istituzioni», cioè l’istituzione più importante che le ricomprende tutte. Non a caso Amato all’inizio del suo libro distingue le istituzioni per il mercato, che non sono in discussione perché non costituiscono un problema, e le altre istituzioni che con il mercato finiscono volenti o nolenti per confliggere.
La tradizionale dicotomia Stato/mercato era, dunque, basata, da un lato, su una dimensione qualitativa e, dall’altra, su una dimensione quantitativa. In quest’ultima dimensione, lo Stato era il principale soggetto dell’economia in quanto controllore e gestore delle principali risorse economiche e finanziarie collettive e come unico titolare delle decisioni politiche. In parole povere gli Stati, almeno nella loro accezione tradizionale, si caratterizzavano per il fatto di avere il monopolio dell’uso legittimo della forza, detenere il diritto esclusivo di riscuotere le tasse – anche vessando le popolazioni – e di battere moneta. E per queste loro caratteristiche riuscivano a garantire il buon andamento dei mercati in una dimensione territoriale generalmente limitata a quella nazionale e tendenzialmente proiettata verso una dimensione più ampia attraverso l’estensione del potere con l’uso della forza militare.
In realtà si potrebbe sostenere con qualche ragione che la dicotomia Stato/mercato può considerarsi storicamente superata perché, proprio a causa del prevalere del neoliberismo come teoria economica dominante, essa è stata sostituita di fatto dalla dicotomia Stato/impresa. Lo Stato, infatti, privato della sua natura tradizionale di istituzione a carattere universale con le caratteristiche sopra accennate, è stato ridimensionato e ridotto a una forma particolare di organizzazione dell’attività economica. In sintesi si può sostenere che se in passato lo Stato costituiva il contenitore – o più astrattamente l’ambiente – in cui si sviluppava, tra le altre, anche l’attività economica, oggi, dal momento che ogni tipologia di attività sociale viene considerata nella prospettiva dell’economia, lo Stato si è trasformato in una mera forma organizzativa più complessa di quella dell’impresa perché sovraccaricata di aspettative diverse anche non legate direttamente alla produzione di beni e servizi. È proprio questo il motivo per cui lo Stato e la sua organizzazione burocratica appaiono meno efficienti rispetto all’organizzazione d’impresa se valutati entrambi alla luce di un concetto di efficienza di carattere meramente economico.
L’alternativa più adatta a descrivere la realtà attuale non è più quella tra Stato e mercato, dal momento che il mercato ha sostituito lo Stato divenendo esso stesso il contenitore – o l’ambiente – in cui si svolge qualsiasi attività a rilevanza economica, anche quella politica e sociale.
La nuova dicotomia Stato/impresa finisce per descrivere meglio due forme alternative di organizzazione dell’attività economica in cui la differenza fondamentale risiede nel fatto che l’impresa ha come scopo principale la produzione del profitto a breve termine, mentre lo Stato è caratterizzato dalla pianificazione a medio e lungo termine dell’attività economica in funzione del pareggio di bilancio e della copertura dei costi di esercizio.
Il mercato è cambiato
La ricostruzione del significato del termine mercato di Giuliano Amato è ancora legata alla concezione tradizionale: «non appena il mercato cresce di dimensione e quindi gli scambi avvengono tra persone che non si conoscono, a renderli possibili non è più la fiducia personale, ma un insieme di fattori che nessun operatore potrebbe mettere su solo. Si noti che è proprio a questo punto che nasce quello che si chiama “il mercato” e cioè la piazza commerciale nel centro cittadino nella quale confluiscono, da luoghi diversi, venditori e compratori. Il mercato, dunque, è già di per sé frutto delle istituzioni, che lo organizzano, che prepongono delle autorità al suo funzionamento, che fissano le regole per i documenti necessari a vendere e a comprare, che asseverano le modalità di pagamento non immediato (le cambiali), che mettono a disposizione un tribunale per dirimere vertenze»[9].
Ma oggi il mercato non è più quello ‘romantico’ delle origini. Oggi il mercato è un insieme di piattaforme tecnologiche e di scambi rapidissimi di informazioni in tempo reale. E le informazioni e le garanzie che sono alla base della fiducia necessaria al funzionamento dei mercati non sono più saldamente nelle mani dello Stato ma, semmai, nelle mani di organizzazioni private.
Non è superfluo ricordare in questa sede le tesi di Shoshana Zuboff che qualche tempo fa sono state pubblicate in un volume che ha avuto vasta eco non solo tra gli addetti ai lavori. Secondo la studiosa americana, oggi l’attività economica si è trasformata in un «capitalismo della sorveglianza» che possiede tutte le informazioni disponibili[10]. I dati che servirebbero per controllare effettivamente i mercati sono in possesso di imprese private e coperte dalle leggi sul copyright. Per cui gli Stati si limitano paradossalmente a garantire la segretezza delle informazioni necessarie al controllo dei mercati senza avere la forza e la capacità tecnologica necessarie a garantire il funzionamento corretto dei mercati stessi o semplicemente a contenerli.
La prova di questa dinamica si rende evidente nella difficoltà di informatizzare/digitalizzare la tradizionale attività amministrativa organizzata nella forma burocratizzata degli Stati. L’amministrazione pubblica intesa nel senso tradizionale risulta appesantita dalla necessità di contemperare interessi diversi e di rispettare le esigenze di trasparenza e imparzialità. Essa ci appare come un pachiderma immobile incapace di entrare nella nuova organizzazione mantenendo le sue caratteristiche tradizionali.
Semplificando il discorso, si potrebbe dire che mentre in passato cittadini e imprese consegnavano spontaneamente – o coattivamente – allo Stato garante le informazioni necessarie affinché lo Stato potesse controllare il funzionamento trasparente dei mercati, oggi questa condizione è sostanzialmente cambiata perché quelle informazioni vengono inconsapevolmente cedute alle piattaforme tecnologiche e gestite autonomamente da soggetti privati con l’incapacità oggettiva dello Stato a intervenire, anche autoritativamente, su quegli stessi soggetti privati.
Il mercato ha sostituito lo Stato proprio perché i soggetti che sono protagonisti degli scambi commerciali sono già in possesso di tutte le informazioni necessarie ed hanno eliminato alla radice l’esigenza della dimensione burocratico/amministrativa tradizionale dello Stato. Così lo Stato, da ambiente che era, è diventato uno dei soggetti in campo proprio perché ridimensionato dall’impossibilità oggettiva di annullare i costi di transazione che, per lo Stato, rappresentano in realtà costi ineliminabili poiché provenienti da istanze sociali che ne condizionano l’organizzazione e che sono diverse da quelle puramente economiche.
D’altra parte che quella dello Stato non fosse la dimensione istituzionale ottimale dei mercati e che quindi fosse necessaria una nuova «scalarità» istituzionale più adatta ai mercati estesi, l’aveva chiaramente affermato Saskia Sassen qualche anno fa. La studiosa americana di origine olandese si chiedeva quale dovesse essere la funzione dello Stato nel nuovo contesto economico ed osservando che «non stiamo assistendo alla fine degli Stati, ma in questo ordinamento nuovo, gli stati non sono più né gli unici né i più importanti agenti strategici di questo nuovo ordinamento istituzionale. Inoltre, questi stati, compresi gli stati dominanti, hanno subìto profonde trasformazioni in alcune loro componenti istituzionali fondamentali. È probabile che entrambe queste tendenze aumentino il deficit democratico e rafforzino ulteriormente la “legittimità” di certi tipi di richieste e di norme; in particolare di quelle degli operatori economici globali»[11].
La prova di una dinamica fisiologicamente espansiva dei mercati a fronte di una altrettanto fisiologica difficoltà degli Stati nell’assorbire le nuove istanze provenienti dalla società si evidenzia nella difficoltà di costruire – in tempo di pace – modelli istituzionali sovrastatali con una dimensione politica tradizionale a fronte della facilità di creazione di mercati estesi su scala macroregionale o addirittura globale.
Si pensi ad esempio al processo di costruzione dell’Unione europea nata originariamente dall’esigenza di unificare i mercati dell’energia e delle materie prime e dalla convinzione che, nel lungo periodo, ciò avrebbe portato all’unificazione politica. E il perpetuarsi di questa convinzione ha finito per affidare all’unificazione della sovranità monetaria il compito di trascinare con sé il peso di una unificazione della sovranità politica che appariva lontanissima – o addirittura impossibile – da raggiungere.
Qualche osservazione conclusiva
Per arrivare a qualche conclusione molto sommaria, si potrebbe innanzitutto ricordare che la storia d’Italia offre anche un’esperienza positiva di economia mista e di imprese pubbliche efficienti: si pensi ad esempio al caso dell’ENI di Enrico Mattei. E dunque la degenerazione dell’impresa pubblica, come nel caso dell’EFIM ricordato da Amato, è avvenuta proprio a partire dagli anni in cui si è realizzata la progressiva affermazione del neoliberismo.
Inoltre si potrebbe sostenere che è proprio il configurarsi della nuova dicotomia Stato/impresa come forme alternative di organizzazione dell’attività economica il motivo principale che porta tanto un osservatore espertissimo come Giuliano Amato quanto il comune cittadino all’implicita convinzione che, per soddisfare le istanze sociali diverse da quelle economiche, sia più efficiente l’organizzazione privatistica dell’impresa a fronte delle oggettive difficoltà organizzative della pubblica amministrazione. Un’organizzazione burocratica, anche la più efficiente, è fisiologicamente esposta al rischio dell’infiltrazione di interessi di parte pronti a impossessarsi degli spazi di discrezionalità necessariamente presenti nelle scelte relative a qualunque tipo di attività che incida sulla vita reale dei singoli individui e delle organizzazioni sociali.
Ma pur volendo considerare tali difficoltà, lo Stato è bentornato perché rimane, comunque, l’istituzione che ha oggettivamente svolto una funzione di progresso nell’organizzazione sociale ed è ancor oggi l’unica istituzione che non ha alcun bisogno di sottostare alla prospettiva unica offerta dall’economia di mercato. Lo Stato, in attesa che qualcuno inventi qualche forma istituzionale alternativa, ha il compito di guardare alla realizzazione delle istanze che provengono dall’intera o dalla maggioranza della collettività e di occuparsi di questioni e problemi di cui le imprese, lanciate sui mercati globali, non intendono occuparsi e considerano come mere «esternalità», come continua a fare anche la teoria economica mainstream.
Lo Stato per affrontare le nuove e urgenti istanze provenienti dalla società può scegliere di perfezionare il modello di organizzazione burocratica offerto dalla storia oppure creare nuove tipologie di organizzazione. Ma quel che è certo è che tanto gli efficientissimi spiked helmets di weberiana memoria, quanto gli altrettanto efficienti civil servants di tradizione anglosassone avranno il loro da fare per trasformare le istanze di partecipazione e le esigenze nascenti dalle nuove istanze sociali di una «democrazia governante» se il compito delle amministrazioni pubbliche dovrà essere soltanto quello di star dietro ai mercati senza disturbare il loro funzionamento spontaneo e la loro sempre più folle corsa ai profitti.
[1] G. Amato, Bentornato Stato, ma, Il Mulino, Bologna, 2022, p. 22.
[2] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 23.
[3] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 64.
[4] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 98.
[5] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 79.
[6] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 98.
[7] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 99.
[8] V. Gioia, Stato ed economia nelle riflessioni sulla genesi e i caratteri del “moderno capitalismo”, in «Itinerari di ricerca storica», XXX – 2016, numero 2 (nuova serie), p. 212.
[9] G. Amato, Bentornato Stato, ma, cit., p. 12.
[10] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.
[11] S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, p. 39 s.