Rifondare le fondazioni per gestire i beni comuni

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Political and social notes

Da qualche mese si sta sviluppando un furibondo attacco neo-liberista alle fondazioni di origine bancaria, cioè agli enti privati no profit che sono azionisti di riferimento delle maggiori banche italiane. A differenza degli economisti neo-liberisti, noi proponiamo che le fondazioni non cedano il controllo delle banche nazionali (e quindi del risparmio nazionale) ma che siano invece rifondate su nuove basi: i vertici dovrebbero essere nominati democraticamente dalle comunità di riferimento, dai cittadini e dalle associazioni della società civile. Mentre attualmente si procede per cooptazione e per nomine politiche. E’ quindi giusto criticare duramente le fondazioni e chiedere una loro “rifondazione” per gestire al meglio i beni comuni [1], in primo luogo il risparmio dei cittadini. Ma è invece assolutamente sbagliato cancellarle, trasformarle in enti caritatevoli e offrire la proprietà delle banche italiane a speculatori esteri.

Recentemente (14 novembre, “Più trasparenza e buona gestione”) gli economisti Tito Boeri, Luigi Guiso, Luigi Zingales, Roberto Perotti sulle pagine del Sole 24 Ore hanno attaccato le fondazioni perché rappresentano la “lunga mano del potere politico” nell’economia e perché negli ultimi anni il loro patrimonio ha perso il 40% circa di valore. Ma questa riduzione di valore certamente non si può imputare alle fondazioni! Infatti è la conseguenza aritmetica della crisi finanziaria globale, e in particolare della perdita di valore sul mercato azionario dei titoli bancari nel portafoglio delle fondazioni.

Nei mesi precedenti i neo-liberisti di destra e di sinistra avevano già preso la penna in mano per chiedere che il governo smantellasse le fondazioni no profit, svendesse il loro patrimonio (53 miliardi nel 2011) per ripagare il debito pubblico, e privatizzasse completamente il sistema bancario italiano aprendolo a investitori esteri. Ma il ministro Grilli aveva avuto buon gioco nel rispondere che non si può espropriare il patrimonio di enti privati quali sono le fondazioni, e che comunque è meglio ancorare le banche italiane ad azionisti nazionali stabili, come le fondazioni che hanno un’ottica non speculativa ma di lungo periodo.

Così i quattro economisti il 14 novembre hanno rivolto un appello comune al governo Monti correggendo il tiro e avanzando la proposta di cessione delle partecipazioni delle banche d’origine per diversificare il portafoglio e ridurre i rischi. La proprietà nazionale delle banche italiane potrebbe, secondo i quattro economisti, essere preservata grazie all’investimento sostitutivo dei fondi comuni italiani di investimento (in aggiunta i quattro hanno proposto di introdurre il limite massimo di due mandati per i consiglieri, bilanci trasparenti con evidenza degli emolumenti degli amministratori e la possibilità da parte dei cittadini di fare causa agli amministratori se questi sprecano il patrimonio delle fondazioni). Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera ha già risposto (18 novembre) chiarendo che questa proposta è insensata: infatti i fondi comuni sono investitori istituzionali che scelgono di volta in volta i prodotti nazionali ed esteri su cui investire per aumentare i loro rendimenti, e quindi non possono sostituire le fondazioni come azionisti stabili delle banche italiane

Per comprendere l’assurdità della proposta, occorre approfondire il ruolo che hanno le fondazioni, che rappresentano in effetti il perno dell’economia nazionale.

Le fondazioni bancarie nate con la legge Amato del 1990 sono enti ibridi e costituiscono una specificità tutta italiana: sono società di diritto privato ma senza azionisti privati, autonome e senza scopo di lucro, e devono dedicare il loro ricco patrimonio non al profitto ma allo sviluppo delle comunità locali, alla difesa della cultura, del patrimonio artistico, della ricerca, dell’ambiente, all’assistenza sociale, all’educazione, alla sanità pubblica, al volontariato e alla beneficenza. Questi enti sono nati anche come principali azionisti di riferimento (ma non di maggioranza assoluta, salvo eccezioni) delle principali banche italiane, come IntesaSanpaolo, Unicredito, Monte dei Paschi di Siena. Quindi hanno un potere enorme anche se opaco. Dal loro patrimonio di decine di miliardi di euro, investito anche e spesso soprattutto sulle banche, traggono il loro reddito che distribuiscono con criteri “di utilità sociale”. Dal 2000 al 2011 hanno erogato 15,6 miliardi di euro per scopi sociali, oltre un miliardo all’anno.

I consiglieri vengono cooptati dai vertici con meccanismi complessi, di carattere prevalentemente politico dal momento che gli enti locali – comuni, province, regioni – hanno ampi poteri di designazione, insieme alla chiesa, alle università e alle camere di commercio. I criteri di nomina per cooptazione sono quindi sostanzialmente autoreferenziali e autoconservativi. In effetti le fondazioni sono anche il terreno del compromesso storico tra ex comunisti e ex democristiani. Non a caso, per esempio, Sergio Chiamparino, ex sindaco PD di Torino è attualmente presidente della Compagnia di San Paolo, e Giuseppe Guzzetti, ex presidente democristiano della regione Lombardia, è presidente della fondazione Cariplo: insieme le due fondazioni controllano IntesaSanpaolo, la principale banca nazionale, e in pratica sono decisive nella nomina dei vertici bancari. Ma la crisi del Monte dei Paschi di Siena testimonia che anche le fondazioni guidate dai politici “di sinistra” possono gestire male il risparmio delle comunità.

Contro l’intromissione della politica nell’economia, gli economisti neo-liberisti avevano proposto, come abbiamo detto prima, di pubblicizzare il patrimonio delle fondazioni bancarie (attualmente privato, secondo una sentenza della Corte Costituzionale), e di metterlo sul mercato per ripagare il debito pubblico italiano: in pratica però, grazie alla scomparsa delle fondazioni le banche americane o inglesi o tedesche o francesi potrebbero diventare facilmente padrone dei maggiori istituti di credito nazionali. Pubblicizzare le fondazioni (come sembra proporre anche Marco Bersani sul Manifesto del 7 novembre 2012) da enti privati no profit a enti statali di diritto pubblico significherebbe metterli sotto il diretto controllo della casta politica e partitica. Sarebbe come saltare dalla padella alla brace!

A livello teorico lo scontro è tra: 1) chi considera il denaro e il risparmio dei beni privati da valorizzare a favore unicamente degli azionisti privati, 2) chi crede invece che lo stato e la politica dovrebbero mantenere un ruolo centrale nella finanza e 3) chi considera che il risparmio e il denaro sono soprattutto dei “beni comuni” che interessano le diverse comunità locali, regionali e nazionali, le quali dovrebbero controllare autonomamente i loro patrimoni e i loro risparmi nel quadro del bene comune nazionale.

Chi scrive sostiene questa terza posizione. Innanzitutto è indispensabile che le fondazioni abbiano un ruolo stabile e decisivo nell’assetto proprietario delle maggiori banche nazionali perché è assolutamente necessario che il risparmio nazionale rimanga in mano italiana, altrimenti il nostro paese non avrebbe più il controllo sul proprio futuro. Riteniamo che sia un grande vantaggio per l’Italia il fatto che le banche nazionali abbiano come azionisti di riferimento le fondazioni e che non siano – o siano solo in parte – controllate da investitori speculativi, come le banche d’affari, gli hedge fund, i fondi sovrani e altri soggetti. Infatti gli investitori speculativi, magari con sede nelle Bahamas o in Lussemburgo, hanno come solo obiettivo il profitto di breve termine e sfruttano il risparmio dei cittadini a loro profitto. Le fondazioni hanno invece, nel bene o nel male, obiettivi sociali e di lungo termine.

Il problema principale è però: come democratizzare radicalmente le fondazioni? Come cambiare la governance? Come possono i cittadini e le loro organizzazioni avere voce in questi centri di potere che gestiscono (per cooptazione) grandi patrimoni comuni delle collettività? Le risposte non sono facili. Occorrerebbe in primo luogo che dei comitati esterni e autonomi controllassero nel merito l’erogazione dei fondi delle fondazioni in modo che questi vengano assegnati con criteri trasparenti eliminando i clientelismi. Soprattutto occorrerebbe che cambiassero i criteri di nomina in modo che le associazioni e i comitati dei cittadini siano adeguatamente rappresentati; che venga superato il principio autoreferenziale di cooptazione; e che le riunioni degli organi dirigenti siano aperte al pubblico e trasmesse in rete. Le diverse comunità e associazioni di cittadini dovrebbe prevalere negli organi di vertice per decidere come investire il loro patrimonio sociale.

Delle fondazioni rifondate e controllate democraticamente dalle comunità di riferimento potrebbero avere un ruolo importante e positivo nella gestione dei servizi pubblici locali – e quindi dei beni comuni delle collettività – che i liberisti e i conservatori in politica ed economia vorrebbero espropriare alle comunità, privatizzare e mettere a profitto delle corporations, a partire dall’acqua e dagli altri servizi pubblici. In un contesto ideale, i beni comuni locali e nazionali dovrebbero essere invece assegnati in proprietà a fondazioni controllate e governate dai migliori rappresentanti delle associazioni civili [2] dei cittadini. Questo è il ruolo che proponiamo e che vorremmo assegnare alle fondazioni rifondate.

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[1] Vedi Elinor Ostrom, Governing the commons, Cambrige University Press, 1988; ed. it. Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006, e .C. Hess, E. Ostrom, La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Mondadori, Milano 2009.
[2] Vedi Peter Barnes, Capitalismo 3.0, Egea, 2006. E anche “Beyond markets and states: polycentric governance of complex economic systems”, discorso tenuto da Elinor Ostrom in occasione della cerimonia per il premio Nobel, 8 dicembre 2009.

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