Come ottenere consenso politico in Italia?

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Political and social notes

Se guardiamo al dipanarsi delle esperienze storiche di riforme radicali, oppure di transizione da un assetto sociale ad un altro, constatiamo che una loro dimensione ricorrente risiede nella capacità degli innovatori istituzionali di catturare consenso politico attorno ad una strategia di discontinuità[1]. In queste occasioni, la formazione del consenso non si verifica cumulando singole adesioni fino alla maggioranza, semplice o qualificata. Al contrario, il consenso è un percorso egemonico lungo il quale si ottiene la collaborazione di alcuni gruppi e il contrasto di altri. Non di rado, passaggi simbolici drammatici – in cui qualche gruppo viene esplicitamente sconfitto – appaiono cruciali momenti di non-ritorno, oltre cui è la vicenda di un’intera collettività a mutare direzione[2].

Per capire meglio l’esigenza di una simile strategia di discontinuità, ricordiamo due tra le più autorevoli e dibattute letture del nostro sistema politico: quella di Sartori-Farneti e quella di Pizzorno. Secondo Giovanni Sartori[3], la stortura del caso italiano nasce dal “pluralismo polarizzato”. Fino agli anni settanta dello scorso secolo, vi fu la presenza di importanti partiti antisistema: quello comunista e quello neofascista. Di fronte ad opposizioni mutuamente esclusive e caratterizzate da posizioni estreme, il partito moderato, la Democrazia cristiana (DC), fu “costretto” a restare al governo. Ciò ebbe gravi conseguenze. Non potendo sperare di governare, le opposizioni furono irresponsabili, puntando a esacerbare le tensioni sociali. Non potendo essere esclusa dal governo per mancanza di alternativa, la DC ebbe scarsa responsabilità democratica, preoccupandosi poco del rendimento dei propri esecutivi. Negli anni più recenti i partiti antisistema e la DC scompaiono, ma sono i loro esponenti a dar forma a nuove etichette partitiche. La vera novità non sta dunque in un cambiamento del ceto politico, bensì nella comune corsa ad occupare il centro: una tendenza che già parecchi anni fa Paolo Farneti aveva chiamato “pluralismo centripeto”[4]. Essa genera la politica che il comico Maurizio Crozza definisce del “ma anche”: i leader politici proclamano, senza alcun imbarazzo, di voler questo … “ma anche” il suo contrario. È la politica del non-schierarsi, dei programmi vuoti e generici, delle riforme mai attuate. Il passaggio dal pluralismo polarizzato al pluralismo centripeto ha insomma dato luogo a una vasta marmellata moderata, in cui non si scontenta nessuno perché non si prendono mai decisioni autentiche. Se però i partiti non si differenziano davvero sui programmi e sui modi per realizzarli, rimane soltanto la gestione dei posti di potere: da ciò l’ingordigia e la litigiosità del ceto politico. Sprechi e instabilità stanno tra loro come il concavo sta al convesso.

L’altra chiave interpretativa è di Alessandro Pizzorno[5]. Egli distingue tra le pratiche politiche palesi e quelle coperte: ad esempio, nei dibattiti pubblici De Gasperi e Togliatti, o Moro e Berlinguer, si davano del “lei”, mentre nelle aule parlamentari si davano del “tu”. Il comportamento palese marcava una distanza, quello coperto riconosceva una contiguità. Secondo Pizzorno, era la contiguità a prevalere: negli anni cinquanta, al culmine della guerra fredda e delle contrapposizioni ideologiche, più del novanta per cento delle leggi emanate dal parlamento italiano furono approvate all’unanimità; inoltre, tra governo e opposizioni vi erano sistematici scambi di favori. Sartori, suggerisce Pizzorno, sarebbe caduto nella trappola di considerare gli attori della politica per quello che dicevano di essere e non per quello che veramente facevano. In Italia vi era “consociativismo”, non polarizzazione.

Mentre le letture di Sartori-Farneti e di Pizzorno sono state in passato fieramente contrapposte, esse, pur muovendo da diversi apparati teorici, sembrano adesso convergere nella diagnosi critica. Per entrambe la debolezza del sistema politico dell’Italia sta nell’incapacità di dare rappresentanza a voci e interessi strategicamente differenti. In Italia, essi sostengono, appare bloccata la consueta dinamica liberaldemocratica per la quale alle elezioni prevale una coalizione, che ha il compito di attuare lungo la legislatura il proprio programma di governo e ha l’onere di essere giudicata dai cittadini al termine di quel mandato[6]. Quello che più mi preme sottolineare, è che per entrambe le tesi il centro politico moderato è al centro della politica italiana. Ciò appare indiscutibile. Ma è proprio così? In questo intervento non menziono gli studi sui flussi elettorali, né quelli sull’evoluzione sociologica del nostro paese. Mi limito ad un punto teoricamente preliminare: è pensabile una chiave interpretativa diversa da quella su cui, quasi per default, in tanti convergono? Per rispondere, un primo passo riguarda l’inadeguatezza delle categorie con cui concepiamo i conflitti odierni. Il discorso è, ovviamente, lungo e complesso. Provo a illustrare un solo punto importante. Come cittadini ci imbattiamo continuamente in scelte “difficili”: quelle che, nella terminologia degli economisti, presentano una non-convessità delle preferenze[7]. Un caso (tra tantissimi) è quello del genitore/elettore che sceglie la scuola per i figli. Può preferire un livello basso di spesa pubblica: così, se la scuola pubblica sarà scadente, avrà i soldi per passare alla scuola privata. È disposto tuttavia a passare alla scuola pubblica se essa è di qualità elevata, il che comporta un livello alto di spesa. La soluzione per lui peggiore è quella intermedia: livello inadeguato della scuola pubblica e livello sensibile di spesa.

Il celebre teorema dell’elettore mediano assume l’ipotesi di preferenza a picco singolo, la quale indica che gli elettori non sono estremisti: un elettore di sinistra, ad esempio, preferirà sempre il centro all’estrema destra. Nondimeno nella realtà non sempre ciò accade, perché molte scelte, essendo “difficili”, rendono estremista l’elettore: sta meglio se converge verso l’una polarità o l’altra. Ma se, su tali scelte, le opinioni sono molto divaricate, vi è un addensamento a sinistra ed uno a destra. Vi sono allora due elettori modali (quelli le cui opinioni sono condivise dal più gran numero), mentre attorno all’elettore mediano si coagulano pochi voti, come si vede nella figura seguente[8]:

 

 

 

 

 

Su fenomeni come l’immigrazione, la crisi economica, l’occupazione precaria, l’eutanasia, la guerra, la genomica, il ruolo pubblico ed economico delle chiese, la costituzione europea, la corruzione, l’ecologia e altri ancora, gli elettori tendono a differenziarsi/polarizzarsi nettamente. Leader della sinistra come D’Alema, Prodi e Veltroni hanno sempre puntato alla conquista dell’elettore mediano. «Però qualcosa non ha funzionato, visto che ripetutamente le sinistre, che si erano spostate al centro più delle destre, hanno perso le elezioni. [Se piuttosto ammettiamo la rilevanza dell’elettore modale], è evidente che il partito che si sposta al centro perde. [I leader della sinistra hanno rincorso] gli elettori moderati, demoralizzando e dividendo la sinistra, rinunciando alla carica solidarista che ha sempre rappresentato il patrimonio culturale migliore dell’opinione pubblica democratica e socialista. Invece il partito che cerca gli elettori estremisti vince. Così ha fatto Berlusconi, alleandosi con Fini e Bossi»[9].

Riassumendo, ho avanzato il sospetto che potrebbe essere illusoria la tesi consueta secondo cui «la battaglia cruciale si gioca al centro»[10]. La sinistra italiana, senza una strategia di discontinuità volta ad attivare i consensi del suo elettore modale, potrebbe continuare ad inanellare sconfitte, mentre l’Italia resterebbe incapace di promuovere innovazioni istituzionali.
Concludo con una precisazione: inseguire l’elettore modale non significa chiudersi entro nicchie estremiste, bensì costruire una strategia egemonica a partire da idee e proposte che non si sviliscano nella palude dell’elettore mediano. Come scrive il lettore Gionata G. nel suo commento a Cesaratto, «la sinistra può farsi portatrice di valori trasversali, ma deve essere chiara ed irremovibile su quattro questioni principali: lavoro (uguaglianza sostanziale secondo art.3 comma 2 della nostra Costituzione), Stato sociale, equiparazione de facto dei sessi, ambiente e susseguenti politiche dell’energia». Il metodo è questo: sui contenuti, ne riparliamo.

 

*Professore associato di economia applicata all’Università di Firenze

 

[1] Nel suo interessante articolo, Sergio Cesaratto esamina la base sociale del consenso politico in Italia. Accolgo volentieri la sua sollecitazione ad approfondire le mie precedenti osservazioni. Per ragioni di spazio non tratterò della “base sociale”, concentrandomi stavolta sui modi del “consenso politico”.
[2] Due esempi evocativi sono la marcia dei quarantamila colletti bianchi della Fiat, il 14 ottobre 1980, contro gli operai; e il fallimento dello sciopero dei minatori britannici, nel 1984-85, contro il governo Thatcher.
[3] G. Sartori, Parties and Party Systems, CUP, Cambridge, 1976.
[4] P. Farneti, Il sistema dei partiti in Italia, Il Mulino, Bologna, 1988.
[5] A. Pizzorno, “Le difficoltà del consociativismo”, in Id., Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano, 1993.
[6] Nei tempi più recenti, Berlusconi ama presentarsi come colui che starebbe ponendo rimedio a tale anomalia.
[7] Un esempio scolastico di non-convessità delle preferenze è che mi piace il gelato, mi piacciano le olive ma … non mi piacerebbe mangiarli assieme. Siamo davanti a beni che non vengono consumati congiuntamente, poiché i loro “miscugli” esprimono un benessere inferiore.
[8] La figura è tratta da E. Screpanti, “Dall’elettore mediano all’elettore modale”, in Id., Un mondo peggiore è possibile, Odradek, Roma, 2006, p.48. Mentre riprendo qui parte dell’analisi di Screpanti, le notazioni sulle scelte “difficili” sono mie.
[9] Ivi, pp.48-49, parentesi quadre aggiunte.
[10] M. Salvati, “La battaglia del centro”, Corriere della sera, 26 marzo 2008.

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