La scienza triste e la farfalla di Lorenz

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Come mai economisti accademici, consiglieri economici ed analisti finanziari hanno sottovalutato e, in alcuni casi, completamente ignorato, i segnali della crisi esplosa nell’estate del 2007? È questa, da molti mesi, la domanda posta insistentemente da quotidiani, blog finanziari e talk show televisivi; al centro di dibattiti e convegni di mezzo mondo. Una riposta semplice, ma non banale, è che da tempo gli economisti hanno abbandonato lo studio dei classici del pensiero economico. È un fatto che nelle università occidentali l’economics, un tempo “economia politica”, sia stata ridotta, nel corso degli ultimi vent’anni, a mero tecnicismo. Un tecnicismo autoreferenziale, autistico[1] – fatto di improbabili microfondazioni e di sofisticati, ma asettici, modelli econometrici – e nient’affatto disinteressato. Da decenni, infatti, gli economisti accademici mainstream sono assurti al ruolo, in verità assai ambito, di moderni consiglieri del principe. Occupano scranni parlamentari, poltrone ministeriali e posti nei consigli di amministrazione di prestigiose banche d’affari e società multinazionali. Un ruolo che garantisce loro notorietà mediatica, denaro e potere; e alla loro disciplina uno status privilegiato nell’ambito delle scienze sociali (si parla, non a caso, di “imperialismo” della scienza economica). Nel 1979 Edward Lorenz, il padre della moderna teoria del caos, si chiese se il battito d’ali d’una farfalla in Brasile potesse provocare un tornado in Texas. Verrebbe oggi da chiedersi se davvero fosse impossibile cogliere l’elemento di insostenibilità dell’attuale assetto economico mondiale, costruito sul binomio deflazione salariale-inflazione degli assets. Un binomio esplosivo che ha reso le economie capitalistiche occidentali, già intrinsecamente instabili (lo sapevano bene Marx, Keynes e Minsky), più simili ai sistemi caotici studiati da Lorenz che al cosmo newtoniano agognato dai cultori della “mano invisibile” del mercato.

I tacchini

Un aspetto paradossale è che proprio mentre gli economisti accademici vengono messi sotto accusa da media ed opinione pubblica per non aver previsto la crisi in atto, l’economia mainstream non è mai stata così pervasiva. Parole d’ordine e categorie di pensiero elaborate nelle università d’oltreoceano, veicolate dall’insegnamento universitario e dal circuito mediale, escono sempre più di frequente dalle mura anguste dei dipartimenti di economics per entrare a far parte del senso comune. Non è difficile scorgerne l’influenza nemmeno in quelle culture che pure si vorrebbero fortemente critiche nei confronti del pensiero dominante. Alcuni esempi? “Scarsità” e “sovranità del consumatore”, categorie-cardine della scienza economica mainstream, costituiscono da tempo la base ideologica di parte delle rivendicazioni provenienti dal mondo ambientalista[2]. Esistono poi luoghi comuni anche più pericolosi e difficili da sradicare, come quelli sulla presunta insostenibilità del debito pubblico italiano o sulla necessità di affiancare alla previdenza sociale pubblica forme di previdenza integrativa privata. Benché non sia stata avanzata, sino ad ora, alcuna seria argomentazione teorica, né sia stata portata alcuna evidenza empirica a sostegno di tali tesi, esse sembrano essere ormai penetrate nel senso comune. D’altra parte, la situazione nelle università italiane non è migliore. Nel corso degli ultimi trent’anni è venuta progressivamente meno non soltanto la critica dell’economia politica, ma la stessa idea di economia politica critica (di Keyens, Schumpeter e Sraffa), ossia di una scienza sociale, politicamente significante. L’avvento dell’econometria sta, del resto, progressivamente azzerando ogni spazio residuo per la teoria economica. Come il tacchino di Russel che, sicuro della robustezza delle proprie osservazioni, si stupì allorché la mattina della vigilia di Natale la padrona, anziché riempirgli come di consueto la ciotola, gli tirò il collo, i moderni economisti si illudono di ridurre la teoria a mera induzione dal dato empirico. Riescono in tal modo a prevedere tutto, tranne… gli imprevisti.

La farfalla

Da dove viene allora la crisi dei mutui? Alla fine degli anni settanta, la rivoluzione conservatrice di Thatcher e Reagan mette fine alla lunga stagione di lotte operaie che aveva visto crescere la quota salari sul PIL in tutti i paesi occidentali, minacciando i profitti delle imprese. Con l’affermazione dei governi conservatori, viene inaugurata una nuova stagione, caratterizzata da bassi salari, alti tas-si di interesse e una politica valutaria di cambi (sostanzialmente) fissi, in grado di assicurare un clima di austerità monetaria. La resistenza delle organizzazioni sindacali è infine fiaccata, ma si mani-festa il rischio di un’insufficienza globale di domanda. Eppure, a partire dagli anni ottanta la varia-bile chiave per la crescita mondiale diventano i consumi privati delle famiglie americane. Gli Stati Uniti, e gli altri paesi anglofoni, divengono la “spugna assorbente” delle eccedenze mondiali[3]. L’Europa può, in tal modo, riscoprire la propria antica vocazione mercantilista, puntando sul traino delle esportazioni nette: macchinari e tecnologia dalla Germania e dai paesi scandinavi; manufatti a basso costo dall’Italia (minacciata, sempre più, dai temibili competitori asiatici). Ma se i salari dei lavoratori americani non crescono, come possono crescere i consumi? La risposta è che, soprattutto nel corso degli anni novanta, crescono vertiginosamente i mercati finanziari e, con essi, la ricchezza finanziaria che alimenta i consumi “autonomi” delle famiglie. Queste ultime sono state inglobate nel meccanismo della finanza globale, anche attraverso la rete della previdenza integrativa. Il salariato americano diviene, così, al contempo, un “lavoratore traumatizzato” (per via dello stallo dei salari e della condizione di crescente precarietà lavorativa), ma anche un “risparmiatore bipolare”, la cui propensione a spendere si lega sempre più all’andamento degli indici azionari[4]. Ma da cosa dipende la crescita esponenziale di Wall Street registrata nel corso degli anni novanta? Essenzialmente da tre fattori: anzitutto, dal massiccio afflusso di capitali dall’estero, in fuga dalle crisi di Messico, Asia e Russia; in secondo luogo, dalla ricerca spasmodica della massimizzazione dello shareholder value delle imprese quotate, attraverso la distribuzione di stock option ai manager; infine, dalla politica monetaria espansiva della Fed che, sotto la direzione di Greenspan, culla il sogno proibito di pilotare l’economia americana, “di bolla in bolla”, via “effetti ricchezza”, lungo un sentiero di crescita indefinita. È il passaggio dal vecchio “Monetarismo” al “Nuovo Consenso”, che configura una sorta di “keynesismo finanziario” caratterizzato da un ritrovato interventismo dello stato in economia, ma con il primato della politica monetaria. D’altra parte, l’inflazione si trasferisce dal mercato dei beni e servizi a quello degli assets (salvo tornare poi periodicamente alle commodities e agli idrocarburi, allorché si manifestano lì migliori occasioni di guadagno in conto capitale)[5].

Il tornado

“La stabilità è destabilizzante”, non si stancava di ripetere Hyman Phelp Minsky[6]. Sicché, a dispetto della retorica sulle proprietà prodigiose della Nuova Economia, la crescita euforica dei mercati finanziari non solo non poteva procedere all’infinito (con piccole start-up tecnologiche quotate più della, pur malconcia, General Motors), vista la leva che era stata fatta sui titoli, ma aveva posto le premesse per una repentina, quanto drastica, inversione del ciclo. Del resto, se è vero che la crisi è sempre la risultante di cause reali, osservava Marx, il punto di inversione viene in genere posticipato, e accentuato, dalla speculazione al rialzo sul prezzo delle merci e dei titoli[7]. In effetti, la crisi scoppiata negli Stati uniti nel 2001 aveva le proprie radici nel lungo periodo di crescita economica culminato negli anni della presidenza Clinton. Ma è solo con l’insediamento di Bush jr. alla Casa Bianca che si assiste allo scoppio della bolla delle dot-com (e qui come non ricordare le considerazioni di Keynes sugli effetti prodotti dal timore di un governo ostile[8]). Nel volgere di poche settimane, gli investimenti cadono a picco, i capitali fuggono, mentre il panico paralizza i consumi delle famiglie. L’amministrazione Bush ricorre alla leva fiscale: taglio della pressione fiscale (sui redditi elevati) e spesa militare. Ma ancora una volta è la leva monetaria, con la repentina riduzione dei tassi di interesse decisa dalla Federal Reserve, a giocare un ruolo decisivo. Lo spavento è grande, ma l’operazione riesce. A partire dal 2003 l’economia americana, e con essa l’economia mondiale, riprende a crescere. E ancora una volta la crescita è trainata dai consumi delle famiglie americane. Stavolta sono il credito al consumo, le carte revolving, i mutui facili e una nuova ingegneria finanziaria a garantire il prodigio. Ma ciò non sarebbe stato possibile senza la politica accomodante della Fed, né senza la modificazione del sistema bancario americano e il conseguente afflusso di capitali verso il settore degli immobili, la cui continua rivalutazione trasforma le case in “bancomat”. Dopo il lavoratore spaventato e il risparmiatore maniacale, si materializza una terza figura: quella del “consumatore indebitato”[9].

L’ombrello

Dal canto loro le banche americane si illudono di aver trovato il modo di scaricare e diluire il ri-schio sull’intera platea di risparmiatori. Per di più, se prima concedevano credito mantenendo un rapporto prestabilito con i depositi della clientela, a partire dagli anni ottanta cominciano a prestare sulla base del loro patrimonio, ossia dei titoli ed delle altre attività iscritte in bilancio . Il debito delle famiglie viene ora stipulato da un broker che lo cede alla banca (mediante una società veicolo), e da questa, una volta opportunamente “impacchettato”, viene ceduto agli investitori istituzionali (fondi speculativi, i ben noti hedge funds, ma anche fondi pensione). A garantire la qualità dei titoli, sovente negoziati in mercati non regolamentati né vigilati (come i credit default swap, CDS), dovrebbero provvedere le cosiddette agenzie di rating (Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch), le quali sostituiscono al tradizionale rapporto fiduciario con il cliente, una stima del rischio di insolvenza ottenuta mediante sofisticati modelli econometrici. A garantire il contenimento e la diluizione del rischio dovrebbero, del resto, provvedere le collarized debt obligations (o CDO), le famigerate obbligazioni “salsiccia”, e gli altri prodotti derivati, i quali trasformano il sistema in una casinò economy. L’illusione è che, in virtù di un mirato processo di packaging, l’ingegneria finanziaria sia in grado di rendere i titoli finanziari più sicuri dei beni su cui quegli stessi titoli si fondano[11]. Ma i titoli non rimangono nelle casse degli investitori. Vengono, invece, utilizzati come garanzia per ottenere nuovi prestiti, magari finendo negli attivi delle stesse banche che li avevano emessi e che su tale base erogano nuovi prestiti. Accade così che la bolla dei consumi venga finanziata con la bolla dei debiti (di famiglie e società finanziarie), alimentata dalla bolla degli immobili, alimentata, a sua volta, dalla bolla del credito[12]. Allorché si verificano le prime insolvenze e la vendita di immobili produce una repentina inversione nell’andamento del loro valore di mercato, ne consegue una deflagrazione colossale. L’incertezza e il sospetto si diffondono come un virus lungo i circuiti telematici della finanza e del credito: nessuno si fida più di nessuno. Siamo all’inizio dell’estate del 2007, ma dovranno passare ancora molti mesi prima che governi, economisti mainstream ed industriali si accorgano di quello che sta succedendo. Aveva proprio ragione il canuto Galbraith, un economista che, all’occasione, non disdegnava di recarsi in soffitta[13]: sarebbe buona norma, di tanto in tanto, separare i soldi (e la scienza economica) dagli imbecilli.

* Questo articolo è la versione riveduta e corretta della “lezione in piazza” tenuta a Ferrara mercoledì 1 luglio. Ringrazio gli studenti dell’“Onda” di Ferrara per la splendida serata e per il loro impegno a favore di un’università pubblica e di qualità. Al solito, la responsabilità per le tesi sostenute deve essere considerata interamente mia.
[1] Autismo che ha suscitato la dura presa di posizione di una parte degli studenti universitari in Francia e Regno Unito. Si veda, al riguardo, il sito autisme-economie.org.
[2] Quanto alla categoria di “scarsità”, il riferimento è non tanto al paventato rischio dell’esaurimento dei giacimenti di idrocarburi, il famigerato picco di Hubbert, quanto allo slogan decrescista secondo cui sarebbe da pazzi pensare ad una “crescita infinita in un mondo finito”. Il fatto è che la crescita economica è crescita di “valori d’uso” solo nella misura in cui questi veicolino un maggior “valore” (in termini monetari). D’altra parte, la stessa crescita in termini di valori d’uso non è necessariamente crescita nella quantità di merci tangibili. Né comporta, di per sé, un maggior impatto in termini di dissipazione energetica (entropia). Il problema non è, dunque, la scelta tra crescita e decrescita, ma, piuttosto, “quale” crescita si voglia. Un problema che attiene alla struttura della produzione, e al comando su tale struttura. Non è, invece, banalmente, una questione di scarsità (si veda, al riguardo, L. Cavallaro, “La nouvelle vague della decrescita”, il manifesto, 16 settembre 2007). Venendo al “consumo critico”, l’idea di una rivoluzione con il carrello della spesa cozza contro l’evidenza che il consumatore, critico o acritico che sia, può scegliere quanto e cosa comprare soltanto a valle del processo produttivo, nei limiti di ciò che è già stato prodotto. Le decisioni circa la struttura della produzione spettano alle imprese. Sono queste ultime ad orientare i comportamenti di consumo (mediante pubblicità, campagne di marke-ting, ecc.) della clientela, e non viceversa. Nulla di male, dunque, nello scegliere un pomodoro biologico o una lattina di Ubuntu Cola. Ma sarebbe bene non farsi troppe illusioni.
[3] Si veda, al riguardo, E. Brancaccio, “La crisi di un mondo di bassi salari”, Liberazione, 19 febbraio 2009.
[4] Si vedano R. Bellofiore e J. Halevi, “Lo stato è intervenuto anche nel ‘neoliberismo’”, il manifesto, 24 ottobre 2008.
[5] I prezzi di beni di consumo e servizi si mantengono, invece, relativamente stabili grazie ai bassi salari e all’afflusso di merci a basso costo dai paesi asiatici (si pensi al fenomeno Wal Mart).
[6] Si veda H. P. Minsky, Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ‘29, Torino: Einaudi, 1984.
[7] Si veda K. Marx, Il capitale. Libro terzo, Roma: Editori Riuniti, 1965[1894].
[8] Si veda J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Milano: Milano Finanza Edito-ri, 2006[1936], p. 292.
[9] Si vedano R. Bellofiore e J. Halevi, “Lo stato è intervenuto anche nel ‘neoliberismo’”, il manifesto, 24 ottobre 2008.
[10] Si veda M. Ricci, “Da subprime a Cdo: la crisi in sette clic”, la Repubblica, venerdì 22 maggio 2009.
[11] È questa, in estrema sintesi, la motivazione sulla base della quale nel dicembre del 1997 l’Accademia di Svezia con-ferisce il premio Nobel per l’economia agli americani R. C. Merton e M. Scholes. Sta di fatto che l’anno successivo, LTCM, l’hedge fund nel cui consiglio di amministrazione siedono i due economisti, dichiarerà fallimento.
[12] Si veda M. Ricci, “Da subprime a Cdo: la crisi in sette clic”, la Repubblica, venerdì 22 maggio 2009.
[13] Giusta l’espressione di Schumpeter per il quale “Senza dubbio, è meglio gettar via i modi di pensiero sorpassati che rimanere attaccati indefinitamente ad essi. Nondimeno, le visite in soffitta possono riuscir profittevoli, purché non duri-no troppo a lungo” (J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino: Bollati Boringhieri, 2003[1954], p. 4).

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