Contenuti e rischi dell’accordo sulla riforma della contrattazione

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Political and social notes

Il 15 aprile Uil e Cisl, ma non la Cgil, hanno sottoscritto un accordo per l’attuazione delle linee di riforma della contrattazione già da tempo in discussione e indicate in un documento sottoscritto nel gennaio scorso. Vediamo gli elementi di novità di questo accordo rispetto a quello del 1993, che ha finora regolato la contrattazione tra le parti, per poi riflettere su alcuni dei suoi possibili effetti sul salario reale e produttività.

I principali contenuti dell’accordo

Quadro generale

Come già nell’accordo del 1993, si prevedono due livelli di contrattazione, uno nazionale ed uno aziendale oppure territoriale, ma viene ora stabilito che non si possa contrattare sulla stessa materia in entrambi i livelli.
La durata di validità dei contratti viene portata da due a tre anni per entrambi i livelli di contrattazione. Durante il periodo di discussione sul rinnovo, per una durata di sette mesi, è prevista una “tregua” sindacale e non dovranno essere indetti scioperi. La stessa norma si applica, per un periodo di tre mesi, nella fase di rinnovo dei contratti aziendali.
E’ prevista la derogabilità da quanto stabilito nel contratto nazionale in aree territoriali interessate da crisi aziendali o per finalità di sviluppo economico delle aree stesse.
Spetterà inoltre alla contrattazione collettiva definire forme di bilateralità volte al funzionamento di servizi integrativi del Welfare, che saranno incentivate da benefici fiscali – in altri termini, potranno essere costituiti enti aziendali e sindacali per la gestione, ad esempio, di fondi pensione integrativi o altri servizi.

Adeguamento dei salari all’inflazione

Questo aspetto rimane affidato alla contrattazione nazionale, come già in precedenza. Il riferimento non sarà più però all’inflazione programmata, ma alla inflazione prevista elaborata da un “soggetto terzo di riconosciuta autorevolezza e affidabilità” sulla base dell’andamento dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo (IPCA), depurato dall’andamento dei prezzi dei beni energetici. Tale inflazione prevista verrà applicata non alla retribuzione di fatto dei lavoratori, ma ad un valore computato sulla base dei salari contrattuali.
Lo stesso “soggetto terzo” dovrà verificare allo scadere del contratto l’entità della eventuale differenza tra inflazione prevista ed effettiva. Se tale differenza è “significativa” e quindi dovrà essere recuperata, verrà deciso da un “Comitato paritetico interconfederale”. L’eventuale recupero si applicherà ai soli minimi tabellari.

Contrattazione di secondo livello

Già l’accordo del 1993 prevedeva che la contrattazione a livello aziendale dovesse consentire di contrattare incrementi del salario reale legati a incrementi della produttività. La contrattazione aziendale ha però sinora riguardato solo una minoranza di imprese, per lo più di grandi dimensioni. Questo accordo si propone di incentivare ed estendere il ricorso alla contrattazione aziendale attraverso benefici fiscali e contributivi sulla parte del salario contrattata in azienda, a condizione che questa sia costituita da un premio variabile e agganciato ad un qualche indicatore della produttività, redditività, o efficienza dell’impresa stessa.
Per i lavoratori che allo scadere del contratto non avranno ottenuto alcun reddito aggiuntivo rispetto al salario contrattuale il contratto collettivo nazionale dovrà prevedere un importo “di garanzia retributiva” che verrà corrisposto al termine del periodo di vigenza del contratto.

Quali sono le possibili conseguenze del nuovo quadro di regole contrattuali?

Dal punto di vista del quadro generale che si prospetta gli aspetti che suscitano preoccupazione sono la sospensione del diritto di sciopero nella fase di rinnovo del contratto; la derogabilità da quanto previsto dal contratto collettivo, con la possibilità che accordi locali causino uno scivolamento generalizzato al ribasso dei salari rispetto al contratto collettivo nazionale; la gestione congiunta di servizi, che secondo alcuni potrebbe prefigurare un cambiamento della natura e funzione del sindacato stesso.
Per quanto riguarda il recupero dell’inflazione, il cambiamento dell’indice è volto a fornire una stima più realistica dell’andamento dei prezzi, ma non sembra di grande impatto: a marzo 2009 l’IPCA è 108,4, mentre l’indice sinora utilizzato (FOI), è 107,7 (con base 2005=100). Un elemento positivo può essere visto nella sostituzione dell’inflazione programmata – che appunto programmaticamente è stata inferiore a quella effettiva – con l’inflazione prevista. Questa viene però depurata dagli effetti delle variazioni dei prezzi dei beni energetici. Così, la perdita di potere di acquisto e l’onere di evitare che aumenti del prezzo dei beni energetici si traducano in inflazione ricadono per intero sui lavoratori: nessun vincolo analogo infatti viene prospettato per quanto concerne l’aumento di prezzi e tariffe. Gli incrementi legati all’inflazione prevista e il recupero di eventuali divergenze tra questa e l’inflazione effettiva non vengono applicati all’intera retribuzione ma alla sola parte corrispondente a valori contrattuali. Il recupero della differenza non è garantito e avviene con ritardo, dato l’allungamento del periodo di validità dei contratti. Complessivamente quindi, l’accordo non garantisce la difesa del potere d’acquisto dei lavoratori (cfr anche l’articolo di Roccella del 19 dicembre 2008).
La presenza di benefici fiscali e contributivi tende a favorire il secondo livello di contrattazione in alternativa a quella nazionale – anche se è difficile dire in che misura possa davvero estenderlo a una platea molto ampia di lavoratori, vista anche la piccola dimensione delle imprese italiane. I benefici fiscali hanno però un prezzo in termini di perdita di progressività e di volume delle entrate fiscali e contributive (e quindi possono preludere a successivi tagli delle prestazioni pubbliche) senza che vi siano reali garanzie che essi vadano davvero a beneficiare anche i lavoratori. Infatti, se prima un incremento di salario effettivo netto di, poniamo, 50 euro ne costava all’impresa 90 al lordo del cuneo fiscale, con le nuove regole non c’è alcun motivo di escludere che l’impresa decida di erogare, ed i lavoratori riescano ad ottenere, solo ed esattamente lo stesso incremento netto di 50 euro, ma senza (o con minori) costi aggiuntivi per l’impresa. Si promette ai lavoratori un alleggerimento fiscale sui salari (di cui ci sarebbe grande bisogno), ma in realtà, per il modo in cui esso è disegnato, ai lavoratori potrebbero, alla fine, toccare soltanto i tagli della spesa pubblica.
La prevalenza del livello di contrattazione aziendale poi tende a determinare un aumento delle differenze tra lavoratori, con un peggioramento relativo delle condizioni dei lavoratori più deboli senza con ciò favorire un miglioramento assoluto di quelle degli altri[1]. Inoltre, insieme alla norma sulla derogabilità, rende la capacità contrattuale dei lavoratori estremamente vulnerabile a condizioni sfavorevoli, come l’elevata e crescente disoccupazione che vedremo nel prossimo futuro, mentre l’elemento di “garanzia retributiva” previsto dal contratto collettivo nazionale, appare inadeguato (su questo punto si rinvia all’articolo di Roccella).
Colpisce poi molto che l’accordo vincoli “il salario di produttività” ad essere contrattato in azienda e a configurarsi come premio variabile. Perché la logica economica sottostante a questo è in stridente contrasto con gli obiettivi che si dice di voler perseguire.
L’aumento di produttività che è davvero rilevante per la competitività delle imprese (che si afferma di voler promuovere) è un aumento che possiamo definire strutturale, legato cioè a innovazioni tecniche e organizzative, o di qualità del prodotto. Agganciare il salario a tali cambiamenti strutturali significa stabilire incrementi permanenti del salario reale ad essi collegati. Ed è infatti proprio questo tipo di legame tra salario e produttività, da realizzare a livello settoriale o aggregato, non di singola azienda, che è stato spesso proposto da autorevoli economisti[2], in quanto rappresenta allo stesso tempo un incentivo per i lavoratori a collaborare ai processi innovativi e un elemento di equità distributiva, e favorisce l’equilibrio tra produzione e domanda di beni a livello macroeconomico. Ma se il legame salari-produttività si realizza a livello di singola azienda gli effetti sono perversi, in quanto ciò consente alle imprese meno innovative di restare sul mercato grazie alla possibilità di pagare salari più bassi, invece che essere costrette dalla concorrenza ad adeguarsi agli standards delle imprese più efficienti.
Insistere sul carattere aziendale e variabile del premio implica una logica volta a collegare i salari alle variazioni cicliche della produttività dovute alle fluttuazioni della domanda dei prodotti, oppure alle variazioni di produttività dovute ad una intensificazione dell’impegno e dei ritmi di lavoro a parità di tecnologia utilizzata. Tutto ciò con la conseguenza di spostare, del tutto impropriamente, dall’impresa ai lavoratori i rischi legati alle fluttuazioni cicliche e l’onere di migliorare la competitività.
Il nuovo sistema di regole non appare quindi in grado di perseguire i suoi obiettivi dichiarati, e cioè di creare le condizioni per l’aumento dei salari reali e della competitività delle imprese, e sembra piuttosto che, se si affermasse, potrebbe determinare effetti esattamente contrari.

 

[1] Brancaccio, Una controriforma per i contratti, La crisi del pensiero unico, Franco Angeli 2009; si veda anche l’articolo di Forges Davanzati del 22 aprile 2009.
[2] Cfr P. Sylos Labini, Salari, Inflazione, Produttività, Laterza, 1972.

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