Grandi imprese e tecnologie energetiche alternative

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Le grandi imprese potrebbero svolgere un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’industria delle nuove tecnologie energetiche. Queste imprese vengono comunemente definite “public utilities”, ossia imprese di pubblica utilità che erogano servizi fondamentali ai cittadini. In realtà si tratta di imprese che in alcuni casi estraggono e in generale comprano, trasformano e rivendono energia – elettricità, olio combustibile, benzina, gas per usi industriali e civili – e che quindi possono essere considerate analogamente alle imprese della trasformazione industriale.

Oggi nel settore energetico vi è una tendenza verso la concentrazione delle imprese, come dimostrano i processi di fusione e di aggregazione, le scalate e le acquisizioni in atto[1]. In tal modo si viene a ridurre il numero delle aziende mentre ne aumenta la dimensione. Così, le imprese energetiche accrescono il loro potere di mercato e possono determinare i prezzi finali dell’energia secondo i criteri tipici dei mercati oligopolistici (Sylos Labini, P., 1956[2])

L’oligopolio è caratterizzato dall’esistenza di barriere all’entrata ed è connesso alla leadership sul prezzo. Ciò significa che i prezzi non sono determinati dalle forze impersonali del mercato ma sono fissati dai produttori/venditori mentre le quantità comprate a quei prezzi sono determinate dai consumatori. Una variazione della domanda da parte degli acquirenti industriali e dei consumatori finali condurrà direttamente a variazioni dell’offerta e non a variazioni dei prezzi, il che non esclude che variazioni persistenti della domanda generino variazioni dei prezzi dopo un certo intervallo. Questa è la situazione più frequente nei mercati oligopolistici in cui ogni venditore fissa il prezzo mediante un calcolo sui costi diretti (lavoro, energia, materie prime) per unità di prodotto, ai quali viene aggiunto un margine percentuale per i costi fissi e i profitti. I profitti sono così il residuo che rimane dopo il pagamento dei costi fissi che possono essere molto diversi tra un’impresa e l’altra.

Le grandi imprese oligopolistiche sanno di poter variare i prezzi quando variano i costi diretti nella piena consapevolezza che i loro concorrenti faranno altrettanto. Così, quando varia il costo dell’energia nei mercati di origine[3], le imprese energetiche tendono a variare i prezzi di vendita in modo proporzionale per ampliare, o almeno conservare, i propri margini di profitto (il principio del mark up). Di conseguenza, nelle fasi di crescita del costo dell’energia, queste imprese si vengono a trovare in un parziale conflitto di interessi con lo Stato, perché l’incremento dei prezzi finali di benzina, elettricità[4], gas per usi civili, da un lato favorisce l’aumento del fatturato, dei profitti e delle quotazioni azionarie delle imprese energetiche; dall’altro lato però alimenta l’inflazione e penalizza i consumi interni, la competitività e la crescita economica del Paese importatore di energia. L’effetto positivo sta nel pagamento di maggiori tasse e, se lo Stato è azionista, anche nei più alti dividendi che saranno versati dalle imprese.

I fenomeni appena descritti si sono manifestati nel periodo che va dal 2003 al 2007. In questi anni si è verificato un aumento considerevole della domanda e dei prezzi del petrolio e del gas, che ha consentito alle imprese energetiche di realizzare eccezionali incrementi del fatturato, dei profitti e delle quotazioni azionarie, mentre i paesi importatori subivano un peggioramento della bilancia commerciale ed una crescita dei prezzi finali dell’energia.

Le grandi imprese energetiche non sono state molto propense ad investire in ricerca e sviluppo (R&S), a diversificare le fonti energetiche e ad effettuare massicci investimenti in esplorazione, innovazione tecnologica e realizzazione di nuovi impianti nel momento in cui vi erano una domanda e dei prezzi in continua crescita che assicuravano profitti elevatissimi. Le compagnie petrolifere e le imprese energetiche hanno una quota di spese in R&S che generalmente non arriva a toccare l’1% del fatturato, mentre esistono grandi imprese ad alta tecnologia che arrivano ad investire in R&S il 15% del fatturato. Oggi tra gli obiettivi principali delle imprese energetiche vi sono quelli di acquisire ulteriori quote di mercato attraverso operazioni finanziarie, di distribuire dividendi agli azionisti, di riacquistare azioni proprie per difendersi dalle scalate e di incrementare le stock options per il management (si tratta di un tipico caso di finanziarizzazione dei profitti; cfr. Colitti[5], 2006).

Se guardiamo i dati sulla ricerca e sviluppo dell’European scoreboard[6] la situazione appena descritta appare molto chiara (si tratta di dati relativi al 2006, anno in cui il ciclo di crescita 2003-2007 ha raggiunto il suo apice). In particolare, nella tabella dove sono messi a confronto i diversi settori industriali appare chiaramente come il comparto energetico investa in ricerca delle quote risibili del fatturato, diversamente dai comparti ad alta intensità di conoscenza come i computers, l’elettronica, l’aerospazio, le biotecnologie, la farmaceutica, i semiconduttori e le telecomunicazioni (in questi settori la quota di spese in R&S sul fatturato è compresa tra il 7 e il 25%). Questi dati indicano che lo scarso impegno delle grandi imprese energetiche è di carattere strutturale e non dipende dall’andamento del ciclo economico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un esempio significativo della scarsa propensione delle grandi imprese elettriche ad investire nella diversificazione energetica si può osservare anche in Germania, il paese leader mondiale delle energie rinnovabili. Dal 2000, infatti, il 95% circa degli investimenti è stato effettuato da gestori privati o da imprenditori dell’energia attivi a livello comunale, mentre i grandi gruppi industriali dell’elettricità, nonostante ci fosse una legge di incentivazione per le energie rinnovabili che riduceva i rischi e garantiva alti profitti, non si sono lanciati nel settore in modo convinto.

Tutto questo dimostra che la possibilità di conseguire enormi profitti grazie al potere di mercato in un sistema altamente concentrato tende a disincentivare gli investimenti verso l’innovazione e la diversificazione energetica. Ciò comporta rischi molto seri in un periodo come quello attuale in cui si sta aggravando l’allarme sull’effetto serra e la pressione sui combustibili fossili è in aumento sia per la crescente domanda di Cina e India, sia per l’instabilità delle aree di estrazione (Medio Oriente, Nigeria, Mar Caspio) sia per la nuova politica energetica della Russia. Si tratta di un insieme di fattori che potrebbero alimentare le spinte verso il “ristagno” economico nei paesi occidentali importatori di gas e petrolio.

La crescita dell’impegno in ricerca e sviluppo delle grandi imprese energetiche non solo è importante per i loro processi di innovazione e di diversificazione energetica ma è fondamentale anche per il ruolo trainante che tali imprese potrebbero svolgere nei confronti dei centri di ricerca pubblici e del tessuto industriale composto da piccole e medie imprese. In particolare, il coinvolgimento delle grandi imprese potrebbe costituire un potente motore di innovazione in grado di sfruttare da un punto di vista industriale i risultati della ricerca che sono realizzati dalle Università e dai Centri di Ricerca Pubblici come l’Enea e il Cnr. Inoltre, i maggiori investimenti nella ricerca e sviluppo e nella diversificazione energetica delle grandi imprese sono cruciali anche per trainare lo sviluppo locale poiché le grandi imprese possono costituire una fonte di commesse e di diffusione del know-how sul territorio, stimolando l’aggregazione e la crescita di nuove imprese innovative. Al riguardo, lo stabilimento di Taranto della Vestas Italia (filiale della Vestas danese), che ha una capacità produttiva di 400 MW all’anno, ha alimentato la crescita di un indotto in cui sono occupati più di 1.000 addetti. Ma uno dei casi più importanti di sviluppo territoriale nel Mezzogiorno ricade nel settore dei semiconduttori ed è quello della StMicroelectronics e del distretto dell’Etna Valley che sta avendo interessanti sviluppi anche nelle nuove tecnologie energetiche.

Le origini del distretto di Catania sono strettamente legate alla storia della StMicroelectronics, azienda nata dalla fusione tra l’italiana S.G.S. con la francese Thomson Semiconducteurs avvenuta nel 1987. La svolta che segnò la nascita di un’area tecnologico-industriale tra le più avanzate nel mondo avvenne nel 1997 quando StM decise di insediare nell’area un grande stabilimento di produzione, sebbene già negli anni sessanta la StMicroelectronics, che allora si chiamava S.G.S. Microelettronica, collaborasse con i Dipartimenti di Fisica e di Chimica dell’Università di Catania; nel 1987 avesse creato con l’Università di Catania il più grande laboratorio di Ricerca e Sviluppo nell’alta tecnologia nel Meridione, nonché uno dei principali d’Europa e nel 1990 avesse dato origine con l’Università di Catania e il Consorzio Catania Ricerche a SuperLab, il Laboratorio Superfici e Interfasi. In questo contesto e approfittando della collaborazione con l’Università degli studi di Catania e con il CNR, altre grandi aziende hanno deciso di realizzare nella stessa zona dei centri di ricerca utilizzando i giovani laureati presso l’Ateneo catanese. Fra le più importanti si vi sono Nokia, Vodafone, IBM, Alcatel, Telespazio, Nortel, Berna e Wyeth.

Oltre alla presenza delle grandi aziende, lo sviluppo di Etna Valley ha beneficiato dell’alto numero di strutture di ricerca (309 istituzioni scientifiche – pari al 31% del totale della rete meridionale) presenti nel sistema scientifico siciliano. All’interno dei tre Atenei di Catania, Palermo e Messina si concentra una gran parte delle attività di ricerca e sviluppo. Essi rappresentano la struttura portante della ricerca e dell’accademia siciliane con circa 160.000 iscritti e 15.000 laureati. Le altre strutture siciliane di ricerca scientifica annoverano: gli istituti e i centri della rete del CNR (Area Palermo, Catania, Messina); l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’Istituto per la Microelettronica e Microsistemi (IMM); il Consorzio Catania Ricerche cui aderiscono enti pubblici e industrie locali. Sul territorio catanese vi sono poi altre strutture di servizio e di trasferimento tecnologico come un Centro per l’Innovazione, che svolge attività di gestione, studi e servizi; un Laboratorio per lo studio delle Superfici dei Materiali (Superlab); un Media Innovation Relay Centre della Comunità Europea MEDIA, il Parco Scientifico e Tecnologico della Sicilia.

Accanto a questo insieme di strutture pubbliche e private, la sospensione dei contributi sociali per i primi sei anni ha fatto si che oggi i giovani laureati e i ricercatori catanesi dotati di alta qualificazione e professionalità abbiano dei costi nettamente inferiori rispetto agli standard internazionali rendendo l’intera area catanese ancora più competitiva.

Tutti questi fattori hanno contribuito a diffondere una cultura dell’innovazione permettendo così la nascita, nel corso degli anni ’90, del cosiddetto distretto tecnologico dell’Etna Valley. Attorno alle grandi aziende è sorto un indotto di oltre 1.500 micro aziende che producono i semilavorati per le varie produzioni e si è sviluppata una vasta area industriale densa di imprese operanti prevalentemente nel comparto high-tech, significativamente internazionalizzate, attive in numerosi progetti di ricerca e produttrici di numerosi brevetti che ha dato lavoro a circa 5.000 giovani laureati e diplomati catanesi. Questa realtà è significativa non solo nella provincia di Catania, ma grappoli tecnologici consistenti sono oggi sviluppati e presenti nell’area del ragusano, in quella messinese, nella provincia ennese e, con riferimento ad alcune grandi realtà aziendali, anche nel territorio del palermitano.

Come detto, nel distretto Etna Valley stanno nascendo anche interessanti tecnologie innovative per il settore fotovoltaico. Si tratta della tecnica Ppd (Pulsed plasma deposition), utilizzata dal reattore appositamente progettato e costruito da un team di imprese hi-tech di Catania, che consente di ottenere semiconduttori a film sottile (“thin film”: pellicole avvolte come carta da parati) utilizzabili in sostituzione dei tradizionali, costosi e pesanti wafer di silicio. È il progetto battezzato “Plasia” (progettazione e realizzazione di un sistema di deposizione al plasma di silicio amorfo su substrati plastici) realizzato, con un investimento di 1,9 milioni di euro di cui 610 mila provenienti dal POR 2000-2006, grazie alla collaborazione tra Università di Catania e le imprese dell’Etna Valley. Il thin film permetterà di generare energia dalle pareti, dalla vela di una barca o dalla custodia del notebook. Ovviamente, per ora si tratta di un’applicazione da laboratorio, per quanto collaudata e verificata, che richiede tra uno e due anni di lavoro per arrivare alla produzione industriale.

Un altro caso di sviluppo di nuove tecnologie energetiche nel distretto di Etna Valley è quello che nasce dall’accordo tra Enel Green Power, Sharp e Stmicroelectronics per realizzare la più grande fabbrica di pannelli fotovoltaici in Italia. L´impianto, che verrà realizzato a Catania nell’impianto industriale conferito da STMicroelectronics, produrrà pannelli a film sottile a tripla giunzione ad alto rendimento e avrà una capacità produttiva iniziale di 160 MW all’anno destinata ad essere incrementata nel corso dei prossimi anni a 480 MW. I tre gruppi opereranno in una partnership paritetica apportando le loro specifiche competenze: Enel Green Power, nello sviluppo del mercato delle fonti rinnovabili a livello internazionale e nel project management; Sharp, nella tecnologia esclusiva del film sottile a tripla giunzione in produzione da primavera 2010 nella fabbrica di Sakai, in Giappone; STMicroelectronics con personale altamente specializzato nella microelettronica. E´ previsto che la produzione dei pannelli nell’impianto di Catania parta all’inizio del 2011. Il progetto per la capacità produttiva iniziale di 160 MW richiederà un investimento totale di 320 milioni di euro e sarà finanziato mediante una combinazione di capitale proprio, incentivi statali e project financing. Ogni partner sottoscriverà un terzo del capitale – un contributo previsto fino a 70 milioni di euro ciascuno, in cash o in asset materiali e immateriali – e deterrà un terzo delle azioni della nuova joint venture.

In conclusione, questo articolo ha cercato di porre nella massima evidenza i problemi che contraddistinguono i settori oligopolistici come quello energetico e il ruolo che le grandi imprese energetiche potrebbero, invece, assumere nello sviluppo economico delle aree più svantaggiate come il Mezzogiorno d’Italia, dove, nel periodo della programmazione 2007-2013, saranno disponibili cospicui fondi europei per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica[7].

 

[1] In Italia vanno ricordate le aggregazioni delle aziende municipalizzate e l’acquisizione di Endesa da parte di Enel.
[2] http://dspace.unitus.it/bitstream/2067/609/1/OLIGOPOLIO-1967.pdf
[3] Per esempio il prezzo del petrolio greggio come il WTI, il Brent, l’Iranian Heavy, l’indice del paniere Opec.
[4] I prezzi finali dell’elettricità si suddividono in prezzi alla produzione (costo reale di produzione) e in prezzi alla distribuzione (prezzi al consumo). Questi ultimi oltre che dal costo reale di produzione sono influenzati, in una certa misura, anche dal rapporto tra la domanda e l’offerta che si determina nella borsa elettrica.
[5] “Petrolio, un mercato impazzito”, http://www.eguaglianzaeliberta.it/, 06/05/2006.
[6] Vedi http://iri.jrc.ec.europa.eu/research/scoreboard_2007.htm
[7] Rapporto DPS – Ministero per lo Sviluppo Economico (novembre 2007)
http://www.dps.mef.gov.it/documentazione/QSN/docs/PO/In%20adozione/POIN_Energia_FESR_SFC2007.pdf

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