Flessibilità o domanda aggregata? L’andamento dell’occupazione in Italia

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Paper

Leggi abstract

Many economists share the view that it is market rigidities that cause high unemployment. The empirical evidence presented in this study and the econometric model constructed based on the “effective long-term demand” approach seem however to confirm that it is the production trend that causes variations in employment and not vice versa.

Il tasso di disoccupazione italiano continua ad essere a livelli molto elevati, e negli ultimi anni ha raggiunto i massimi storici da quando l’Istat ne effettua la rilevazione. Il governo d’altra parte continua a cercarne la cura nella riduzione delle tutele e diminuzione del costo del lavoro.

Il progressivo processo di deregolamentazione del mercato del lavoro e di diminuzione delle tutele dei lavoratori, attuato in molti paesi europei, tende però a coincidere proprio con un aggravarsi della situazione occupazionale e potrebbe far sospettare che le suddette politiche possano invece avere effetti opposti, cioè favorire la disoccupazione.

In effetti, dal punto di vista puramente teorico, tra gli economisti che condividono le ipotesi neoclassiche, che essendo la maggioranza definiremo qui “mainstream”, esiste un largo consenso intorno alla possibilità che siano le rigidità del mercato del lavoro a causare l’alta disoccupazione. Tale posizione non è però universalmente accettata e altri economisti ritengono che le cause dell’alta disoccupazione vadano ricercate nella carenza di domanda aggregata, non solo come fenomeno ciclico, ma anche in media, su periodi lunghi di tempo. Chiameremo questa posizione teorica per brevità, “keynesiana”, nonostante questo termine possa generare qualche ambiguità.[1]

Inoltre la tesi delle rigidità è fortemente messa in discussione da diverse indagini empiriche. Come dimostra l’ampio studio empirico di Baker, Glyn, Howell e Schmitt (2004), non sembrerebbe esservi alcuna relazione chiara tra disoccupazione e deregolamentazione del mercato del lavoro. Un aspetto di questo è mostrato nella figura 2, che mette in luce l’assenza di qualsiasi relazione tra variazioni del ‘tasso di disoccupazione di equilibrio non inflazionistico’ (NAIRU), stimato per i vari paesi dalle istituzioni internazionali, e la deregolamentazione attuata nel mercato del lavoro.

fig.1 stirati

fig.2 stirati

Gli stessi autori sostengono che i loro risultati “forniscono poco supporto alla visione largamente accettata delle rigidità del mercato del lavoro” (Baker ed altri, 2004: p. 104) e che tali risultati quindi “suggeriscono un enorme divario tra la fiducia con cui le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sono state affermate e l’esistenza di prove empiriche che effettivamente la regolamentazione del mercato del lavoro sia la causa della disoccupazione” (Baker ed altri, 2004: p. 108).

Anche gli stessi autori “mainstream” fanno fatica a dimostrare la dipendenza della disoccupazione dalle cause da loro ipotizzate ed anzi il più delle volte sono costretti ad ammettere che i risultati emersi siano misti ed insoddisfacenti (si veda ad esempio Nickell 1997, Blanchard e Wolfers 2000 e Fitussi ed altri 2000).

Al contrario da un punto di vista ‘keynesiano’, così come definito sopra, non sembrerebbe esservi alcuna difficoltà nello spiegare come mai l’implementazione delle suddette politiche non sia efficace contro la disoccupazione. Infatti la diminuzione delle tutele dei lavoratori, ha diminuito ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori, accentuando la caduta della quota dei salari sul PIL. Poiché la propensione al consumo dei lavoratori è notoriamente più alta di quella delle altre categorie di reddito, la redistribuzione in loro sfavore porta ad una diminuzione dei consumi che a sua volta avrebbe contribuito, insieme alle altre misure di austerità, alla caduta della domanda aggregata, quindi del reddito e dell’occupazione.

Nell’intento di verificare se la visione appena enunciata sia realistica e utile alla comprensione delle vicende italiane, proponiamo un’analisi empirica relativa alla relazione tra domanda aggregata e livello di occupazione.

Innanzitutto notiamo che l’occupazione ha una relazione diretta con la crescita del PIL.

fig.3 stirati

 

Si osserva l’esistenza di un ritardo della variazione dell’occupazione rispetto alla variazione del PIL. Questa potrebbe essere dovuta da un lato al fatto che le aspettative degli imprenditori, su cui si basa la scelta di assumere o licenziare lavoratori, sembrano basarsi principalmente sull’andamento pregresso dell’economia, e dall’altro all’andamento pro-ciclico della produttività, fenomeno ampiamente noto nella letteratura economica come uno dei corollari della legge di Okun. In ogni caso, questo ritardo sembra confermare che sia l’aumento della produzione a provocare la crescita dell’occupazione e non viceversa, come vorrebbe la teoria mainstream.[2]

Accertata la relazione tra occupazione e produzione, si è verificata la relazione tra quest’ultima e la domanda aggregata. Poiché tra alcune importanti componenti della domanda aggregata (ad esempio consumi e investimenti) e andamento del PIL c’è interdipendenza, al fine di analizzare una relazione di causalità si è scelto di isolare due componenti ‘autonome’ della domanda aggregata, esportazioni e spesa pubblica, che non dipendono dal PIL corrente ma dall’andamento dell’economia di altri paesi e da scelte politiche rispettivamente. Gli andamenti sono illustrati nella figura 4.

 

fig.4

Anche in questo caso il grafico è coerente con la visione “keynesiana”, infatti il PIL e la somma tra esportazioni e spesa pubblica variano congiuntamente. Il fatto che le due componenti autonome siano prevalentemente indipendenti dal PIL, sembrerebbe suggerire che sia proprio il PIL a dipendere da queste due variabili e più in generale dalla domanda aggregata.

Con l’intento di approfondire tali relazioni si è costruito un modello econometrico ispirato all’approccio della “domanda effettiva di lungo periodo” (si veda Stirati, Cesaratto e Serrano (2003)). Caratteristica di questo approccio è che il moltiplicatore ha l’effetto di amplificare e propagare nel tempo gli aumenti delle componenti autonome della domanda aggregata, con la peculiarità che agli effetti moltiplicativi dovuti al consumo si aggiungono anche quelli indotti dagli investimenti.

La specificazione è la seguente[3]:

eq

La variabile dipendente è il saggio di crescita dell’occupazione L, i β sono i coefficienti stimati che misurano l’effetto di ciascuna variabile sul tasso di crescita dell’occupazione, ferme restando le altre variabili. Le variabili di cui si misurano gli effetti sono: tasso di crescita della spesa pubblica al netto degli interessi sul debito (G), tasso di crescita delle esportazioni (EX), la elasticità[4] dei consumi al reddito(c), la elasticità delle tasse rispetto al reddito (t), la elasticità delle importazioni sul reddito (m), il rapporto capitale prodotto (k), le variazioni del prodotto per lavoratore (R). Sono state omesse alcune variabili che risultavano non significative (la crescita dei consumi autonomi e degli investimenti autonomi, anche per la difficoltà ad individuare dei dati adatti a rappresentarle).

Qui sotto, nella tabella 1, sono presentati i risultati ottenuti sulla base di dati annuali che vanno dal 1982 al 2011. I segni dei coefficienti sono tutti coerenti con le attese del modello teorico e si conferma significativo il ruolo di spesa pubblica ed esportazioni nel determinare effetti positivi sulla occupazione. La tabella propone anche i risultati dello stesso modello relativo però alle medie mobili triennali delle stesse variabili, elaborato al fine di catturare gli effetti di lungo periodo, sui valori medi delle grandezze, piuttosto che gli effetti ciclici di breve periodo.

Anche qui i segni dei coefficienti significativi sono quelli attesi e perciò risultano compatibili con la particolare teoria “keynesiana” qui presentata. Si noti che nel caso delle medie mobili triennali gli effetti di variazioni della spesa pubblica risultano statisticamente più significativi e di entità maggiore (ciò è dovuto probabilmente al fatto che gli effetti si dispiegano su un periodo di tempo maggiore del singolo anno). Questo significa che in media nel periodo considerato, a parità di altre circostanze, un aumento di spesa pubblica del 10% determina un aumento dell’occupazione complessiva del 3,5 % (pari grosso modo a 850 mila lavoratori a partire dalle dimensioni attuali dell’occupazione) e, naturalmente viceversa in caso di riduzione della spesa. Si noti inoltre che si parla qui di variazioni percentuali del volume di spesa pubblica, e non di variazioni del suo rapporto con il PIL: il PIl infatti varia, nella stessa direzione, al variare della spesa pubblica.[5] Le variazioni della produttività del lavoro hanno come atteso un effetto negativo: infatti a parità di crescita della domanda aggregata, un aumento della produttività riduce la quantità di lavoro necessaria per incrementare la produzione. La bontà di adattamento del modello ai dati è discreta nel primo caso e molto alta nel secondo.[6]

Per quanto questa analisi quantitativa possa essere migliorata tramite l’utilizzo di metodi econometrici più raffinati e di serie storiche più lunghe, le evidenze qui prodotte sono compatibili con la teoria dell’occupazione in questione.

In termini di politica economica, le deduzioni che possono essere tratte da questa analisi bocciano le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e di austerità portate avanti dall’attuale e dai precedenti governi e suggeriscono invece la necessità di politiche fiscali espansive e di una decisa redistribuzione, diretta e indiretta, verso i redditi bassi. Direttamente, attraverso aumenti salariali e incrementi nelle tutele dei lavoratori che modifichino, in favore dei salariati, gli ormai del tutto sproporzionati rapporti di forza. Indirettamente, invece, invertendo la rotta delle misure di austerità.

 

tab.1 stirati

 

Bibliografia

Baker, D. ed altri (2004) Labor Market Institution and Unemployment: A Critical Assessment to the Cross-Country Evidence. In Fighting unemployment: the limits of free market orthodoxy. Oxford University Press

Blanchard, O. e Wolfers, J. (2000) The role of shocks and institutions in the rise of European unemployment: the aggregate evidence. The Economic Journal, 110(462), 1-33

Fitoussi, J. ed altri (2000) Roots of the recent recoveries: labor reforms or private sector forces? Brookings Papers on Economic Activity, 2000 (1), 237-281

Nickell, S. (1997) Unemployment and labor market rigidities: Europe versus North America. The Journal of Economic Perspectives, 11(3), 55-74

Stirati, A. Cesaratto, S. e Serrano, F. (2003) Technical change, effective demand and employment. Review of Political Economy, 15(1), 33-52.

Testa, L. (2014) Le cause della disoccupazione: un’alternativa alla visione dominante. Tesi di laurea magistrale, Università Roma Tre.

 

 

 

 

 

 

[1] Vi sono infatti diverse correnti di pensiero che si definiscono – a torto o a ragione – ‘keynesiane’. Per semplificare, si possono dividere tra coloro (che di fatto fanno parte del mainstream) che ritengono che la carenza di domanda aggregata possa causare disoccupazione solo nel ciclo economico (nel breve periodo) mentre nel lungo periodo essa non ha influenza né sulla crescita né  sui livelli medi di disoccupazione; e coloro che invece argomentano che la domanda aggregata non solo regoli i livelli di produzione e occupazione a breve termine, ma in conseguenza di ciò sia anche il motore degli investimenti e della crescita nel lungo periodo.
[2] Si osserva anche un aumento sostanziale della variabilità dell’occupazione successiva al 1990. Questo sembra plausibilmente dovuto ai cambiamenti legislativi avvenuti proprio in quegli anni, la cui tendenza è rimasta immutata fino ad ora. In particolare la legge 233 del 1991, che facilitò i licenziamenti collettivi, e il “pacchetto Treu”, che introdusse le forme di lavoro flessibile, hanno diminuito sostanzialmente la cosiddetta protezione all’impiego.
[3] Per la descrizione dettagliata del modello si rimanda a Testa (2014) Le cause della disoccupazione: un’alternativa alla visione dominante. Tesi di laurea magistrale, Università Roma Tre.
[4] La elasticità ci dice quanto varia, in percentuale, una grandezza rispetto alla variazione di un punto percentuale di un’altra. Quindi l’elasticità dei consumi al reddito è la misura di quanto crescono in percentuale i consumi al crescere di un punto percentuale del reddito (PIL). Lo stesso vale per le elasticità riferite a tasse (le entrate fiscali aumentano all’aumentare del PIL) e importazioni. Mentre una elevata elasticità dei consumi al reddito ha effetti espansivi su reddito e occupazione una elevata elasticità di tasse e importazioni ha effetti negativi su PIL e occupazione.
[5] Per esemplificare: con un valore del moltiplicatore del reddito pari a 1 (una stima molto prudente e probabilmente inferiore al dato reale), ed un rapporto iniziale tra spesa pubblica e PIL pari al 40% (grosso modo come in Italia) un aumento del 10% della spesa pubblica implicherebbe un aumento del rapporto spesa pubblica-PIL di due punti (dal 40 al 42%).
[6] Inoltre sia i test di Durbin-Watson che i test di White sembrano escludere la presenza di autocorrelazione e, più in generale, di eteroschedasticità.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.