In questo saggio, esporremo una proposta di policy per un accordo quadro di contrattazione al secondo livello, con la fissazione ex-ante di obiettivi di produttività a cui legare le forme di salario variabile. Chiameremo tale proposta “Patto per la Produttività Programmata”. L’obiettivo è cercare di frenare il calo della produttività a cui è soggetto il nostro paese dalla metà degli anni novanta almeno. Questa proposta è nata all’interno di un dibattito iniziato nel 2009 con il contributo di Fadda (2009) e poi di altri economisti con proposte simile (Ciccarone 2009, Messori 2012, Antonioli e Pini 2013, Tridico, 2014).
La ricerca di un accordo di contrattazione è alquanto difficile per diversi motivi. Primo perché l’accordo deve essere condiviso tra tre attori: Governo, Sindacato e Parte Industriale. Poi perché questi 3 attori, molto spesso, al loro interno, hanno opinioni divise, ed infine perché c’è molto disaccordo teorico e molta divergenza negli studi empirici rispetto alla relazione tra produttività e accordi di contrattazione.
Proprio per questo motivo si sta affermando recentemente una nuova tendenza, che parte innanzitutto dalla constatazione che la produttività non è esogena ma dipende dalla domanda. Questo significa una cosa ben precisa, la produttività dipende da investimenti, composizione settoriale e altri fattori di contesto socio-economici (quali infrastrutture, servizi, istituzioni, ecc). Seguendo questo approccio, che si rifà ad economisti come Keynes, Kaldor o Sylos Labini, potrebbe essere utile persino aumentare i salari piuttosto che ridurli. Anzi, la riduzione dei salari, spingerebbe le imprese verso la facile scelta di intensificare gli investimenti labour intensive, sfruttando il più basso costo del lavoro, piuttosto che la scelta di investire in investimenti capital intensive, quindi in nuove tecnologie che porterebbero a maggiori guadagni di produttività. Nel lungo periodo, la riduzione dei salari potrebbe quindi portare a più bassi livelli di produttività.
Seguendo questo approccio, potrebbe essere molto utile fissare la produttività del lavoro in termini di obiettivi programmatici, come se si trattasse di una variabile parametrica tipo l’inflazione o il tasso di interesse (Fadda, 2009; Ciccarone, 2009; Messori 2012; Antonioli e Pini 2013).
Fissare la produttività in termini programmatici tuttavia costringe gli attori di cui sopra a mantenere gli accordi, a fare i necessari investimenti in innovazione, a migliorare il capitale umano, a migliorare le infrastrutture e l’organizzazione delle imprese, a potenziare l’amministrazione pubblica e i servizi alle imprese, a diminuire i costi di transazione, ed ad aumentare l’efficienza del lavoro. In questo modo tutti i fattori che contribuiscono a determinare la produttività sono messi in azione per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Fissare un livello di produttività infatti ha una valenza distributiva, cara ai sindacati; rappresenta un incentivo per le imprese a fare investimenti tecnologicamente avanzati; ed è allo stesso tempo una disciplina per lo stato e le sue amministrazioni per migliorare le infrastrutture di sostegno alle imprese, per raggiungere maggiori obiettivi di sistema, e quindi maggior reddito utile anche per le casse dello stato. In questo “gioco cooperativo” tutti gli attori hanno allo stesso tempo incentivi e guadagni. E tutti hanno perdite commisurate, quindi sanzioni se non si rispettano gli accordi e se non si raggiungono gli obiettivi prestabiliti.
L’attuale sistema vigente di accordo sugli schemi contrattuali (conseguente all’assetto del Protocollo del 1993, rielaborato in un nuovo accordo quadro nel gennaio 2009, e poi modificato dal recente accordo nel novembre 2012)[1] assegna un ruolo importante alla contrattazione di secondo livello: cioè incentiva la contrattazione decentralizzata, attraverso sconti fiscali e decontribuzione alle imprese che la attuano. Tuttavia in questo modo ad essere incentivata non è direttamente la produttività ma appunto la contrattazione decentralizzata. Mentre gli aumenti di produttività dovrebbero essere una conseguenza degli accordi di secondo livello, questa relazione, come si può osservare empiricamente è tutt’altro che scontata. Questa del resto è la tendenza dell’agenda di tutti i governi italiani dall’accordo di luglio del 1993 in poi, cioè da quando, con il Protocollo del 1993 si è introdotta la contrattazione di secondo livello, riducendo il ruolo del Contratto Collettivo Nazionale (CCNL) al fine di favorire la riduzione dell’inflazione, programmare l’inflazione e far aumentare la produttività.[2]
Il nuovo accordo del novembre 2012, a parte il problema della scarsa possibilità di avere un impatto positivo sulla produttività, presta il fianco anche a fenomeni tipicamente italiani di comportamenti perversi e collusivi tra imprese e lavoratori che, al secondo livello di contrattazione, al fine di ottenere di più in busta paga (i lavoratori) e di aumentare la parte di salario defiscalizzato e non soggetto a contributi (le imprese) si spartiscono inesistenti incrementi di produttività. Il problema centrale, l’aumento vero della produttività, quindi rimane da risolvere e per questo alcuni economisti hanno più volte sostenuto la necessità di pre-fissare direttamente i target di produttività. In tale direzione, l’ultima in ordine cronologico, è la proposta di Antonioli e Pini (2013) il quale propone un target di produttività programmata già da inserire nel CCNL, con una quota per i salari inferiore all’obiettivo programmato, ma tenendo conto dell’inflazione depurata dall’inflazione importata per via dei prodotti energetici.
Sebbene interessante, questa proposta rimane lontana dalle cose politicamente possibili, almeno finché rimane in vigore l’accordo di luglio del 1993 e i successivi provvedimenti per gli assetti contrattuali, i quali, come target, nel contratto collettivo, hanno principalmente l’inflazione programmata piuttosto che la produttività programmata. Inoltre in Italia è molto diffuso il salario di risultato, anche se, come notavamo prima, non sempre per motivi meritori (Tridico, 2014). Di conseguenza, basterebbe legare questo fenomeno (la diffusione del salario di risultato) agli incrementi di produttività (non fittizi), nel senso di prefissare livelli di produttività, secondo la proposta Pini, ma al secondo livello, con sanzioni, prevalentemente prefigurabili con aumenti salariali comunque da elargire nel caso di non raggiungimento di tali obiettivi.
Pertanto, proponiamo qui una nuova forma di assetto contrattuale, corretta proprio rispetto alla sede di accordo, che necessariamente deve essere, per gli assetti attualmente vigenti, il secondo livello (una prima versione di tale proposta si ritrova in Tridico 2014[3]). Il CCNL rimane il principale accordo di categoria che garantirà il potere di acquisto dei lavoratori secondo la dinamica generale del reddito del paese e dell’inflazione. Nella nostra proposta si conferma il principio della programmazione ex-ante della produttività come target pre-determinato al fine di favorire comportamenti virtuosi da parte della parti in causa:
- Il Governo: tramite provvedimenti strutturali che mirino ad aumentare la produttività del sistema attraverso miglioramenti infrastrutturali, amministrativi, istituzionali al fine di diminuire i costi di transazione e favorire lo scambio, la concorrenza, l’imprenditorialità e l’innovazione, ed eliminare monopoli, rendite, posizioni dominanti e rent-seeking.
- Le parti datoriali: attraverso il perseguimento di investimenti innovativi, gli incrementi di spese per la ricerca e lo sviluppo, il reinvestimento di profitti.
- Le parti sindacali: attraverso il rispetto degli accordi presi, la disciplina dei lavoratori, e il rispetto di principi di rappresentanza sindacale.
In sostanza, la proposta che si avanza in questa sede mira a incentivare la programmazione della produttività, da effettuarsi con cadenza biennale, al secondo livello, e propone una verifica ex post in mano al governo, a livello locale, secondo la seguente sequenza:
- Le imprese che aumentano la produttività, in linea con gli obiettivi pre-fissati al secondo livello di contrattazione con le parti sindacali, avranno una diminuzione in tasse e contributi del salario variabile (o di produttività) che distribuiranno al secondo livello. Questa quota salariale è anche essa prefissata in una quota dell’obiettivo programmato.
- Le imprese che non aumentano la produttività secondo gli obiettivi programmati non potranno accedere a defiscalizzazione e decontribuzione e perderanno la quota del salario variabile (comunque da elargire) pre-stabilito nel 2° livello di contrattazione, rispetto all’obiettivo programmato di produttività.
- Un’agenzia territoriale indipendente, nominata dal Ministero del Lavoro, su scala provinciale, valuterà il raggiungimento degli obiettivi di produttività e la distribuzione della quota salario.
La proposta àncora l’aumento dei salari alla produttività programmata mentre àncora gli aumenti di profitti alla produttività effettivamente realizzata, in modo che i lavoratori, avversi al rischio, si assicurino degli aumenti costanti pre-fissati in sede di contrattazione secondaria, mentre le imprese, essendo maggiormente più propense al rischio, possano ottenere dei guadagni maggiori in caso di performance superiori a quelle pre-fissate. In questo caso tuttavia la parte di aumento superiore a quella atta a compensare i profitti secondo la norma di distribuzione, va obbligatoriamente reinvestita in investimenti tecnologicamente avanzati, tali da procurare ulteriori guadagni di produttività.
Da ciò discende, a livello micro, una formalizzazione generale della distribuzione del reddito ottenuta a partire dagli aumenti di produttività pre-fissati (p) e da quelli effettivamente realizzati (R), decisi nel secondo livello di contrattazione, che possiamo racchiudere nella seguente formulazione generale:
[1] αp +(1 – α)R, dove: α < 1
Con le rispettive quote di aumento salari ∆w e aumento profitti ∆r uguali a:
[2] ∆w=αp e ∆r=(1-α)R
[3] ∆π= αp +(1-α)R
Dunque, la crescita della produttività (∆π), con prezzi costanti e assenza di crescita della occupazione, è uguale alla somma tra la quota prefissata (α) in sede di contrattazione secondaria di aumenti della produttività (o meglio di aumenti di reddito generati dall’incremento di produttività) che va ai salari (w) e la quota residua che va ai profitti, in caso p ed R coincidano. Se p ed R non coincidono la formula [3] va corretta nel senso di aggiungere o sottrarre la differenza tra R – p, ricordando che se R > p le imprese accumulano un residuo positivo da re-investire (e questo rappresenta il loro principale incentivo verso la contrattazione di secondo livello), mentre se R < p le imprese fanno perdite che si realizzano sotto forma di aumenti salariali comunque da elargire secondo la quota prefissata.
Dalla [2] e [3] discende che:
[4] ∆π= ∆w +(1-α)R
[5] ∆w= ∆π- (1-α)R
Se correggessimo quest’ultima espressione con l’aspettativa sull’inflazione ovvero sull’inflazione programmata, avremmo un saggio di salario aumentato di aspettative
[6] ∆w= ∆π- (1-α)R+ pe
A ciò andrebbe aggiunto la quota di salario stabilita nel primo livello di contrattazione , che tenga conto del livello dei prezzi generali (ovvero dell’inflazione programmata pe) e di altre variabili come: la quota dell’occupazione dipendente sul totale, la quota del lavoro dipendente sul reddito, la produttività media del lavoro, la quota del salario di primo livello sul salario totale come è stato argomentato in precedenza da Tronti (2007) Ciccarone e Messori (2014). Queste variabili sono espresse dal coefficiente β di seguito. Così, la crescita complessiva del salario è espressa dalla seguente espressione finale [7], che tiene conto, e in un certo senso predetermina, la crescita delle quote di salario, delle quote di profitto e quindi la distribuzione del reddito:
[7] ∆W= ∆π- (1-α)R+ β+ pe
Le imprese hanno un ulteriore incentivo per raggiungere gli obiettivi di produttività prefissati: quello della decontribuzione e dello sconto fiscale per la parte degli aumenti salariali legati alla produttività. Al fine di non peggiorare ulteriormente la situazione delle imprese, nel caso in cui gli aumenti di produttività non dovessero realizzarsi (si veda, a questo proposito, il secondo scenario nel paragrafo successivo), il regime di sconto fiscale e decontribuzione si attuerebbe comunque: come dire, in questo caso, una “piccola penale” verrebbe pagata dallo Stato (attraverso il mancato introito di tasse a pieno regime senza il corrispondente guadagno, per il sistema, di produttività) che sarebbe quindi da considerare corresponsabile, in un certo senso, insieme alle imprese, dei mancati aumenti di produttività. Questo quadro di accordo sembra poter garantire sia una distribuzione del reddito equa, sia un sistema di incentivi disciplinante per le imprese tale da stimolarle ad adoperarsi per raggiungere aumenti di produttività almeno in linea con gli obiettivi prefissati, sia un sistema di comportamenti virtuosi da parte di tutti gli attori (Sindacato, Governo, Parti Datoriali) che avrebbero tutti da guadagnare dagli aumenti di produttività.
Tre possibili scenari della proposta di programmazione della produttività
Da quanto evidenziato nel paragrafo precedente, possono discendere tre possibili scenari di esemplificazione della proposta di programmazione degli incrementi di produttività, secondo gli esempi proposti di seguito di norme di distribuzione del reddito:
1. Scenario che prevede aumenti di produttività in linea con gli obiettivi (l’obiettivo è realizzato):
Esempio: Obiettivo produttività programmato p*=5%; Realizzato (R): 5%. Inflazione ipotizzata costante.
Esempio Norma di Distribuzione (50% degli aumenti ai salari e 50% degli aumenti ai profitti). Ne segue che: 0.5p*à w; 0.5R% –> r
Variazione salario reale (w) = +2.5% (secondo la norma di distribuzione in esempio)
Variazione profitti reali (r) = +2.5% (secondo la norma di distribuzione in esempio)
Somma delle variazioni (SdV): 0.5p*w + 0.5R*r = 2.5% + 2.5%= 5%
Residuo imprese (+)/Perdite imprese (-) = (R – SdV): 5% – 5% = 0
Gli aumenti dei salari reali e dei profitti esauriscono il prodotto (ipotizzando inflazione costante).
Sconti fiscali e decontribuzione si applicano per gli incrementi di salario variabile (nell´esempio, all´aumento salariale del 2.5%).
2. Scenario che prevede aumenti di produttività inferiori rispetto agli obiettivi (l’obiettivo non è realizzato):
Esempio: Obiettivo produttività programmato p*= 5%. Realizzato: 1%. Inflazione ipotizzata costante.
Esempio Norma di Distribuzione (50% degli aumenti ai salari e 50% degli aumenti ai profitti). Ne segue che: 0.5p* –> w; 0.5R% –> r
Variazione salario reale (w)= +2.5% (secondo la norma di distribuzione in esempio)
Variazione profitti reali (r) = +0.5% (secondo la norma di distribuzione in esempio. L´aumento di produttività effettivamente realizzato è 1%).
Somma delle variazioni (SdV): 0.5p*w + 0.5R*r = 2.5%+ 0.5% = 3%
Residuo imprese (+)/Perdite imprese (-) = (R – SdV): 1%-3% = -2%
Le imprese non solo fanno profitti inferiori rispetto all’obiettivo (0.5% rispetto a 2.5%), ma perdono -2% in aumenti comunque da corrispondere ai lavoratori, questo perché l´aumento di produttività non è stato realizzato.
Sconti fiscali e decontribuzione si applicano per gli incrementi di salario variabile.
3. Scenario che prevede aumenti di produttività superiori rispetto agli obiettivi (l’obiettivo è inferiore rispetto al realizzato):
Esempio: Obiettivo produttività programmato p*= 5%. Realizzato: 10%. Inflazione ipotizzata costante.
Esempio Norma di Distribuzione (50% degli aumenti ai salari e 50% degli aumenti ai profitti). Ne segue che: 0.5p* –> w, 0.5R% –> r
Variazione salario reale (w) = +2.5% (secondo la norma di distribuzione in esempio)
Variazione profitti reali (r): +5% (secondo la norma di distribuzione in esempio. L´aumento di produttività effettivamente realizzato è 10%).
Somma delle variazioni (SdV): 0.5p*w + 0.5R*r = 2.5% + 5% = 7.5%
Residuo imprese (+)/Perdite imprese (-) = (R – SdV): 10% – 7.5% = +2.5%
In questo caso si ha invece un residuo positivo per le imprese (oltre ai profitti programmati) e scatta la norma obbligatoria di “Reinvestimento degli extra-profitti”: +2.5%.
Sconti fiscali e decontribuzione si applicano per gli incrementi di salario variabile.
Questo processo, oltre a prevenire una iniqua distribuzione del reddito, indurrà le imprese a fare innovazione di processo e di prodotto, ad introdurre nuove forme organizzative, investimenti in tecnologie avanzate e formazione per dotare i lavoratori di opportune conoscenze e macchinari al fine di aumentare la produttività secondo gli obiettivi. Tutto ciò al fine di raggiungere almeno gli obiettivi programmati e di non fare perdite in termini di diminuzione di profitti. Inoltre la proposta che ancora gli aumenti salariali alla produttività programmata e gli aumenti di profitti a quelli effettivamente realizzati prevede nell’ultimo scenario (cioè nel caso in cui l’obiettivo è inferiore rispetto al realizzato) che i guadagni di produttività superiori a quelli necessari a compensare i profitti secondo la norma di distribuzione in atto, vengano reinvestiti al 50% (nel nostro esempio +2.5% che corrisponde al residuo positivo per le imprese).
*Università Roma Tre
Riferimenti Bibliografici
Antonioli D., Pini P. (2013), “Contrattazione, dinamica salariale e produttività: ripensare gli obiettivi ed i metodi”, Quaderni di Rassegna Sindacale. Lavori, vol.14, n.2.
Ciccarone G. (2009), “Produttività programmata. Una proposta per la riforma della contrattazione e l’unità sindacale”, nelmerito.com, 24 aprile.
Ciccarone G., Messori G., (2014), “Per la produttività programmata”, Economia & Lavoro, Anno XLVII, n. 3, pp. 26-32.
Fadda (2009), “La riforma della contrattazione: un rischio e una proposta circa il secondo livello”, nelmerito.com, 19 giugno.
Messori M. (2012), “Problemi della produttività dell’economia italiana”, Roma, mimeo.
Tronti L., (2007), “Distribuzione del reddito, produttività del lavoro, e crescita: il ruolo della contrattazione decentrata”, Rivista italiana di economia, demografia e statistica, LXI, 3-4, pp.177-215.
Tridico P. (2014), “Produttività, contrattazione e salario di risultato: un confronto tra l’Italia e il resto d’Europa”, Economia e Lavoro, vol XLVIII, n 2, 2014, pp.147-170
[1] Notoriamente, l’accordo quadro del 2009 e il nuovo accordo del 2012 sono stati firmati dalle maggiori confederazioni sindacali e industriali tranne che la CGIL (contrariamente dal protocollo del 1993 che era stato firmato anche dalla CGIL).
[2] L’accordo del Luglio 1993 voluto principalmente da Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente del Consiglio, aveva esplicitamente come scopo la riduzione della spirale inflazionista attraverso una moderazione salariale e altri interventi come la politica dei redditi, la crescita degli investimenti innovativi, e l’aumento della produttività. Tuttavia, come molti economisti hanno dimostrato, questo accordo è stato in grande misura disatteso. Al contrario la politica di moderazione salariale e quindi la disinflazione ha avuto successo.
[3] Tridico P. (2014), “Produttività, contrattazione e salario di risultato: un confronto tra l’Italia e il resto d’Europa”, Economia e Lavoro, vol XLVIII, n 2, 2014, pp.147-170