C’è un oscuro episodio della vita di Gramsci cui è stata a più riprese dedicata notevole attenzione: nel febbraio 1928 Ruggero Grieco invia a Gramsci in carcere una lunga lettera contenente informazioni sullo scontro politico Stalin-Trockij, e sulla situazione politica internazionale. La lettera (che curiosamente fu recapitata in copia fotografica, e il cui originale non è stato mai trovato) sconcerta Gramsci, che in una lettera alla moglie Giulia Schucht la definisce «strana», aggiungendo che l’aveva fatto «inalberare». Col tempo egli arriva a considerarla una vera e propria provocazione: secondo Gramsci essa avrebbe potuto fornire al Tribunale Speciale (davanti al quale egli avrebbe dovuto di lì a poco comparire) prova che egli fosse il capo del partito, e quindi aggravare la pena da comminargli. Gramsci si chiede: «Si trattò di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? È difficile dirlo». Incoraggiano Gramsci a pensare alla «scelleratezza» sia il giudice istruttore fascista (che gli consegna la lettera dicendogli: «onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera»), sia la cognata, la quale gli riferisce che anche una persona «agli antipodi» del fascista, da lei interpellata, aveva definito «criminale» la lettera (ella arrivò poi ad accusare apertamente della scelleratezza Togliatti stesso). Di questa vicenda – che Gramsci finì col vedere addirittura come uno spartiacque nella sua vita – non è stata fornita spiegazione soddisfacente.
In un recente libro (La storia falsa, Rizzoli, Milano 2008) Luciano Canfora ha sostenuto che la lettera sarebbe un falso, perpetrato dalla polizia fascista inserendo nel testo originale della lettera di Grieco la parte sullo scontro politico in URSS e la situazione internazionale, che sarebbe stata gravemente compromettente.
La tesi del falso ha molti punti deboli, in primo luogo quello di trascurare che il processo a Gramsci era un processo farsa, in cui la necessità di fabbricare prove era tutt’altro che stringente. Lo stesso Gramsci ben prima di ricevere la lettera di Grieco aveva scritto alla madre che la condanna sarebbe stata molto dura (venti anni) – come infatti essa fu. E non risulta che della lettera sia stato fatto alcun uso nel processo.
Canfora si occupa anche di Piero Sraffa – che insieme a Tatiana Schucht fu la persona più vicina a Gramsci durante la prigionia. Interpellato da Tatiana dopo la morte di Gramsci circa la possibilità di sollevare a Mosca presso il Comintern la questione della «famigerata lettera» di Grieco, Sraffa le risponde che secondo lui si era trattato di una leggerezza dello scrivente, un malinteso la cui portata era stata ingigantita da Gramsci nell’esasperazione dell’isolamento carcerario. Tatiana reagisce violentemente a questa posizione di Sraffa, e gli risponde: «la vostra ultima, indipendentemente dalla vostra intenzione, ha lasciato in me un’impressione penosissima». E va avanti nella sua intenzione di far indire un’inchiesta dal Comintern.
Canfora sostiene che Sraffa avrebbe mentito per «logica di partito», allo scopo di fermare Tatiana, e che il suo vero giudizio sulla lettera sarebbe stato tutt’altro: secondo lui sarebbe Sraffa la persona che nel 1928 aveva detto a Tatiana Schucht che la lettera di Grieco era «criminale». Basterebbe forse notare che, se fosse stato così, sarebbe inspiegabile che Tatiana, nella sua forte reazione all’affermazione di Sraffa che la lettera di Grieco fosse semplicemente dovuta a leggerezza, non lo avesse accusato di voltafaccia, ricordandogli che egli stesso la aveva in precedenza definita “criminale”. D’altronde Sraffa disse a Spriano che non era lui la persona che nel 1928 aveva dato quella definizione della lettera (in effetti nella primavera del 1928, quando sorge la questione, Sraffa e Tatiana Schucht non si conoscevano neanche).
L’unico elemento citato da Canfora a sostegno della sua tesi è una lettera di Sraffa a Spriano del 1969, dove Sraffa parla (senza ulteriori chiarimenti) di due «disastri» nei tentativi di liberazione di Gramsci: secondo Canfora uno di questi due disastri «non può che essere la famigerata lettera». Ma è sfuggito (non solo a Canfora) che il padre di Piero Sraffa, Angelo, che si era a più riprese interessato alle vicende legali di Gramsci, scrisse due lettere al figlio nel 1933, una prima volta nel maggio, parlando della pubblicazione su L’Humanité di una allarmata relazione medica sullo stato di salute del carcerato, che (nelle parole di Angelo Sraffa) aveva causato un «patatrac» nei tentativi di liberazione di Gramsci, ed una seconda volta nel dicembre dello stesso anno, quando scrive che, superato quel primo «guaio», ne è sorto «uno nuovo» (la scoperta di una circolare della centrale comunista di Basilea che dava direttive sulla richiesta di libertà condizionale) che «rendeva impossibile al Tribunale una decisione favorevole» a Gramsci. Che siano questi i due «disastri» cui Sraffa alludeva nella lettera a Spriano del 1969 è chiarito al di là di ogni ragionevole dubbio da un’annotazione nella sua agenda alla data 25 marzo 1972, dove Sraffa scrive di aver consegnato a Giorgio Napolitano «serie completa fotocopie di lettere di Tatiana (e 2 di papà [quelle del maggio e del dicembre 1933] su disastri liberaz. Gramsci)».
Sia il buon senso sia i documenti vanno contro la tesi di uno Sraffa che antepone una «logica di partito» alla lealtà nei confronti dell’amico ucciso dai fascisti. Gramsci certamente fino alla fine ebbe la più totale fiducia in Sraffa – e non esiste la minima prova che tale fiducia fosse mal riposta.
*L’autore è professore ordinario di economia politica nell’Università di Napoli “Federico II”.
Basato su un articolo dallo stesso titolo, pubblicato nel n.77 (2009) della rivista Passato e Presente.