Le nuove frontiere del capitalismo: il mercato delle libertà nel pensiero di Shoshana Zuboff

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Political and social notes

I nuovi padroni dell’economia globale

L’attuale emergenza sanitaria globale da coronavirus ha spinto anche quelli che fino ad ora avevano fatto resistenza a spostare il centro della propria vita dalla realtà materiale a quella virtuale del web. Ciò rende ancor più attuale l’analisi compiuta da Shoshana Zuboff in un libro molto fortunato e molto discusso, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (Luiss University Press, Roma, 2019). La studiosa americana ha descritto nella sua pluriennale ricerca gli assetti della nuova forma assunta dal capitalismo al tempo della rete e delle grandi piattaforme informatiche.

«Il capitalismo della sorveglianza – sono parole della Zuboff – non è una tecnologia; è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Il capitalismo della sorveglianza è una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale, ma non coincide col “digitale”»[1].

La trasformazione tecnologica epocale che ha visto la rete internet entrare prepotentemente nella nostra quotidianità non ha avuto lo sviluppo che i più ottimisti immaginavano. Non è stata lo spazio per nuovi legami sociali globali ispirati al benessere collettivo e alla convivenza pacifica tra popoli diversi e diverse culture, ma ha fornito piuttosto lo strumento indispensabile alla nascita di una nuova forma di organizzazione economica basata sull’accumulazione dei dati da parte dei colossi dell’informatica mondiale.

Come è potuto accadere tutto questo? La svolta, secondo la Zuboff, è stata la scoperta da parte dei grandi protagonisti della tecnologia della rete di poter accumulare enormi fortune non tanto fornendo servizi on line agli utenti della rete, quanto piuttosto accumulando sempre più conoscenze proprio sui miliardi di utenti del web. Accumulare dati serve per conoscere il comportamento delle persone, specie di quelle che vivono connesse alla rete ventiquattr’ore su ventiquattro. Questa enorme accumulazione di dati serve per conoscere le abitudini di comportamento e di consumo di ciascuno di noi, così come i modi di pensare e di agire nonché i nostri modi di riflettere e di decidere in tutti i diversi ambiti di attività della nostra vita, da quello del consumo a quello affettivo, da quello politico[2] a quello economico o a quello sanitario.

Coloro che hanno a disposizione tutti i nostri dati comportamentali saranno in grado di controllare la nostra vita: ci prenoteranno una visita medica prima che noi stessi inizieremo a sentire i sintomi della nostra malattia, così come potranno suggerirci quale prodotto comprare prima ancora che noi stessi ne avvertiamo la necessità, mentre potranno anche capire per quale partito o movimento politico o candidato voteremo nelle elezioni politiche o semplicemente nelle elezioni amministrative del comune in cui risiediamo.

Il capitalismo della sorveglianza, in poche parole, è in grado di assorbire tutta la nostra esistenza e prevedere le nostre scelte con una tale precisione che può sostituirsi completamente a ciascuno di noi sollevandoci da qualsiasi sforzo interpretativo complesso relativo alla realtà che ci circonda.

Tutto questo non avviene con una coartazione della nostra volontà individuale. Non avviene, cioè, attraverso l’imposizione di un comando dall’esterno da parte di chi detiene l’autorità come è stato osservato costantemente nel corso della storia, ma avviene attraverso il nostro consenso spontaneo alla cessione dei dati indotto dalla necessità – effettiva oppure creata, questa sì,  dall’esterno – di aver bisogno dei servizi offerti dalla rete. Chi sarebbe in grado oggi di raggiungere un luogo senza il navigatore? E chi sarebbe in grado di trovare un ristorante o una farmacia o semplicemente un numero di telefono senza chiederlo a Google? Chi potrebbe comprare un biglietto ferroviario o aereo senza utilizzare una delle piattaforme a ciò deputate? E chi sarebbe in grado di fare a meno di facebook o di whatsapp per comunicare con gli altri? O delle varie piattaforme per fare videochiamate o per fare o seguire lezioni a distanza? In questo senso, come afferma acutamente Byung Chul Han, il capitalismo dei big data costituisce l’asse portante di una società psicopolitica, dove il modello foucaultiano del panoptismo biopolitico raggiunge la sua più pregnante e profonda declinazione. I soggetti esercitano le proprie preferenze immettendo i propri dati nel sistema, ma attraverso questa stessa immissione le grandi corporation che gestiscono i dati profilano l’utente, influenzandone le condotte di consumo o politiche successive. Il controllo, nella società psicopolitica, si realizza, dunque, attraverso l’esercizio della libertà[3].

La rete è entrata nella vita di ognuno di noi come strumento necessario. E allo stesso tempo ognuno di noi è diventato l’oggetto di studio da parte di chi controlla la rete.

Così la nuova organizzazione della società che la Zuboff ha chiamato capitalismo della sorveglianza «non ha confini e ignora le vecchie distinzioni tra mercato e società, tra mercato e mondo, tra mercato e persona. Agisce a scopo di lucro subordinando la produzione all’estrazione, rivendicando il controllo esclusivo di umanità, società e politica, andando ben oltre l’ambito convenzionale di un’azienda o del mercato»[4].

In altre parole i colossi del web considerano i singoli individui che utilizzano i loro servizi e le loro piattaforme sulla rete né più né meno che come degli «animali da laboratorio» di cui osservare il comportamento per poterne prevedere gli spostamenti e le scelte future.

Quand’è che si è verificato questo cambio di passo nell’organizzazione capitalistica? Secondo la Zuboff i passaggi fondamentali sono due: il primo è quello di Apple che attraverso l’esperienza di I-pod e I-tunes ha realizzato la dematerializzazione dello scambio commerciale attraverso la vendita in rete di file musicali senza passare attraverso lo scambio di un supporto fisico come ad es. un compact disk.

Ma il secondo passaggio epocale è stato quello realizzato da Google quando, dopo aver creato il più potente motore di ricerca della rete, ha scoperto come sfruttare questo motore a fini commerciali sviluppando non le tecniche classiche di incrocio tra domanda e offerta bensì lavorando sui miliardi di dati inseriti dagli utenti sul motore di ricerca. Secondo la Zuboff «Dal punto di vista operativo, significava che Google avrebbe lavorato sul proprio archivio di dati comportamentali in costante espansione, sulla propria potenza informatica e sulla propria esperienza in merito alla coincidenza tra ads e query. Per legittimare questa novità, venne usata una nuova retorica: Google avrebbe aperto le sue porte alla pubblicità, certo, ma a un tipo di pubblicità “rilevante” per gli utenti. Gli ads non sarebbero più stati linkati a una parola chiave di una query, ma sarebbero stati “targettizzati”, “mirati” a un determinato individuo»[5]. Insomma la forza di Google era quella di disporre di una tale messe di dati e di una tale potenza di elaborazione degli stessi da riuscire a mettere in contatto direttamente i singoli individui con le aziende che fornivano beni e servizi che venivano ricercati su internet da quegli stessi individui attraverso le loro ricerche su Google.

Secondo la Zuboff questa è stata la scoperta fondamentale di Google: «l’idea di poter inviare un determinato messaggio a una determinata persona al momento giusto con un’alta probabilità di riuscire a influenzare davvero il suo comportamento è sempre stata vista come il Sacro Graal della pubblicità»[6].

A questo punto nasce il «capitalismo della sorveglianza» quando Google elabora la strategia di utilizzare tutti i dati raccolti, anche quelli apparentemente insignificanti, per controllare i suoi utenti e per sfruttare quello che la Zuboff chiama il «surplus comportamentale» cioè l’insieme delle attività che ciascuno di noi compie sulla rete conferendo, consapevolmente o inconsapevolmente, dati che possono essere utilizzati solo da coloro che hanno a disposizione le tecniche e la potenza di calcolo capaci di dare loro un’interpretazione economica. 

Così l’intera attività compiuta da ciascuno di noi nel tempo in cui è connesso alla rete diventa un insieme di dati da sfruttare per produrre profitti: «La traslazione di surplus comportamentale dall’esterno all’interno del mercato ha infine concesso a Google di convertire gli investimenti in introiti. L’azienda ha così creato dal nulla e con zero costi marginali una classe di beni basata su materie prime derivate dal comportamento online e fuori dal mercato degli utenti»[7].

Così, secondo Shoshana Zuboff il capitalismo della sorveglianza nasce dall’intuizione dei fondatori di Google che si potevano estrarre dalla rete miliardi di dati che venivano ceduti gratuitamente dagli utenti e che potevano essere utilizzati per poter prevedere il comportamento futuro degli individui. Il capitalismo della sorveglianza si è sviluppato senza sosta tanto che «Gli archivi di surplus comportamentale di Google attualmente comprendono qualunque elemento del mondo digitale: ricerche, email, messaggi, foto, canzoni, chat, video, luoghi, schemi comunicativi,  atteggiamenti, preferenze, interessi, volti, emozioni, malattie, social network, acquisti e così via. Le nostre vite offrono nuovo surplus comportamentale ogni volta che hanno a che fare con Google, Facebook e in genere con ogni aspetto dell’architettura informatica di internet»[8].

Dalla scoperta che si possono produrre profitti con l’utilizzo dei dati, i protagonisti dell’utilizzo della rete si mettono in concorrenza tra loro per acquisire sempre più dati. Anche altri colossi del web che avevano iniziato a produrre profitti fornendo software e servizi, come ad es. Microsoft, iniziano a competere per l’acquisizione di dati. Si scatena così una vera e propria corsa ad acquisire gratuitamente i dati dagli utenti offrendo servizi sempre nuovi e accesso gratuito a nuove piattaforme sulla rete. Per la Zuboff si tratta di un “patto di natura faustiana” che «imponeva agli utenti del world wide web il salatissimo costo della sorveglianza in cambio della gratuità di servizi come la ricerca su Google o la rete sociale di Facebook. Non lo si può più nascondere, visto che ogni consumatore che paga la propria bolletta telefonica mensile si trova anche ad acquistare il privilegio di una rapina digitale, remota e astratta, ma non per questo meno rapace»[9].

Come è stato possibile tutto questo?

Secondo la Zuboff a questo assetto si è arrivati attraverso un preciso disegno da parte dei nuovi capitalisti: «Il capitalismo della sorveglianza non è un caso dovuto all’eccessivo zelo dei tecnocrati, bensì un capitalismo pirata che con astuzia ha imparato a sfruttare le condizioni storiche per raggiungere e difendere il proprio successo»[10].

Ciò è stato possibile perché siamo di fronte, per la prima volta nella storia, a una pericolosissima asimmetria nella conoscenza che vede da un lato i colossi del web i soli in possesso delle tecnologie e del know how necessario a utilizzare i dati che sono stati loro ceduti dagli utenti della rete e, dall’altra, tutti gli utenti che non sono assolutamente in grado di difendersi poiché completamente soggiogati dalla necessità di utilizzare la rete. Da una parte ci sono pochi che hanno una conoscenza sconfinata e dall’altra una moltitudine sterminata di persone che non conosce nulla se non la propria quotidiana esperienza. Anche coloro che intendano mettere in campo forme di resistenza rispetto alla cessione dei dati vengono convinti con le buone o con una pressione sempre più forte a cedere i propri dati che vengono di fatto ‘espropriati’ anche contro la volontà degli utenti. D’altra parte è la stessa Zuboff a ricordare che se solo si volessero leggere tutte le clausole contrattuali, anche di tipo vessatorio, che ogni utente sottoscrive senza saperlo ci vorrebbero ben oltre settanta giorni lavorativi anche per la sola lettura.

Le forme giuridiche di tutela della privacy o le forme di lotta contro modelli di sfruttamento monopolistico dei dati da parte delle grandi imprese del web sono serviti a poco. Il diritto e i giuristi si sono trovati completamente spiazzati dai metodi usati dalle aziende del web, dai loro team legali e dai loro lobbysti.

La difesa dei diritti individuali si è basata su concetti deboli, quali il diritto alla privacy, che sono stati facilmente aggirati attraverso clausole contrattuali che devono necessariamente essere sottoscritte da coloro che vogliano accedere all’utilizzo dei servizi offerti dalle piattaforme e dalle app.

Il capitalismo della sorveglianza, inoltre, ha potuto giovarsi di un periodo di grande enfasi intorno al concetto di libertà per cui la libertà stessa è stata intesa come possibilità da parte delle imprese del web di utilizzare nuove tecnologie per incrementare la loro capacità di fare impresa e di produrre profitti.

Altro elemento che ha favorito il capitalismo della sorveglianza è stata la necessità da parte delle Autorità pubbliche di servirsi anch’esse delle tecnologie informatiche dei colossi del web per tenere l’ordine pubblico. Emblematico il caso dell’attacco alle Torri Gemelle del 2001, in cui le stesse autorità federali del governo degli Stati Uniti hanno avuto bisogno di controllare le comunicazioni avvenute sulla rete per poter individuare i responsabili degli attentati. Insomma una serie di eventi hanno favorito l’affermazione del capitalismo della sorveglianza senza che i vecchi strumenti e le vecchie categorie elaborate dal diritto potessero costituire un serio ostacolo alla sua progressiva espansione.

La Costituzione impotente

Poco può fare il costituzionalismo moderno[11] per limitare il capitalismo della sorveglianza.

Il costituzionalismo moderno si basa, infatti, su un impianto che deriva da un’epoca in cui la limitazione del potere dell’autorità e la tutela delle libertà individuali erano gli elementi centrali. Quella gerarchia dei valori e quei principi funzionavano – e continuerebbero a funzionare ancora oggi – nei confronti dei poteri politici classicamente intesi quelli, cioè, che trovano il loro fondamento nell’uso della forza che deve diventare legittimo. La dimensione del costituzionalismo è dunque quella dell’affermazione delle libertà nei confronti di chi detiene il potere. Soprattutto dopo le due guerre mondiali del secolo scorso il costituzionalismo ha avuto un’ulteriore evoluzione puntando non solo alla difesa delle libertà, ma anche sulla rimozione attiva degli ostacoli che impediscono agli individui liberi di partecipare alla vita politica e sociale.

Ma il problema è che proprio i princìpi del costituzionalismo moderno vengono utilizzati nel modo classico, cioè come strumento di difesa della libertà degli individui e delle minoranze, da individui o minoranze organizzate per difendere la propria libertà e la propria capacità. Ben individua questo punto Shoshana Zuboff: «il fondamentalismo della libertà di parola ha impedito di analizzare attentamente gli eventi senza precedenti che hanno dato vita a un nuovo mercato e ne hanno determinato il successo. La Costituzione viene sfruttata come scudo per una serie di pratiche innovative che sono antidemocratiche per fini e conseguenze, e di fatto distruggono i valori del primo emendamento, finalizzati a proteggere l’individuo da ogni abuso di poteri»[12]. La Zuboff parla della Costituzione degli Stati Uniti, ma è chiaro che anche le Costituzioni europee non riescono a fungere da argine all’esproprio dei dati che avviene sulla rete da parte delle grandi multinazionali del web. Dalla prospettiva del diritto privato la difesa della privacy dei singoli individui contro i colossi della rete si è dimostrata un argine troppo debole. Mentre dalla prospettiva del diritto pubblico gli apparati dei vecchi stati nazionali sono stati sistematicamente svuotati del loro potere e hanno subìto quello che Saskia Sassen definisce un “rimodellamento” del loro modo di operare. Così «lo stato può essere concepito come il rappresentante di una capacità tecnica amministrativa che, al momento, non può essere svolta da nessun altro dispositivo istituzionale. Una capacità inoltre sostenuta da un potere militare e, nel caso di certi stati, di un potere militare globale. Dal punto di vista delle imprese operanti sul piano transnazionale, l’obiettivo è assicurare le funzioni tradizionalmente esercitate dallo stato nell’ambito nazionale dell’economia; garantendo in particolare i diritti di proprietà e i contratti, soltanto ora estesi alle imprese straniere»[13].

Insomma lo Stato non è in grado di imporre la propria autorità alle grandi corporation semplicemente perché è stato trasformato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso – è anche questa una tesi della Sassen – in «un ibrido che non è né totalmente privato né totalmente pubblico»[14]. Gli Stati non hanno più la forza di imporre la propria autorità anche perché le nuove forme di legalità nascono nel mondo del potere privato che trova nelle leggi statali il veicolo e lo strumento per imporsi come standard di comportamento che in qualche modo trasforma e reinterpreta i valori di fondo del costituzionalismo moderno.

D’altra parte anche altri studiosi del potere come Ulrich Beck alla fine degli anni Novanta del secolo scorso avevano già intuito che il processo di globalizzazione avrebbe portato all’indebolimento degli Stati nazionali e della loro sovranità per effetto dell’azione di attori transnazionali talmente forti da condizionare le decisioni politiche degli Stati e metterli gli uni contro gli altri[15].

Oggi ci troviamo dinanzi a uno scenario che può essere definito inquietante perché i dati delle singole persone vengono acquisiti con il loro consenso. Il conflitto che nel corso della storia è stato sempre alla base dell’affermazione del potere all’interno della società è del tutto assente nella società del capitalismo della sorveglianza. O meglio il conflitto è invisibile perché si svolge tra i pochi protagonisti del capitalismo della sorveglianza e cioè le grandi società Google, prima di tutto e poi Facebook, Apple, Twitter, Microsoft, Ibm. Il conflitto politico non si vede perché oggi è nascosto sotto il conflitto tecnologico.

Il potere politico ha perso gradualmente il controllo perché, nel tentativo di mantenere in piedi l’ordine costituito, ha permesso a chi ne aveva la capacità tecnologica di prendersi tutti i dati che gli servissero per far denaro purché tali dati potessero essere utilizzati anche da chi deteneva il potere politico. Da questo compromesso indotto inizialmente dalla necessità di combattere la minaccia terroristica si è giunti, poi, a una diversa fase in cui accanto al potere economico anche quello politico sta disordinatamente, ma assai rapidamente, passando nelle mani di chi detiene la possibilità di accumulazione e di controllo dei dati senza che neppure i governi possano organizzare una sufficiente resistenza.

E allora non sorprende che le domande fondamentali che si pone Shoshana Zuboff siano le seguenti: «Chi sa? Chi decide? Chi decide chi decide?». Anche la Zuboff dunque si pone la domanda classica del potere Quis custodiet ipsos custodes? Qual è oggi il vero luogo del potere?

Oltre il capitalismo della sorveglianza

In un bel film del 2017 intitolato The Circle, interpretato da Tom Hanks e Emma Watson, alla fine la protagonista scopre il gioco di chi controlla la rete: rivela che le vite di tutti gli iscritti a The Circle sono nelle mani di due persone che si arricchiscono infinitamente proprio utilizzando i dati di chi si iscrive alla piattaforma.

La rivelazione avviene plasticamente sul palcoscenico di un grande teatro e nel web attraverso la trasmissione a tutti gli iscritti della corrispondenza privata dei padroni della rete che svela le vere finalità dei “controllori”. Nel film la protagonista, dopo aver assistito alla morte del suo più caro amico che si ostinava a non voler avere nulla a che fare con la rete, riesce a capire che l’unico modo per tornare a vivere è quello di rinunciare al web per tornare alle uniche relazioni vere, quelle della vita reale.

Anche Shoshana Zuboff lancia un grido d’allarme perché il capitalismo della sorveglianza mette in pericolo non solo la democrazia come l’abbiamo vista fino ad ora, ma anche la sovranità del singolo individuo che rischia di scomparire assorbita dalla rete e soggiogata dal nuovo potere dei padroni dei big data.

La Zuboff, che insegna psicologia ad Harvard, è convinta che lo strumento più utile per salvare la nostra democrazia e le nostre singole identità sia il diritto, auspicando il ritorno a un ideale di giustizia che potrebbe trovare proprio nel diritto una scala di valori diversa da quella di un’economia di rapina come il capitalismo della sorveglianza.

Eppure dalla prospettiva del sociologo del diritto non si può non considerare che il diritto ha dovuto subìre in questi anni una vera e propria esondazione della razionalità economica che, travalicando i propri confini, ha trovato proprio nel diritto l’infrastruttura più utile per invadere altre sfere del sociale.

Così un ritorno al diritto deve costituire prima di tutto il ripristino di regole costituzionali in grado di imporre dei limiti al potere economico. Il capitalismo della sorveglianza, infatti, non è che una sorta di assetto “neofeudale” in cui il potere politico «non esiste di per sé ma è soltanto una funzione del potere economico» come ha insegnato molti anni fa un grande studioso del potere come Franz Leopold Neumann[16].


[1] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019, p. 25.

[2] Si veda anche M. Calise, F. Musella, Il principe digitale, Laterza, Roma-Bari, 2019.

[3] B. Han, Psicopolitica, Nottetempo, Roma, 2017, passim.

[4] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 529.

[5] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 84.

[6] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 88.

[7] Ivi, p. 104.

[8] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit.,  p. 139.

[9] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 183.

[10] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 27.

[11] Sul punto si veda G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari, 2013.

[12] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, cit., p. 121.

[13] S. Sassen,  Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2008 [Titolo originale: A Sociology of Globalization, Oxford, W.W. Norton & Company, Inc., 2007], p. 37.

[14] Ivi, p. 73.

[15] Cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma, 1999.

[16] Sul punto mi si consenta di rinviare al mio S. Marotta, Le nuove feudalità. Società e diritto nell’epoca della globalizzazione, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2007.

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