Riforma dell’università: ultimo atto?

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Political and social notes

Non ancora sopito l’eco delle polemiche politiche sulla giornata del 14 dicembre (la bagarre sui “violenti” della piazza è riuscita in parte ad oscurare il cattivo spettacolo di quelli dentro il palazzo), apprendiamo che il ddl di riforma dell’università, che tanta parte ha avuto nelle proteste delle ultimi settimane, andrà in Aula al Senato questa settimana, senza relatore. La commissione Istruzione del Senato, infatti, considerata la mole di emendamenti presentati dall’opposizione, non sarebbe stata in grado di concludere l’esame in sede referente in tempo utile per l’inizio dell’esame in Assemblea (prevista per il 20 dicembre alle ore 11), nonostante l’estremo tentativo, da parte del Pd, di costringere la maggioranza ad esaminare un numero ristrettissimo di emendamenti, 3 o 4 al massimo, con l’obiettivo di strappare qualche risorsa in più su diritto allo studio e progressioni di carriera degli attuali ricercatori.

Nella settimana prima di Natale, quindi, sapremo se la saga della cosiddetta “riforma Gelmini” è arrivata all’ultimo atto, con l’approvazione definitiva mediante la fiducia (visto il gran numero di emendamenti) o se la votazione finale sarà rinviata a gennaio.

In queste ultime convulse settimane molti si sono esercitati sul tema della riforma giungendo alla fine a descrivere, al netto delle sfumature e dei distinguo, tre posizioni: i sostenitori senza se e senza ma (rintracciabili soprattutto tra gli editorialisti del Corriere della Sera e de Il Sole 24 Ore), i possibilisti che ritengono giusti molti degli obiettivi della riforma ma inadeguati gli strumenti e le risorse (si veda l’interessante dibattito in proposito su lavoce.info[1]), coloro che, come la Cgil e la maggioranza delle associazioni di docenti e ricercatori, avversano il provvedimento in quanto non separabile dalle contestuali misure finanziarie operate dal Ministro Tremonti nella manovra estiva ed in quella autunnale (in quanto, di fatto, rendono inapplicabili anche le migliori intenzioni della proposta). Non è un caso che nelle loro manifestazioni gli studenti abbiano rinominato il provvedimento “ddl Gelmini-Tremonti”.

Quello che colpisce circa questo dibattito sulla “grande” stampa e sui principali siti di informazione è il suo essere fortemente condizionato da un vizio di prospettiva soggettiva: i principali dibattenti sono professori ordinari (o comunque strutturati cui nessuna riforma, per quanto “meritocratica”, negherà un dignitoso accompagnamento verso la più o meno imminente pensione) e autorevoli opinionisti che, talora, si mostrano poco precisi sulla realtà di cui parlano. Penso ad Alberto Orioli[2], l’influente vicedirettore de Il Sole 24 Ore, il quale spiega che non basta “aver seguito un corso post-doc di 2-3 anni” per definirsi un precario della ricerca. In realtà, gli assegnisti post-doc non sono soggetti in formazione, ma studiosi tra i 30 e i 35 anni, quindi nel pieno della propria produttività scientifica, cui si deve un grosso numero delle pubblicazioni nazionali ed internazionali che le università producono, Nell’Italia del 2010, anche il poco desiderabile titolo di “precario della ricerca” è oggetto di contesa. Per ragioni facili da spiegare in un paese “bloccato” come il nostro, gli assenti dal dibattito sono proprio loro, i giovani studiosi più o meno “meritevoli” che, lottando contro la riforma farebbero gli interessi dei “baroni” (come ha sostenuto il Ministro Gelmini nelle scorse settimane), e che sulle pagine dei giornali trovano spazio solo quando si atteggiano a “caso umano”: giovane scienziato in odore di nobel costretto ed emigrare, precaria della ricerca costretta a vivere con i genitori… A tutti costoro (sono circa 25 mila i ricercatori strutturati e oltre 60 mila i cosiddetti “precari”: assegnisti, borsisti, co.co.pro) non restano che le prime due delle tre opzioni hirschmaniane[3]: exit, voice, loyalty. Moltissimi, scegliendo l’exit, sono già partiti ed hanno intrapreso carriere di soddisfazione all’estero (in buone posizioni sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista delle responsabilità, a dimostrazione che il livello dei nostri giovani accademici non è così mediocre come a volte ci vogliono far credere[4]), a chi non ha potuto o non ha voluto partire è rimasto solo il tetto o la piazza come luoghi di espressione del proprio (qualificato) punto di vista, della propria voice. Quanto alla loyalty, questa generazione ha da tempo capito che non è strategia praticabile né remunerativa in quanto per ricompensare la fedeltà (verso l’istituzione o verso il singolo referente scientifico) non sono rimaste nemmeno le briciole. Basterebbe guardare i curricula dei candidati all’ultima tornata dei “vecchi” concorsi da ricercatore o alle selezioni per gli assegni di ricerca: a contendersi le residue risorse sono decine di candidati (anche l’antica consuetudine, o stortura, del singolo candidato per concorso è saltata) che per titoli, pubblicazioni ed esperienza didattica potrebbe, in molti casi, aspirare tranquillamente ad un posto da associato.

Che cosa prospetta il combinato disposto della riforma e della manovra economica per costoro? Quanto agli attuali ricercatori non strutturati (i circa 60.000 precari), la riforma prevede l’introduzione di un contratto di ricercatore a tempo determinato (in sostituzione della “vecchia” figura del ricercatore a tempo indeterminato, messo ad esaurimento già dal Ministro Moratti nel 2005) che vorrebbe assomigliare ad una “tenure-track” anglosassone[5]. La manovra economica di luglio, però, ha stabilito che a partire dal 2011 le amministrazioni pubbliche, incluse le università, potranno spendere per i contratti a tempo determinato solo il 50% di quanto spendevano nel 2009. Nel caso delle università, secondo le stime del CPU[6], questo significa che il numero di ricercatori a tempo determinato sarà inferiore a 200 unità in tutta Italia. Verosimilmente fra 30 e 50 concorsi annui.

Al termine del periodo di “tenure”, che può durare fino ad 8 anni, in aggiunta agli anni di precariato già trascorsi, non v’è nessuna certezza che l’università abbia le risorse per assumere il non più giovane studioso poiché i tagli al fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università continueranno per i prossimi anni. Per il 2011, per esempio, lo stanziamento al FFO parte da una diminuzione di circa 1076 milioni rispetto all’anno precedente, compensata solo in parte dagli 800 milioni dell’emendamento contenuto nella legge di stabilità: il risultato è un residuo negativo di 276 milioni.

Per altro, per quanto riguarda le progressioni di carriera degli attuali ricercatori “ad esaurimento”, la stessa legge di stabilità afferma che ogni anno il ministero assegna alle università un numero imprecisato di posti da professore associato da utilizzare per chiamate, senza specificare quanti. Il costo di questi posti graverà sugli 800 milioni di reintegro del FFO (che dal 2012 diventeranno 500 milioni). Il DdL Gelmini fissa una spesa massima per queste chiamate, ma non una minima. Non esiste quindi alcuna previsione vincolante sul numero di posti.

Alla luce di queste considerazioni è veramente difficile che un giovane ricercatore, strutturato o non strutturato, possa salutare favorevolmente l’approvazione della riforma. E così uno studente cui i fondi per il diritto allo studio sono stati dimezzati. Ben diversa appare la prospettiva di un ordinario alla fine della propria carriera il quale, al peggio, vedrà partire i propri migliori allievi.

Non appare lecita, dunque, l’operazione di chi tenta di separare gli aspetti procedurali e normativi del ddl da quelli finanziari poiché il suo effetto reale sarà dato dal combinato disposto delle due cose. Lo hanno capito bene i precari e gli studenti che, con i loro striscioni, hanno spiegato che senza ricerca il futuro non può cominciare.

 

* Università di Milano, segretaria Flc-Cgil Milano

 

[1] D. Checchi e T. Japelli, L’università dell’incertezza, 26 Novembre 2010, M. Regini, L’Università della conservazione, 3 Dicembre 2010.
[2] A. Orioli, Il merito all’Università è un aiuto ai giovani. Ecco perché. Il Sole 24 Ore, 1 Dicembre 2010.
[3] A. O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello Stato. Bompiani, 2002.
[4] Per un’analisi dell’impatto scientifico dell’Italia si rimanda a G. de Nicolao, The scientific impact of Italy, relazione presentata all’Accademia dei Lincei, Roma, 28 Settembre 2010. Anche online su www.corpolimi.it
[5] Una forma di reclutamento per cui, durante il periodo di “prova” del giovane ricercatore, l’università accantona le risorse per la sua successiva assunzione.
[6] CPU, Coordinamento nazionale dei precari della didattica e della ricerca.

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