Vaccinazioni e rapporti di lavoro tra autodeterminazione e obblighi di sicurezza

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Political and social notes

1.  Quando si affronta il tema della tutela della salute dei lavoratori ed in generale della sicurezza nei luoghi di lavoro ci si scontra inevitabilmente con un annoso dilemma: la salute, quale bene primario indisponibile, va tutelata sempre e comunque, e dunque anche nei luoghi di lavoro; ma ogni attività lavorativa in buona sostanza comporta rischi per la salute psico-fisica di chi la svolge, da quelli massimi (infortuni anche mortali), a quelli “minimi” (stress/usura); a maggior ragione se si considera la definizione di “salute” espressamente accolta anche nella principale normativa sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: Stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità (art. 2, co. 1, lett. o, d.lgs. n. 81/2008).

Per tali ragioni, la “storia” dei rapporti tra questi due diritti/beni fondamentali è anche la storia della ricerca di un difficile equilibrio, che, da un lato, vede come principio primario quello della salvaguardia della salute, si potrebbe dire “sempre e comunque” e, dall’altro lato, l’ineludibile esigenza di tutelare il lavoro come “occupazione” (posti di lavoro), che in buona sostanza significa tutelare anche l’impresa (anch’essa ragionevolmente tutelata dall’art. 41 Cost.).

2.  In questo contesto, l’emergenza determinata dalla Pandemia Covid-19 ha impattato fortemente, rompendo i tradizionali schemi interpretativi ed applicativi e costringendo a confrontarsi con nuove e complesse questioni[1] che, da ultimo toccano il delicato profilo dell’obbligo vaccinale.

Infatti, una costola del dibattito sollevato dalla presenza di opinioni, seppur minoritarie, contrarie alla somministrazione del vaccino, ha riguardato anche i possibili riflessi sui luoghi di lavoro e, di conseguenza, sui rapporti di lavoro[2].

I termini della questione sono noti: in estrema sintesi, se sussista un obbligo dei lavoratori a sottoporsi alla somministrazione del vaccino e, correlativamente, le eventuali possibili conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di rifiuto. Il dibattito, acceso da alcune iniziali prese di posizione radicalmente schierate nella direzione, per un verso, della sussistenza del predetto obbligo e, per altro verso e conseguentemente, della possibilità per i datori di lavoro di reagire all’eventuale rifiuto del lavoratore perfino con il licenziamento, si è rapidamente sviluppato[3].

Rinviando per un esame più approfondito agli autori appena citati in nota, cerco in questa sede di riassumere brevemente i termini essenziale della questione e le soluzioni che mi paiono più ragionevoli.

Punto di partenza del quadro normativo di contesto è costituito dall’art. 32 Cost., architrave del nostro sistema regolativo del diritto alla salute e della relativa tutela. Ai fini della nostra questione, della norma costituzionale rileva essenzialmente la sua valenza “negativa”, racchiusa nella disposizione (comma 2) che pone una riserva di legge per l’obbligo di sottoporsi a trattamenti sanitari obbligatori, tra cui dunque anche i vaccini. E come noto nel caso del Covid-19 Governo e Parlamento hanno privilegiato la moral suasion rispetto alla imposizione per legge, quest’ultima peraltro certamente sconsigliata dalle innegabili perplessità di una parte non trascurabile dell’opinione pubblica sulla reale efficacia dei vaccini  e sui possibili rischi da effetti collaterali.

Sul punto non si può però lasciare in secondo piano la parte “positiva” del precetto costituzionale, come letto ed interpretato da dottrina e giurisprudenza. In questo senso, ed ai nostri fini, vanno dunque evidenziati almeno i seguenti profili.

  • La tutela della salute, nell’individuare il diritto alla salute come diritto fondamentale, ne copre sia il versante individuale che quello collettivo: “la tutela del singolo deve necessariamente contemperarsi con la tutela della salute della collettività, in questo senso anche legandosi con il principio di solidarietà dell’art. 2 Cost. E, dunque, implica inoltre il bilanciamento di tale diritto con il dovere di tutelare il diritto dei terzi che vengono in necessario contatto con la persona per attività che comportino un serio rischio, non volontariamente assunto, di contagio”[4].
  • L’ombrello costituzionale dell’art. 32 Cost. (riserva di legge) si riferisce essenzialmente al versante individuale della tutela, ponendo un limite all’imposizione dei trattamenti sanitari necessari alla tutela del singolo, nel rispetto del suo diritto alla autodeterminazione ma, potrebbe dirsi, con riguardo alla “sua” salute, restando per così dire in secondo piano il profilo dell’interazione della salute personale con quella degli altri individui.
  • Se è vero che si rinvia alla legge  l’imposizione di un obbligo al trattamento sanitario (nel nostro caso la vaccinazione), il Giudice delle leggi ha anche avuto occasione, più volte, e proprio con riguardo ai vaccini, di evidenziare che nel caso di specie la “raccomandazione” alla vaccinazione assume una rilevanza particolare di cui tener conto: “Sebbene la raccomandazione «esprima maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale […] e, quindi, al profilo soggettivo del diritto fondamentale alla salute» (art. 32, primo comma, Cost.), lo scopo perseguito è pur sempre mirato a ottenere un beneficio per la salute collettiva e non solo individuale… Ferma  la  differente  impostazione  delle  due  tecniche,  quel  che  rileva  è  l’obiettivo  essenziale  che entrambe perseguono nella profilassi delle malattie infettive: ossia il comune scopo di garantire e tutelare la salute  (anche)  collettiva,  attraverso  il  raggiungimento  della  massima  copertura  vaccinale.  In  questa prospettiva,  incentrata  sulla  salute  quale  interesse  (anche)  obiettivo  della  collettività,  non  vi  è  differenza qualitativa  tra  obbligo  e  raccomandazione:  l’obbligatorietà  del  trattamento  vaccinale  è  semplicemente  uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione[5].

3. Ciò premesso, veniamo al piano del contratto di lavoro e del rapporto tra prescrizioni anti-contagio e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Prima di richiamare le specifiche disposizioni rilevanti in tema, conviene sinteticamente ricordare alcune principali “conclusioni” cui è giunto il dibattito sul “rischio Covid-19”.

In primo luogo, ed anche sulla scorta delle argomentazioni elaborate dall’Inail, ed ai fini delle tutele previdenziali, il rischio-contagio sul piano medico-legale può essere qualificato come rischio specifico-professionale per alcuni settori, in primis quello sanitario, per il quali vige la presunzione di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus (INAIL, circ. n. 13/2020).  Al settore sanitario ai aggiungono altri settori in cui ad es. il contatto con il pubblico anche determina un elevato rischio di contagio (front-office, addetti alle vendite, operatori alla cassa, operatori del trasporto, etc.). In tutti gli altri casi/settori, il rischio-contagio costituisce “solo” un rischio generico-aggravato[6].

Fermo restando le differenti opinioni sugli obblighi di aggiornamento/integrazione della Valutazione dei rischi e del relativo Documento (DVR),  le misure di prevenzione “obbligatorie” da osservare sui luoghi di lavoro e, per legge, esaustivamente attuative dell’”obbligo di sicurezza” di cui all’art. 2087 c.c., sono quelle predisposte dai Protocolli (generali e settoriali) approvati dalle Parti sociali (a partire da quello adottato a livello interconfederale tra marzo ed aprile 2020).

Ciò detto, e con riferimento alla questione delle vaccinazioni, oltre al “solito” art. 2087 c.c. ed al conseguente principio di “Massima Sicurezza Tecnologicamente Possibile, vengono richiamate alcune disposizioni del d.lgs. 81/08 (tra cui gli artt. 18,  20, 279).

L’art. 18 D.lgs. n. 81 articola gli obblighi fondamentali di prevenzione di cui è onerato il datore di lavoro. Tra questi: fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale; richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione.

Ancora più specificamente, con riguardo alla prevenzione del contagio Covid-19, il titolo X d.lgs. n. 81/08, relativo ai rischi derivanti dagli agenti biologici ed in particolare l’art. 279, obbliga il datore di lavoro a mettere a disposizione vaccini efficaci per i lavoratori non già immuni ad eventuali agenti biologici presenti nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente[7].

In merito, va pure ricordato che la direttiva europea n. 2020/739, recepita in Italia con l’art. 4, d.l. n. 125 del 2020[8], convertito dalla legge n. 159 del 2020, ha espressamente incluso il SARS-CoV-2 tra gli agenti biologici “pericolosi”  (classe 3) da cui vanno protetti i lavoratori esposti.

Sulle disposizioni sopra richiamate, in combinato disposto con l’art. 2087 c.c., si fondano dunque le tesi sulla sussistenza dell’obbligo aziendale di tutelare i lavoratori dai rischi di contagio disponendo, e richiedendo, la vaccinazione. Percorso argomentativo completato con il ricorso alla norma (art. 20 d.lgs. n. 81/08) che impone ai lavoratori di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.. nonchè  di ….  osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale….. Norma per la quale, una volta ritenuta necessaria, quale misura di prevenzione “massima tecnologicamente possibile” la vaccinazione, e dunque prevista e disposta dal datore di lavoro, il lavoratore non potrebbe rifiutarsi dall’adeguarsi. Conseguentemente, nel caso di rifiuto, il datore di lavoro potrebbe reagire con misure che, in ultima istanza, potrebbero arrivare sino al licenziamento.

4. Orbene, personalmente non concordo con chi ritiene sussistente l’obbligo vaccinale per tutti i lavoratori, ma nemmeno lo escluderei in assoluto, come invece di recente sostenuto anche da INAIL[9] e ritengo tecnicamente ragionevole ed opportuno differenziare il ragionamento  tra i settori per i quali, come sopra ricordato, il rischio-contagio deve qualificarsi presuntivamente come rischio specifico-professionale, a partire dai settori sanitari e da quelli con elevato contatto con il pubblico, e gli altri.

Nel primo settore (ambienti a rischio professionale presunto) le disposizioni del d.lgs. n. 81/08 assumono un “peso” diverso. Ed ancora, in tale area, in particolare quella medico-sanitaria, rilevano anche le disposizioni più squisitamente attinenti alla disciplina del contratto di lavoro ed ai requisiti professionali del prestatore di lavoro[10], dal combinato disposto con le quali si potrebbe desumere dunque un obbligo (vaccinale) al contempo operante su entrambe le parti del rapporto di lavoro: per il datore di lavoro, come obbligo di apprestare le necessarie ed opportune misure a tutela dei propri lavoratori, da un lato, e dei cittadini-utenti, dall’altro lato (art. 18 d.lgs. 81/08)[11]; per ciascun lavoratore, come obbligo ai sensi dell’art. 20 d.lgs. 81/08, ma anche in relazione all’art. 2104 c.c. (diligenza del lavoratore)[12].

Infine, sarebbero più incisive in quest’area anche le letture del principio costituzionale che evidenziano il profilo “collettivo-generale” della tutela costituzionale e le “raccomandazioni” alla vaccinazione.

Negli altri settori (a rischio generico aggravato), non potendosi invece desumere un tale obbligo né sul piano generale né su quello contrattuale, la questione sembra doversi porre in termini diversi: valutandone cioè la possibile incidenza sulla idoneità/utilità del lavoratore e della sua prestazione rispetto all’assetto organizzativo dell’azienda.

5. La distinzione potrà risultare più chiara spostandoci sul piano delle possibili conseguenze sul rapporto di lavoro in caso di rifiuto alla vaccinazione.

Nel primo caso, sussistendo un obbligo alla vaccinazione, quel presupposto potrebbe rilevare anche sul piano contrattuale, e dunque la sua inosservanza potrebbe integrare un chiaro inadempimento, in ragione della sua importanza ai fini prevenzionali e degli effetti che ne possono conseguire (per lo stesso lavoratore, per i suoi colleghi, per l’utenza) e potrebbe comportare l’adozione di provvedimenti disciplinari, forse anche il licenziamento[13]. Ciò, salvo evidentemente le ipotesi in cui sussistano specifiche esimenti (di carattere medico: ad es. comprovate intolleranze ai farmaci); nel qual caso la questione vira, in termini “organizzativi”, verso l’inidoneità al lavoro e le possibili conseguenze, su cui vedi infra.

Nei settori a rischio “generico aggravato”, non potendosi, come detto, ricavare l’esistenza di un obbligo a vaccinarsi per i lavoratori, il rifiuto potrebbe comunque comportare conseguenze, su di un diverso piano: pur non assumendo rilevanza disciplinare, può infatti ripercuotersi sull’assetto organizzativo dell’azienda, in rapporto alla prestazione di quel lavoratore.  Vero è, infatti, che, anche in assenza di vaccini, in tutto questo periodo si è ritenuta possibile la prestazione (nei settori/periodi in cui le attività sono state consentite), previa adozione delle misure di precauzione/prevenzione previste dal Governo e dai Protocolli sociali;  ma è altrettanto vero che queste misure certamente  non garantiscono la stessa “sicurezza” dei vaccini in termini di efficacia prevenzionale; in secondo luogo, comportano notevoli “complicazioni” organizzative (distanziamento, dispositivi di protezione, etc.). In definitiva, in tali casi il rifiuto alla vaccinazione si potrebbe tradurre in una “inidoneità” relativa al lavoro, alla quale, secondo la normativa lavoristica, il datore di lavoro potrà e dovrà rimediare con apposite idonee misure organizzative (relative al quel rapporto di lavoro ed a quella prestazione)[14]; ma solo e nella misura in cui ciò sia compatibile con l’assetto organizzativo dell’azienda. Il che non pare agevole, se non ricorrendo al lavoro a distanza (agile o telelavoro), sempre laddove (per l’azienda) possibile. Residuando altrimenti la misura più radicale del licenziamento per motivo oggettivo: misura certo estrema, ma non per questo impossibile[15].

6. La questione è comunque assai complessa e, come anche da più parti auspicato[16], renderebbe opportuno l’intervento del legislatore. Ed invero, l’attuale emergenza sanitaria potrebbe giustificare un intervento legislativo che preveda l’obbligatorietà del vaccino, generale o per ambiti specifici, tenendo conto delle indicazioni della Corte costituzionale sul contemperamento tra la tutela dell’interesse del singolo e la tutela dell’interesse della collettività; ciò anche in considerazione delle gravissime ripercussioni sulle condizioni economiche, e dunque inevitabilmente esistenziali, di rilevante parte dei cittadini, come pure su altri diritti fondamentali della persona (primo tra tutti la libertà personale).


[1] Per tutti, ed anche per ulteriori riferimenti bibliografici, sia consentito il rinvio a G. Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in O. Bonardi, U. Carabelli, M. D’Onghia,  L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, Roma, 2020, 49 ss.

[2] Da ultimo, v. la questione del personale sanitario che ha rifiutato le vaccinazioni e relative dichiarazioni del Governatore Toti e del Prof. Bassetti, in La Repubblica  del 15 marzo 2021.

[3] Sul punto, per tutti e tra gli altri, si rinvia ai dibattiti su Diritto della sicurezza del lavoro (http://ojs.uniurb.it/index.php/ds); Labor (www.rivistalabor.it) e Lavoro Diritti Europa  (https://www.lavorodirittieuropa.it/) , 2021, n. 1, nonché alle Conversazioni sul lavoro a distanza, da settembre 2020 a marzo 2021. Virus, stato di eccezione e scelte tragiche, promosse e coordinate da V.A.Poso(http://www.fondazionegiuseppepera.it/virus-stato-di-eccezione-e-scelte-tragiche-conversazioni-sul-lavoro-a-distanza-da-settembre-2020-a-marzo-2021/).

[4] Corte cost. 2.6.1994 n. 218.

[5] Corte Cost. 23.6.2020 n. 118.  Sul punto, A. De Matteis A., Art. 32 della Costituzione: diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, in Conversazioni sul lavoro a distanza,  cit.

[6] INAIL, circ. n. 13/2020, su cui tra gli altri, S. Giubboni, Covid-19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili riparatori, in WP DSLE “Massimo D’Antona.it”, n. 417, 2020, pp. 5-9.

[7] V. L. Pelusi, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in DSL, 2019, n. 2, p. 123 ss. (anche se prima della modifiche del 2020).

[8] Con conseguente aggiornamento anche del titolo X d.lgs. n. 81/08 e relativi allegati.

[9]  Nella nota di “istruzione operativa” del 1 marzo 2021, relativa al caso del rifiuto di vaccinarsi di alcuni infermieri dell’Ospedale Policlinico di Genova,  Inail si limita in maniera assertiva ad affermare che, per un verso, non si rileva allo stato dell’attuale legislazione in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, un obbligo specifico di aderire alla vaccinazione da parte del lavoratore; e che, per altro verso, e sulla scorta della riserva di legge di cui all’art. 32 o. 2 Cost., il rifiuto di vaccinarsi, configurandosi come esercizio della libertà di scelta del singolo individuo rispetto ad un trattamento sanitario, ancorchè fortemente raccomandato dalle autorità, non può costituire una ulteriore condizione a cui subordinare la tutela assicurativa dell’infortunato.

[10] Cfr. G. Pellacani, La vaccinazione contro il Coronavirus (SARS-Cov-2) negli ambienti di lavoro tra norme generali in tema di prevenzione e tutela della salute e sicurezza, disciplina emergenziale per la pandemia COVID-19 e prospettive di intervento del legislatore, in Lavoro Diritti Europa (https://www.lavorodirittieuropa.it/)  n. 1, 2021; O. Mazzotta, Vaccino anti-Covid e rapporto di lavoro, ivi.

[11] Il tutto attraverso la “mediazione” del medico competente, necessaria anche ai fini del rispetto della privacy, come dalle recenti indicazioni del Garante. In merito, v. le approfondite riflessioni di P. Pascucci, A. Delogu, L’ennesima sfida della pandemia Covid-19, in Diritto della sicurezza del lavoro (http://ojs.uniurb.it/index.php/ds, 2021, n. 1, pp. 107 ss.

[12] Cfr. L. Zoppoli, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro: l’opinione di Lorenzo Zoppoli, in “Labor. Il lavoro nel diritto”, (http://www.rivistalabor.it/), 22 gennaio 2021. 

[13] Cfr. anche C. Cester, Dibattito istantaneo, cit.; V. Ferrante, Dibattito istantaneo, cit. 

[14] Cfr. V. Ferrante, cit.

[15] V. S. Bellomo, Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro: l’opinione di Stefano Bellomo, in Labor. Il lavoro nel diritto, (http://www.rivistalabor.it/), 23 gennaio 2021.  [16] V. tra gli altri la Segretaria Generale Cisl, su “La Repubblica” del 9 gennaio 2021 o il Presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro su “Il Corriere della Sera” del 24 febbraio 2021;

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