Il bruco, la farfalla e le morti bianche

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

Le riflessioni nel dibattito che si aperto a partire dall’articolo di Cristiano Antonelli[1] offrono vari spunti, di ordine sia economico che politico e politologico. Mi limiterò, in quanto segue, ad alcune osservazioni volte ad evitare che l’attenzione alla realizzabilità degli obiettivi porti a sottovalutare come procedere per l’individuazione degli stessi.
Il lavoro di Antonelli è avvincente. Con una chiarezza e una capacità di sintesi notevole prospetta una possibilità di legare insieme politica progressista (di sinistra) e politica progressiva (di sviluppo). A ben vedere, però, né l’un concetto né l’altro sono chiari. Del secondo – pur intendendo sviluppo nei termini restrittivi di mutamento della struttura produttiva più crescita – non è chiara l’immagine proposta di un processo deterministico, ancorché non lineare, riconducibile al solo mutamento tecnologico. La perplessità non può che aumentare quando si riconosca l’importanza di studiare questo tipo di fenomeno seguendo l’approccio della complessità. Il primo concetto, invece – quello di una politica progressista – sembra ridursi al secondo: sarebbe di sinistra chi favorisce l’evoluzione del sistema economico anziché bloccarlo nel tentativo di conservare gli interessi costituiti propri o della propria base sociale. Si potrebbe integrare questa definizione di progressista aggiungendo che chi è di sinistra tenta di contenere i costi sociali che la politica progressiva produce sulle fascie più deboli della società. Non viene spiegato, tuttavia, come l’intervento sociale andrebbe collegato alla politica strettamente progressiva.
Antonelli argomenta che stiamo vivendo il passaggio da un’economia fondata sulla produzione di beni mediante grandi impianti ad una incentrata sulla fornitura di (beni e) servizi mediante tecnologie che richiedono minori quantità di capitali. Questo processo conduce, secondo l’autore, ad una lettura distorta delle statistiche – per esempio sopravvaluta l’effetto del calo degli investimenti sulla capacità produttiva – e fornisce un’immagine di declino economico laddove solo di metamorfosi si tratta. In sostanza verrebbe da dire, ricorrendo ad una metafora, che il bruco non sta morendo; sta diventando una farfalla.
In queste condizioni, viene argomentato, la sinistra oscilla fra difesa dei settori deboli e difesa dell’accumulazione ma rimane comunque legata a una visione del sistema economico – il bruco – che è in via di superamento. Quale che sia il terreno di intervento che sceglie, il suo finisce per essere un ruolo conservatore e, oltretutto, incapace di aggregare intorno a sé un ampio consenso.
La prospettiva neo-schumpeteriana di Antonelli è senza dubbio meritevole di attenzione, se non altro perché evidenzia che qualsiasi politica agisce su un processo storico e rispetto a questo va definita. Proprio per questo essa evidenzia le difficoltà interpretative di studiosi che, legati agli schemi teorici del dopoguerra, continuano a confidare nelle economie di scala come strumento per accrescere la produttività e la competitività. Ma una volta riconosciuto questo suo merito, il lavoro di Antonelli ci aiuta davvero a capire il processo in atto e – con del tutto indebita citazione – il “che fare?”?
Sergio Cesaratto ha segnalato come il sistema industriale italiano – in particolare la centralità che in esso vi hanno i distretti industriali – difficilmente corrisponde al quadro da rivoluzione tecnologica che ne fornisce Antonelli. È vero che il tessuto distrettuale sta modificandosi in modo significativo ma in una direzione che difficilmente è quella di una qualche efficienza dinamica. La gerarchizzazione dei rapporti fra imprese e l’irrigidimento delle forme di mercato verso configurazioni oligopolistiche caratterizza anche questi sistemi locali[2]. Se questi processi si associano alla precarizzazione marcata delle condizioni di impiego, non possono non sorgere dubbi sulla correlazione fra processi di trasformazione del tessuto produttivo e istanze progressiste.
Viene da chiedersi se non sia questo il punto di fondo: pur se è ragionevole la tesi di un processo di trasformazione del sistema industriale mondiale nel quale le nuove tecnologie giocano un ruolo importante, è lecito interrogarsi su quale sia la divisione internazionale del lavoro che le imprese italiane perseguono con le loro strategie. Si può, per esempio, ritenere che, prese nel loro insieme, esse preferiscano non misurarsi con i primi arrivati? Che optino per un posizionamento di mercato tale da evitare l’urto con quei concorrenti che godono di un vantaggio tecnologico? Che preferiscano perseguire la competitività scaricando i loro costi privati sui lavoratori e sulla collettività anziché (tentare di) accrescere il valore aggiunto collocandosi sulla frontiera tecnologica? Poco importa che simili strategie di basso profilo possano essere vincenti solo nel breve periodo: le imprese sanno ispirarsi a Keynes più di tanti studiosi e risponderebbero molto serenamente che nel lungo periodo saremo tutti morti. Che poi alcune morti siano anche di breve periodo – come, fuor di metafora, ci informano i dati quotidiani sulle morti bianche – è noto ma lo si può sempre attribuire a cattiva informazione dei lavoratori.
La domanda politica a questo punto è se siano questi gli interessi economico-sociali da aggregare in un progetto progressivo-progressista? La prospettiva di politica che Antonelli prefigura è definita rispetto a certe tendenze o vi si adegua passivamente, trascurando che i processi all’interno della tendenza delineata possono essere molteplici e non tutti auspicabili?
Mi chiedo se il requisito minimo per qualificare in un qualche modo una politica non sia di ricordare che l’efficienza non esiste a priori ma è definibile solo a partire da una data distribuzione. Partendo da questa premessa, rimane vero che la sinistra non è tenuta a difendere gli interessi costituiti o una struttura economica legata al passato. Non vale, tuttavia, l’equazione “progressista = progressivo + equo”, come se i due termini dell’addizione fossero determinabili indipendentemente l’uno dall’altro. La natura del processo “progressivo” dipende dalle scelte che si compiono riguardo all’equità. Una politica si qualifica, allora, se fissa alcuni punti chiari sul piano dei diritti e delle attribuzioni; se dichiara quali preferenze siano lessicografiche e irriducibili alla contrattazione sul mercato. Più prosaicamente, si qualifica se dichiara quali siano le soglie minime per pensioni, istruzione, livello, salubrità e grado di precarietà dell’occupazione, sanità; se definisce quale dispersione del reddito e della ricchezza ritiene accettabile.
Tutto ciò è pregiudizievole della crescita e, ancor più, di quel mutamento strutturale auspicato da Antonelli? Se ci si sofferma sul breve termine ci si può chiedere se per le imprese l’incentivo a rischiare sul terreno dell’innovazione non sia tanto più elevato quanto meno possono ricorrere a strategie di “fuga”, quali la traslazione dei loro costi privati sui lavoratori e la società. In altri termini, è ragionevole ritenere che una politica nella quale l’equità informasse ciò che è “progressivo” forse sarebbe più efficace di una che lasciasse indeterminate – quindi date dallo status quo – le condizioni di partenza.
Più in generale, ci si deve chiedere quale sia il fine ultimo della politica da realizzare. Proprio perché, come suggerisce Antonelli, qualsiasi politica si colloca in un contesto processuale, gli obiettivi che di volta in volta si perseguono non sono altro che gli strumenti per altri obiettivi. Gli uni e gli altri sono le due faccie di un’unica medaglia: il modello di società che si intende realizzare. Da questo punto di vista non ci si può non chiedere se la sicurezza sul posto del lavoro – o qualsiasi altro elemento fra quelli elencati sopra – debba rientrare nella contabilità del progresso oppure no e, nel caso, se vi debba entrare come onere, vincolo, costo oppure come strumento finalizzato a una diversa qualità della vita.
Far discendere in modo lineare le alleanze politiche da un’analisi economica fa tornare alla memoria i vecchi tempi quando si riteneva possibile separare nettamente struttura e sovrastruttura. Allo stesso tempo fa sorgere il dubbio che l’importante categoria concettuale della complessità, che si è fatta entrara dalla porta, venga fatta uscire dalla finestra. Forse può essere più proficuo prendere sul serio la provocazione di Amartya Sen[3] quando, nel riflettere sulla crisi attuale, invita a soffermarsi di meno su Keynes e di più su autori, come Adam Smith e di Arthur C. Pigou, che hanno sottolineato l’importanza di costruire relazioni che trascendono la logica di mercato.

*Professore associato di politica economica, Università di Macerata.

[1] Si veda C. Antonelli, “La politica economica delle coalizioni per progettare il futuro e guidare la crescita”; N. Bellanca, La politica delle coalizioni per la sinistra italiana; S. Cesaratto, L’Italia s’è destra: la base sociale del consenso politico in Italia; N. Bellanca, Come ottenere consenso politico in Italia?.
[2] Si vedano i contributi in F. Guelpa, S. Micelli, I distretti industriali del terzo millennio. Dalle economie di agglomerazione alle strategie di impresa, Bologna, il Mulino, 2007.
[3] A. Sen “Capitalism Beyond the Crisis”, New York Review of Books, 31-03-09.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.