La situazione inaspettata in cui ci troviamo a vivere ci pone con una certa frequenza di fronte a “punti di non ritorno”: a quelle situazioni, cioè, in cui l’opzione del ritorno, formalmente ancora pensabile, diventa semplicemente impraticabile, e impraticabile perché enormemente costosa. Ed enormemente costosa perché esposta all’incertezza senza nessuna forma di protezione.
Tuttavia proprio oggi è essenziale non indulgere nella sindrome che ci ha condotto a questa pioggia di punti di non ritorno ‒ quella sindrome dell’assenza di alternative (There is no alternative, TINA) che ha retto l’ultimo trentennio di dogmatica economica e istituzionale. Ciò a cui ci spingono i punti di non ritorno attuali non è questo genere di folle quietismo (non possiamo che andare avanti in un processo irreversibile), ma l’inquietudine che deve caratterizzare chi sa che, per andare avanti bene, è necessario cercare vie alternative.
Uno dei più recenti punti di non ritorno, per l’Europa, ma anche e soprattutto per la Germania, è rappresentato dalla sentenza del 5 maggio 2020 della Corte Costituzionale Federale tedesca (Bundesverfassungsgericht, d’ora in poi BVerfG) [BVerfG 2020] a proposito delle decisioni di politica monetaria assunte dalla BCE a partire dalla crisi dei debiti sovrani, e che possiamo riassumere nell’ormai proverbiale “whatever it takes”, o più specificamente nel PSPP (Public Sector Purchase Program, cfr.ECB 2020), vulgo quantitative easing.
Non indulgo in analisi giuridiche sulla sentenza, in particolare per quanto riguarda la questione della gerarchia nella materia specifica, rispetto alla sentenza della corte Europa di Giustizia. Altri le hanno condotte e altri ancora le condurranno [Meier-Beck 2020]. Non ultima la Corte di Giustizia Europea [CGUE 2020]
Dopo un rapido accenno a quella che mi sembra una enormità argomentativa passerò ai principi economici che implicitamente la innervano. Principi che non solo meritano di essere esplicitati, ma che soprattutto esigono di essere discussi, proprio per cominciare a uscire dalla sindrome dell’assenza di alternativa.
Al punto 2 della sentenza, punto cruciale invero, è posta con chiarezza l’idea che la Corte di Giustizia Europea nella sua interpretazione avrebbe “passato il limite”. Come però si argomenta? Il limite è passato “Wo eine Auslegung der Verträge nicht mehr nachvollziehbar und daher objektiv willkürlich ist”. Se mettiamo fra parentesi la premessa maggiore, abbiamo che il limite è passato quando una interpretazione dei trattati (eine Auslegung der Verträge) è oggettivamente arbitraria (objektiv willkürlich ist).
Un grande passo avanti per i giudici, forse, ma certo un piccolo passo indietro per la logica. Giacché così la proposizione è al massimo un truismo. Ma siccome la Corte ha svolto un sillogismo (daher = ergo), tutto, si dirà, dipende dalla premessa maggiore; che dovrebbe appunto stabilire quando una interpretazione è arbitraria. Ora, così recita la premessa maggiore, un’interpretazione di un soggetto giurisdizionale che in linea di principio ha piena e totale giurisdizione sui trattati è arbitraria quando non è più comprensibile (nachvollziehbar).
Lasciamo stare la nuance di soggettivismo veicolata dal verbo nachvollziehen ‒ il verbo ideale per lo studente limitato che fa fatica a star dietro (vollziehen) da presso (nach) al professore, e quindi sussiegoso sentenzia che “non si capisce niente quando spiega”. A posto di nachvollziebar si sarebbe potuto usare verstehbar (verstehen, to understand). Ma poco importa.
Lasciamo stare e veniamo al punto logico: se un’affermazione di un soggetto è oggettivamente arbitraria quando non mi è più comprensibile, allora io mi ergo a giudice di quel soggetto, ed erigo a criterio del mio giudizio la mia capacità di comprensione. Ganz toll … o se si vuole, per restare al Belli, “io so’ io” …
Come dicevo, se quello della gerarchia fra una corte nazionale e una corte europea, entrambe “costituzionali”, benché nessuna delle due abbia sotto di sé una costituzione in senso proprio (l’una è garante dei trattati, l’altra di una costituzione redatta dai vincitori e mai sottoposta al giudizio del popolo sovrano), è un punto giuridico, questo è invece un punto logico: perché se io decido che cosa è comprensibile, così facendo estendo la mia giurisdizione sulla ragione, formale e degli effetti.
E qui veniamo al punto cruciale dell’argomentazione del BVerfG: la Corte europea avrebbe sbagliato (incomprensibilmente…) a valutare legittimo in base ai trattati l’operato della BCE, perché non avrebbe tenuto conto degli effetti economici della politica monetaria, e quindi del suo impatto su concorrenza, fiscalità e così via.
E qui cedo volentieri la parola a un economista tedesco, Erik Enderlein, che in un thread in otto mosse su Twitter del 5 maggio pone bene il problema (in particolare alle mosse 2 e 3):
“Il BVerfG solleva la questione dei limiti di indipendenza della BCE. Grossa questione. Insistono sul fatto che l’indipendenza della BCE termina quando la BCE inizia a toccare “politica economica”, contrapposta alla “politica monetaria”. Il problema è che il confine tra la politica monetaria e le sue implicazioni economiche non può essere definito. Il BVerfG sembra economicamente ingenuo sul punto. Ma penso che lo faccia in modo deliberato ‒ e quasi con malizia: il BVerfG vuole mantenere discrezionalità per decidere da solo su questo confine.” [Enderlein 2020]
Sarei ancora più preciso: il confine c’è, ma, come tutti i confini, è poroso e da definire, sia in termini di concettualità economica sia in termini di effetti pratici. Nulla che abbia a che fare con la scienza infusa. Semplicemente una questione di scienza.
Il BVerfG ha invece pochi dubbi: il PSPP è sostenibile solo sotto due principi, quello della preventiva determinazione della sua durata e quello del mantenimento stretto del principio di proporzionalità.
Anche qui l’apparente ragionevolezza dei principi si scontra con presupposti non dichiarati. Il primo è che i mercati siano comunque sempre efficienti, salvo rari momenti di smarrimento. Ergo (daher), non si può sottrarre ai mercati la valutazione della tenuta dei debiti pubblici. Ergo, c’è da chiedersi se il PSPP “non abbia influenzato in modo significativo le condizioni di rifinanziamento degli stati”. Mercati europei dei debiti pubblici liquidi e profondi sono certo efficienti nel prezzare i rischi, ma non è detto che non siano costretti a prezzare anche i rischi che essi stessi generano. In particolare il rischio di rifinanziamento.
Fu per proteggere i debiti pubblici da spread che manifestamente eccedevano i fondamentali degli stati membri che la BCE ha svolto il suo sacrosanto ruolo di Banca centrale, che consiste proprio nel dare una norma ai mercati, e a dargliela operando essa stessa sul mercato, facendolo però alle condizioni che sono proprie della sua prerogativa sovrana di decidere della stabilità della moneta.
I mercati sono efficienti nel tenere la volatilità attorno a una norma, ma non sono in grado di darsi da soli una norma [Shiller 1990, Shiller 2003]. Per questo da tre secoli esistono le banche centrali. Si chiamano centrali perché stanno al centro e perché quindi mediano, sovranamente, fra il debitore pubblico e i creditori privati [Amato 2008, Tooze 2020].
Sovrane non vuol dire però onnipotenti: in particolare, è chiaro che se non vale il dogma dell’efficienza dei mercati, ogni programma di acquisto titoli che avesse una scadenza prefissata sarebbe scontato dai mercati, e sarebbe quindi inefficace. La sovranità sta proprio in questo tratto sospensivo, che tiene in suspense gli attori privati. Così è se vi pare, da almeno tre secoli. Rimproverare a una banca centrale di non dichiarare preventivamente i termini della sua azione è semplicemente rimproverarle di fare la banca centrale.
Per quanto riguarda l’altro ossessivo martellamento della sentenza, ossia la proporzionalità, il presupposto non dichiarato è il criterio formale del capital key (si finanzia ogni stato in base alla sua quota di capitale) abbia anche un senso sostanziale. Ma lo può avere solo nel caso di una simmetria dogmaticamente supposta. E dogmaticamente imposta: certo se tutti gli stati fossero ben allineati sui parametri di Maastricht, il criterio della proporzionalità si imporrebbe come un truismo. Ma il problema che il PSPP ha dovuto risolvere consisteva proprio nel fatto che quella simmetria non c’era [Merler e Pisani-Ferry 2012], e che i mercati la stavano ampliando in maniera ormai incontrollata e pericolosa per la stabilità dell’eurosistema come tale [Giavazzi e Spaventa, 2011].
E qui veniamo agli effetti pratici dei dogmi più o meno inconfessati. Applicare, come ha fatto la BCE, il criterio del capital key ha comportato, sì, un’indebita mutualizzazione dei rischi, ma a favore della Germania. Se è vero che per l’Italia lo spread è stato mantenuto entro livelli compatibili con il servizio del debito, ossia per l’accesso ai mercati dell’Italia, ma comunque ben al di sopra del suo rischio fondamentale [Amato 2020], gli acquisti proporzionali di debito pubblico tedesco hanno portato i rendimenti dei bund in zona negativa, ossia ben al di sotto del suo rischio fondamentale.
Fig. 1 Rendimenti effettivi e costo fondamentale (idiomatic cost, cfr. Amato et al 2020) per Italia e Germania, 1999-2019
Elaborazioni di E. Belloni (che ringrazio) su dati FRED Economic Data (per gli yield). I rating sono tratti da www.worldgovernmentbonds.com
Si rassicuri dunque il BVerfG: la politica monetaria della BCE ha avuto effetti fiscali, e in particolare, proprio in quanto ispirata al criterio della proporzionalità, ha indebitamente alleggerito il carico fiscale del contribuente tedesco, nella misura in cui ha continuato ad appesantire (fra gli altri) il conto interessi italiano, ossia quella parte delle spesa pubblica che ha effettivamente alimentato i deficit italiani dal 2012 a oggi, e che è responsabile della dinamica di crescita in avvitamento del rapporto debito/Pil (bassa crescita del PIL anche per via di una spesa bassa per investimenti, debito alto per via di interessi eccessivi).
Non solo, ma ciò ha permesso ai mercati di indulgere in pratiche di gestione di portafoglio lecite ma non particolarmente lodevoli, e soprattutto molto destabilizzanti: ossia nel lucrare sugli spread, “facendo soldi” sui debiti eccessivamente sottovalutati e a rischio rifinanziamento, e proteggendo poi i guadagni con i debiti eccessivamente sopravvalutati.
Se tutto ciò ha un senso, è chiaro che con il PSPP la BCE non ha agito “ultra vires”, ma che anzi, rispetto al compito che si è data è rimasta per così dire “citra vires”, anzi “sine viribus”, essendosi sovraccaricata di obblighi a cui non ha potuto ottemperare con la dovuta efficienza.
Che l’efficacia del QE possa decrescere nel tempo è ormai più che un’ipotesi [Demertzis e Wolff 2016]. Il fatto che il QE, giustificato da un tasso di inflazione ben al disotto del target, al target non sia riuscito ad arrivare, è un altro segno. Già prima della crisi del Covid-19, una crisi economica stava arrivando, pronta a sostituirsi alla stagnazione strisciante degli ultimi dieci anni.
Sul versante degli spread, il PSPP ne ha certo ridotto il livello assoluto, ma non ha minimamente ridotto le divergenze dei rendimenti degli debiti pubblici, che sono rimaste ben oltre le divergenze dei rischi fondamentali dei paesi.
Bene ha fatto la BCE in questi anni a fare “whatever it takes”. Ha fatto solo il suo dovere, nei limiti delle sue “vires”. Ma il dovere di una banca centrale non può travalicare i limiti delle sue possibilità, giacché essa non è il tutto, ma una parte di un sistema di forze in cui mercati e stati giocano un loro specifico ruolo.
In particolare, la Banca Centrale Europea non ha potuto supplire all’assenza di un Tesoro Europeo, i cui bond essa avrebbe potuto comprare senza ledere l’interesse di nessuno stato membro.
Nella situazione in cui ci troviamo in Europa, è l’assenza di un Tesoro [Masson 2020] il problema, non l’operatività di una banca centrale che ha fatto all’incirca tutto ciò che poteva, e che finora è stato abbastanza.
L’assenza di un Tesoro Europeo ha a che fare con l’incompletezza della costruzione europea [Schelkle 2017], e anche, lo si lasci dire, con una certa incompetenza nella sua costruzione. Davvero si è potuto pensare di subappaltare ai mercati il finanziamento dei debiti pubblici di stati uniti da un patto monetario ma non uniti da una politica fiscale comune (la quale, come tutte le politiche fiscali federali, prevede trasferimenti e mutualizzazioni)?
Il punto di non ritorno è dunque fatto così: si tratta di andare verso un Tesoro Europeo, che emetta bond europei che possano essere acquistati da una banca europea in difesa di una moneta europea e nel rispetto delle regole di solidarietà che vigono in una federazione ‒ le sole che la rendono fondamentalmente diversa da una associazione di malfattori.
Possiamo arrivarci in breve tempo? No. Non lo abbiamo fatto in trent’anni, prigionieri di veti e di dogmi che si alimentavano vicendevolmente. Non lo faremo sotto la pressione dell’emergenza.
In attesa di ciò, e per prepararlo, è possibile pensare quello che ho chiamato un “tesoro sintetico” [Amato et al 2020]: un’Agenzia Europea del Debito che finanzi secondo schemi perpetui i debiti degli stati dell’eurozona, finanziandosi a termine presso i mercati, e i cui bond possano godere di rendimenti certi, positivi e bassi, anche grazie a un intervento sistematico della BCE. Un’agenzia siffatta potrebbe riprendere, alla scadenza, tutti i debiti degli stati membri detenuti dalla BCE, chiudendo il PSPP in nome non di una resa ai mercati ma di un ordinato e rinnovato rapporto con essi.
L’Agenzia del Debito emetterebbe ciò che a tutti gli effetti sarebbe un safe asset europeo, destinato a stabilizzare i mercati e a far lavorare la BCE come una vera banca centrale, mediatrice ed equilibratricefra debitori e creditori proprio perché media innanzitutto fra stati e mercati: “con grande orrore dei conservatori di ogni paese, l’arena nella quale le banche centrali svolgono questo compito di bilanciamento è il mercato dei debiti pubblici. Gli IOU dei governi non sono semplici obbligazioni dei contribuenti nazionali. Per i creditori dei governi sono safe asset, sulla cui base si costruiscono le piramidi del credito privato”. [Tooze 2020]
Ha ragione Enderlein a dire che “la sentenza avrà effetti diretti sul modus operandi della BCE” e che la “PEPP, che è una fusione di of QE + OMT senza condizionalità dovrà essere ripensata dalla BCE”.
Ma, direi, ciò è vero non tanto perché la sentenza del BVerfG debba essere presa in considerazione dalle istituzioni europee come un ordine, ma perché sarebbe bene che spingesse tutti gli attori europei, Germania in primis, a fare delle scelte e, come suggerisce anche Martin Wolf, a uscire dall’ambiguità [Wolf 2020]. Questo potrebbe essere l’esito insperato, e probabilmente, non voluto (ma chissà…) dell’ardua sentenza del 5 maggio 2020.
Si tratta di uscire dalla gabbia formale della proporzionalità (capital key) senza passare immediatamente per una mutualizzazione che, formalmente, cioè a trattati invariati, non è possibile.
Una Agenzia del Debito che tenga insieme i debiti pubblici, sottraendoli al rischio di rifinanziamento, e che al contempo faccia pagare agli stati membri rate perpetue in ragione del loro rischio fondamentale, è un primo passo verso una gestione veramente comune del debito pubblico europeo. Comune, e non “solidaristica” nel senso del mettersi la mano sul cuore.
Comune: con la solidità di una gestione in solido.
Riferimenti bibliografici
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