Apparenza e realtà della crescita economica nelle Repubbliche Baltiche

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Le ricette economiche liberiste proposte e avallate dall’UE, sembrano aver trovato la loro massima attuazione proprio nelle tre piccole Repubbliche bagnate dal Mar Baltico, che dopo il collasso [1] del biennio 2008/2009, si sono distinte per ottimi output negli indicatori macroeconomici generali. Questa è la versione ufficiale diffusa dagli esponenti “mainstream” più ortodossi [2]. Ma c’è da fidarsi?

Apparentemente, si. Dopo un periodo molto difficile si è assistito ad una decisa ripresa del PIL nazionale e a una robusta riduzione del tasso di disoccupazione, nonché a un miglioramento del rapporto debito/Pil.

In realtà, né si né no. Un’interpretazione così asettica rischia di essere poco prudente [3]. Infatti, analizzando criticamente e in profondità gli indicatori sociali e relativi al mondo del lavoro, ci si rende facilmente conto delle debolezze e delle forti criticità strutturali della ripresa economica delle ex Repubbliche sovietiche. Vediamo nel dettaglio il perché.

 1. La repentina accelerazione dei fenomeni migratori

Nonostante i fulgidi proclami, la presunta ripresa Baltica non è avvenuta senza il sostenimento di pesanti costi sociali. In primo luogo, il grafico seguente – proposto in scala logaritmica per evidenziare le variazioni relative e comparate – mostra come il fenomeno migratorio abbia accelerato proprio nella finestra temporale 2007/2012 (limitatamente ai dati disponibili), con un picco più o meno condiviso nell’anno 2010.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Grafico 1

 

La tabella 1 mette, invece,  a confronto la media aritmetica dei flussi migratori del periodo antecedente la crisi (1998/2007) con quella del periodo immediatamente successivo (2008/2012). Nello specifico, la Lituania è il Paese che ha mostrato l’incremento relativo maggiore (+106,0%), passando dai 23.530,7 ai 48.474 emigranti annui, mentre l’Estonia è quello che ha fatto registrare la crescita relativa minore (+74,03%), passando dai 3.090,7 ai 5.378,6 emigranti annui.

 

Tabella 1. Dinamica del numero medio annuo degli emigranti.

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat.

 

E a fronte di tali impetuosi movimenti in uscita, non ci sono state altrettante compensazioni in entrata, con l’effetto di aggravare il saldo migratorio (differenza tra il numero di immigrati e quello di emigrati) per tutto il periodo post crisi (grafico 2).

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Grafico 2

 

Non a caso, se consideriamo il periodo che va dal 1° Gennaio 2007 al 1° Gennaio 2014, notiamo chiaramente come le Repubbliche Baltiche abbiano sperimentato i più forti decrementi relativi nella dinamica demografica. La tabella 2 riporta i dati relativi  ai soli Paesi dell’UE (in totale 9) che hanno registrato una diminuzione nel saldo demografico durante la crisi economica; ebbene, Lituania e Lettonia si collocano ai primi posti della poco virtuosa graduatoria, con decrementi relativi molto prossimi al 10% e in netta controtendenza con la media europea pari al +1,81%. In particolare, la Lituania ha visto calare la sua popolazione totale di 306,51 mila unità, mentre la Lettonia di 207,37 mila. Meno pesante il bilancio dell’Estonia sia in termini percentuali che assoluti, con una perdita netta di “soli” 27,1 mila abitanti.

Un output che non riflette sicuramente quello di una regione attrattiva e in salute. Tutt’al più, i flussi migratori in uscita denotano ed evidenziano i forti squilibri sociali ed economici dell’area, nonché l’incapacità istituzionale di arginare il fenomeno attraverso la predisposizione di adeguate politiche lavorative di assorbimento interno.

 

Tabella 2. Variazioni demografiche durante la crisi nei Paesi UE.Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Dati in migliaia.

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P=provvisorio  s=stimato

  1. Disoccupazione e precarizzazione del mercato del lavoro

L’instabilità sociale interna non ha potuto che travolgere anche il mercato del lavoro, ben lontano dalla brillante situazione pre-crisi. Nonostante le statistiche ufficiali certifichino un notevole abbassamento del tasso di disoccupazione rispetto all’apogeo toccato nel 2010 (da una media del 18% ad una media del 10,77% nel 2013, per l’intera area), i dati grezzi sembrano propinare una realtà ben più complessa [4]. Infatti, nel periodo 2007/2013 il numero dei disoccupati (dai 15 ai 74 anni) ha fatto segnare un consistente aumento in tutti e 3 i Paesi; l’aumento relativo più consistente ha investito la Lituania con un rilevante +167,86% e ben 108,1 mila persone estromesse dal mercato del lavoro. A questo punto, si potrebbe obiettare che l’aumento sia dovuto solo ai bassi valori di riferimento pre-crisi e che probabilmente la forbice sarà presto chiusa. Tuttavia, come appurato in precedenza, l’area considerata ha subìto una variazione demografica fortemente negativa, che unitamente ai pessimi dati sulla dinamica degli occupati (tabella 4), permette di escludere tale peculiare circostanza. Difatti, nonostante la decisa deflazione demografica, il numero degli inoccupati è cresciuto copiosamente.

Tabella 3. Scostamento del numero dei disoccupati (15-74 anni).

tab3 Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Dati in migliaia.

 

Tabella 4. Variazione del numero degli occupati (15-74 anni).

tab4Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Dati in migliaia.

 

A tutto ciò va aggiunta anche la progressiva precarizzazione del mondo del lavoro, che ha visto da un lato crescere notevolmente il numero dei lavoratori flessibili e a tempo determinato in tutta la regione (tabella 5), e dall’altro collassare quello dei lavoratori a tempo indeterminato (tabella 6). Complessivamente, è possibile registrare un aumento di 38,4 mila unità di lavoratori part-time, con la Lituania testa di serie, che ha fatto segnare un incremento relativo del 26,10%, seguita dall’Estonia con un +17,91%. Sembra aver limitato i danni la sola Lettonia, ferma a una modesta crescita del 7,61%. Tuttavia, la Repubblica lettone è quella che ha subìto il crollo maggiore nella dinamica dei lavoratori a tempo indeterminato (-17,05%), confermando il trend generale.

 

Tabella 5. Dinamica dei lavoratori part-time ( 15-74 anni).

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Dati in migliaia. *Valore del 2008.

Tabella 6. Dinamica dei lavoratori a tempo indeterminato ( 15-74 anni).

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Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Dati in migliaia.

Come conseguenza diretta dell’indebolimento dei lavoratori, anche la quota di PIL totale ad essi destinata è diminuita. Stiamo parlando della cosiddetta quota salari, il rapporto fra il monte salari (nominale) e il reddito nazionale complessivo (nominale). Il grafico seguente mostra chiaramente come nell’arco temporale considerato, la quota salari segua una doppia parabola, prima ascendente e poi discendente. Infatti, dal 2007 al 2009, rileviamo un notevole incremento medio del 4,84% per l’intera regione, dovuto probabilmente alla contestuale caduta libera del denominatore della frazione (la contrazione del PIL è stata così repentina da prevalere sui salari). Successivamente, invece, nonostante il PIL abbia mostrato concreti segnali di ripresa (grafico 4),  la quota salari ha ceduto mediamente il 4,41%. Il crollo più evidente ha interessato la Lituania, che ha lasciato sul campo ben 6,66 punti percentuali.Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat. Dati in migliaia.

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Fonte: dati AMECO. Grafico 3

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Fonte: dati FMI. Grafico 4

 

Una dinamica che è stato la naturale conseguenza della forte politica di deflazione salariale che gli stati Baltici hanno adottato per recuperare competitività interna [5]. In particolare, la Lettonia con una contrazione del 17,47% ha conosciuto la più forte compressione salariale della regione, seguita da Lituania (-10,19%) e Estonia (-6,46%).

Ed è questa la reale fotografia di un’area  che – per la sua capacità di attuale politiche fiscali efficienti ed efficaci – è stata elevata a punto di riferimento per le “periferie” europee. Tuttavia, anche in questo caso possiamo rinvenire una forte imprecisione di fondo. Secondo uno studio sui dati di bilancio statali realizzato dal Levy Economics Institute of Bard College, la realtà sarebbe ben diversa. Infatti, durante il periodo 2007/2012 (ma anche in séguito), le tre Repubbliche Baltiche hanno potuto usufruire massicciamente dei fondi europei; una condizione che ha permesso di inscenare solo un’apparente austerità. A semplice titolo d’esempio, nel 2012 il 20% della spesa pubblica estone è stato finanziato attraverso aiuti UE [6].

Viene naturale domandarsi cosa sarebbe successo senza tale imponente afflusso finanziario in entrata. Probabilmente, i costi sociali sarebbero stati anche più ingenti, e parafrasando Mario Monti, chissà quante “manovre lacrime e sangue” sarebbero state necessarie.

 

[1] Secondo le statistiche pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale, l’area ha sperimentato la più disastrosa caduta  (in termini relativi) di reddito aggregato al mondo. Solo nel 2009, Estonia, Lettonia e Lituania hanno perso rispettivamente il 20%, il 25% e il 17% del loro PIL totale.
[2] Bandow D., The Triumph Of Good Economics: ‘Austere’ Baltic States Outgrow Their European Neighbors, Forbes, 15 April 2013.
[3] Karsten S. (2013), “Austerity in Baltic states during  the global financial crisis”, Intereconomics, 48(5), 293-302.
[4] Al 2007, Estonia, Lettonia e Lituania presentavano rispettivamente tassi di disoccupazione del 4,6%, 6,1% e 4,3%; ben al di sotto della media UE-28 del 7,2% (dati Eurostat).
[5] Sippola M. (2013), “The Awkward Choices Facing the Baltic Worker: Exit or Loyalty, Journal of Baltic Studies, 44(4), 451-473.
[6] Rainer Kattel & Ringa Raudla, Austerity that never was? The Baltic States and the Crisis, Levy Economics Institute of Bard College, Policy note, 2012/5.

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