Se tre anni vi sembrano pochi… Le proposte del PD sul mercato del lavoro

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Political and social notes

Sembra ormai di poter dire che nella trattativa sulla riforma del mercato del lavoro il PD intenda muoversi nel perimetro definito da due proposte elaborate negli anni scorsi dai suoi parlamentari: 1) il disegno di legge n. 2000/2010 presentato dal sen. Nerozzi, che prevede l’istituzione del “contratto unico di ingresso” (CUI); 2) la proposta di legge n. 2630/2009 – presentata dall’on. Madia, sostenuta tra gli altri da Cesare Damiano, che mira ad introdurre il “contratto unico di inserimento formativo” (CUIF). La tesi spesso ripetuta in queste settimane è che ciascuna delle riforme proposte consentirebbe di ridurre la precarietà estendendo ai neoassunti, sia pure dopo un periodo iniziale, le attuali tutele contro i licenziamenti illegittimi, inclusa la reintegrazione prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma è davvero così? Per cercare di capirlo esaminiamole da vicino.

Il CUI è un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la cui principale caratteristica è la possibilità concessa al datore di lavoro per un periodo massimo di tre anni – la cd. “fase di ingresso” – di effettuare un licenziamento senza che il lavoratore possa ricorrere in giudizio, salvi i casi di licenziamento disciplinare, discriminatorio o determinato da un “motivo futile totalmente estraneo alle esigenze proprie del processo produttivo”, come ad esempio il tifo calcistico o l’antipatia personale, rispetto ai quali continuerebbe ad applicarsi l’attuale normativa. Tale riduzione della tutela giudiziale verrebbe compensata dall’obbligo di corrispondere al lavoratore un modesto indennizzo, pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione. Al termine della fase di ingresso, il datore di lavoro dovrebbe necessariamente decidere se licenziare il lavoratore e corrispondergli l’indennizzo maturato, oppure mantenere in vita il rapporto di lavoro. In quest’ultimo caso inizierebbero ad applicarsi integralmente le attuali tutele, inclusa la reintegrazione prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Secondo gli autori del disegno di legge, il passaggio del lavoratore alla fase della stabilità del CUI sarebbe molto probabile in virtù dell’interesse del datore di lavoro a non perdere l’investimento effettuato nella sua formazione (investimento per il quale non viene in realtà previsto alcun obbligo). Si tratta di un’argomentazione assai poco convincente, specie se riferita ai lavoratori adibiti a mansioni che non richiedono un particolare addestramento. Verosimilmente, molti di questi verrebbero licenziati e costretti ad iniziare altrove una nuova fase di ingresso (terminata tale fase non è ovviamente consentito assumere una seconda volta con il CUI il medesimo lavoratore). Eppure è soprattutto a questa tipologia di lavoratori che la nuova forma contrattuale si rivolge. Per coloro che percepiscono retribuzioni anche soltanto medie vengono infatti previste altre possibilità di impiego: 1) con il contratto a termine, ogniqualvolta la retribuzione superi i 25.000 euro lordi annui (poco meno di 1.400 euro netti per 13 mensilità), anche se la posizione è a tempo indeterminato (il carattere temporaneo della prestazione è richiesto solo in caso di retribuzione inferiore a quel limite); 2) con il rapporto di lavoro autonomo continuativo, di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione, ogniqualvolta la retribuzione lorda annua superi i 30.000 euro (circa 1.600 euro netti per 13 mensilità), un limite ridotto della metà per i primi due anni di iscrizione alla gestione separata INPS.

Con la proposta Nerozzi un giovane alla prima esperienza lavorativa potrebbe avere perciò di fronte a sé cinque (o anche più) anni di precariato con lo stesso datore di lavoro: due da collaboratore, se inizialmente guadagnasse più di 15.000 euro lordi l’anno, e tre come dipendente assunto con il CUI. Al termine di tale periodo potrebbe essere licenziato e costretto ad iniziare altrove una nuova fase di ingresso, oppure, se percepisse circa 1.400 euro netti mensili potrebbe essere assunto per altri tre anni con un contratto a termine, nonostante il carattere ormai palesemente non temporaneo della prestazione. Alla fine di questo periodo nulla gli assicurerebbe ancora l’assunzione a tempo indeterminato. Potrebbe infatti vedere interrotto il rapporto di lavoro, o se fosse tanto bravo da meritare una retribuzione di 1.600 euro netti mensili potrebbe venir impiegato come collaboratore dal suo stesso datore di lavoro, esattamente come otto anni prima.

In sintesi, si può dire che la proposta Nerozzi crei due forme di precarietà: una per i lavoratori con una retribuzione bassa e costante nel tempo, molti dei quali sarebbero in tutta probabilità costretti a cambiare frequentemente occupazione senza mai raggiungere la fase della stabilità prevista dal CUI; un’altra per i lavoratori con una retribuzione moderatamente crescente, o comunque relativamente più elevata, che potrebbero avere un rapporto più duraturo con lo stesso datore di lavoro, rinunciando però di fatto alle tutele contro i licenziamenti illegittimi. Chi raggiungerebbe allora la fase della stabilità? Molto probabilmente solo i lavoratori difficilmente sostituibili, che nessuno già oggi si sognerebbe di definire precari.

Veniamo ora alla proposta Madia, secondo la quale il lavoratore verrebbe di fatto assunto a termine per un periodo compreso tra un minimo di sei mesi ed un massimo di tre anni (la cd. fase di “abilitazione”, con durata predeterminata dai CCNL), senza tuttavia godere di molti dei diritti e delle tutele oggi previste dal contratto a tempo determinato.

In primo luogo, durante la fase di abilitazione il lavoratore non verrebbe equiparato ai lavoratori a tempo indeterminato né per il trattamento economico né per quello previdenziale. A parità di inquadramento, il lavoratore assunto con il CUIF percepirebbe una retribuzione nettamente inferiore (viene previsto un livello minimo pari al “65 per cento della retribuzione di riferimento”). Essa aumenterebbe via via che venissero raggiunti gli obiettivi formativi fino al conseguimento della parità con il suo livello di riferimento entro la fine del periodo di abilitazione, secondo i tempi stabiliti dal CCNL. Inoltre, il datore di lavoro che dimostrasse l’effettivo svolgimento dell’attività di formazione godrebbe di sensibili sgravi contributivi, che l’attuale sistema previdenziale tradurrebbe in altrettante riduzioni delle future prestazioni. Infine, mentre il recesso del datore di lavoro dal contratto a tempo determinato, fino alla data di scadenza indicata all’assunzione, è ammesso solo per giusta causa (non è previsto il giustificato motivo, oggettivo o soggettivo), la proposta Madia prevede che nella fase di abilitazione il datore di lavoro possa recedere addirittura ad nutum (senza obbligo di motivazione, con il solo rispetto dei termini di preavviso). Una simile possibilità non viene oggi concessa neppure nei confronti degli apprendisti, esposti al libero recesso del datore di lavoro soltanto alla fine del periodo di tirocinio. Al termine dell’abilitazione, il datore di lavoro non avrebbe alcun obbligo di assunzione a tempo indeterminato, potendo interrompere il rapporto con il solo obbligo di un preavviso di almeno sessanta giorni.

Per incentivare la trasformazione a tempo indeterminato del contratto vengono previsti ulteriori e più consistenti sgravi contributivi (che comportano ulteriori e più consistenti tagli alla pensione del lavoratore) per un periodo esattamente pari a quello di abilitazione, detto stavolta di “consolidamento professionale”. In aggiunta all’ovvio divieto di riassumere il lavoratore con il CUIF viene previsto che si possano stipulare nuovi contratti di questo tipo solo se non se ne siano interrotti più della metà nei due anni precedenti. Tale vincolo non è tuttavia particolarmente stringente. Consente infatti di sostituire ogni anno la metà dei lavoratori assunti con la nuova forma contrattuale. Il datore di lavoro sarebbe perciò sostanzialmente libero di sfruttare permanentemente i vantaggi della fase di abilitazione senza mai assumere a tempo indeterminato.

È dunque ragionevole ritenere che anche con la riforma Madia i lavoratori facilmente sostituibili sarebbero costretti a cambiare frequentemente occupazione. I blandi vincoli all’utilizzo dei rapporti di collaborazione, di lavoro occasionale e a progetto (vietati solo per le basse qualifiche, da definirsi in sede di contrattazione nazionale), rendono inoltre probabile per i lavoratori di qualifica media e medio-alta l’instaurarsi di rapporti di lavoro più duraturi, ma di nuovo al prezzo di rinunciare alle tutele oggi previste per i dipendenti.

Di fronte a simili scenari appaiono del tutto secondari sia il ritorno al sistema delle causali per il contratto a tempo determinato sia la tanto propagandata abrogazione di alcune forme contrattuali (il lavoro intermittente e ripartito, l’apprendistato professionalizzante e per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione, il contratto di inserimento, il contratto di formazione e lavoro).

Sia concessa un’ultima considerazione. Le forme contrattuali proposte dal PD – il CUIF in modo particolare – presentano delle similarità con il contrat nouvelles embauches (CNE) francese. Introdotto nell’estate del 2005 dal Governo de Villepin, il CNE prevedeva che nei primi due anni (il cd. période de consolidation) il datore di lavoro potesse effettuare un licenziamento senza doverne specificare i motivi, corrispondendo un indennizzo al lavoratore licenziato. Sia la magistratura francese che l’International Labour Organization hanno dichiarato contraria al diritto internazionale del lavoro la durata di due anni della fase iniziale del CNE, costringendo infine il Governo di centrodestra a fare marcia indietro. I dirigenti del PD sembrano invece in grado di convincere gli italiani che neppure tre anni sarebbero troppi. Evidentemente aveva ragione Agnelli: per le controriforme bisogna rivolgersi al centrosinistra.

*Università di Roma “La Sapienza”

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