L’economia fondamentale come possibile alternativa al pensiero mainstream

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Political and social notes

Che cos’è l’economia fondamentale

Il Collettivo per l’economia fondamentale è costituito da ricercatori di diverse discipline e di varie nazionalità, molti già noti nel mondo degli studi. Davide Arcidiacono, Filippo Barbera, Andrew Bowman, John Buchanan, Sandro Busso, Joselle Dagnes, Joe Earle, Ewald Engelen, Peter Folkman, Julie Froud, Colin Haslam, Sukhdev Johal, Ian Jones, Dario Minervini, Mick Moran, Fabio Mostaccio, Gabriella Pauli, Leonhard Plank, Angelo Salento, Ferdinando Spina, Nick Tsitsianis, Karel Williams hanno individuato un oggetto di studio che hanno definito “economia fondamentale” e hanno dato vita a una notevole e interessante serie di ricerche che stanno riscuotendo in Europa sempre maggiore attenzione. Così il libro che contiene il manifesto del Collettivo intitolato “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana”, appena uscito in Italia per i tipi di Einaudi, è stato pubblicato in inglese da Manchester University Press e in tedesco da Suhrkamp.

Secondo gli studiosi del Collettivo, l’economia fondamentale è costituita da un insieme di attività legate «alla produzione dei beni e servizi indispensabili al benessere generale, come l’edilizia residenziale, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, la sanità, la fornitura di beni e servizi essenziali come l’acqua, il gas, l’energia, la fognatura e le reti telefoniche»[1].

I confini dell’economia fondamentale sono individuati attraverso tre parametri di riferimento: «questi beni e servizi sono necessari alla vita quotidiana, ne usufruiscono ogni giorno tutti i cittadini a prescindere dal reddito, e sono erogati, in funzione della distribuzione della popolazione, attraverso reti e filiali»[2]. Altre caratteristiche delle attività ricomprese nell’economia fondamentale sono quelle di svolgersi spesso al di fuori del mercato; di essere attività in qualche modo protette in quanto soggette a regolamentazione; mentre la loro distribuzione e organizzazione è soggetta alla mediazione politica.

Nell’economia fondamentale si possono distinguere due macroaree. La prima, identificata come economia fondamentale ‘materiale’, è costituita da «un insieme di attività molto ampio, che comprende la fornitura di beni e servizi di base attraverso reti di distribuzione, come acquedotti ed elettrodotti, o anche attraverso reti di filiali, come nel caso degli alimenti e dei servizi bancari». La seconda macroarea viene definita come economia fondamentale ‘provvidenziale’ e comprende «servizi tradizionalmente indicati con il nome di welfare, ovvero l’istruzione, la sanità, le attività di cura, il sostegno al reddito»[3].

Si tratta di importantissime attività economiche che, però, in questi ultimi trent’anni, sono state trascurate dai principali media e, in generale, sono state considerate secondarie – o, piuttosto, sono state date per acquisite una volta per sempre – da un’opinione pubblica assai più concentrata sulle attività caratterizzate da un’intensa e rapida innovazione tecnologica, i cosiddetti Kibs (Knowledge-intensive business services, servizi a elevato contenuto di conoscenza). I Kibs, dal punto di vista del Collettivo, hanno funzionato da distrattori di massa e hanno permesso che l’azione politica si concentrasse nel supporto di tali attività – si pensi ad esempio al programma italiano Industria 4.0 – piuttosto che nella riorganizzazione dei settori legati all’economia fondamentale. Per questi ultimi settori si è pensato semplicemente che la loro liberalizzazione e la successiva privatizzazione sarebbero state sufficienti a restituire l’efficienza e la redditività che si erano andate perdendo nel corso degli anni in cui tali settori erano stati sostanzialmente de-economizzati.

Tuttavia, secondo gli studiosi del Collettivo, proprio il ricorso generalizzato alle esternalizzazioni e alle privatizzazioni che si è verificato in tutte le economie occidentali a partire dagli anni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan ha portato lo scompiglio nei settori dell’economia fondamentale permettendo la loro trasformazione in attività da cui ricavare indiscriminatamente alti rendimenti senza alcuna attenzione alle politiche di qualità e di accessibilità per gli utenti finali.

Insomma l’eccesso di politiche business friendly da parte dei rappresentanti di tutti gli schieramenti politici ha permesso che si cedessero a imprese private compiti di gestione delle risorse e di organizzazione della produzione in settori che si sono trasformati in campi di conquista per la rendita finanziaria. I settori di attività dell’economia fondamentale si sono, così, profondamente trasformati adattandosi alle regole della libera concorrenza senza considerare l’incidenza della produzione di beni e servizi essenziali sulla qualità della vita delle persone.

La responsabilità della diffusione di politiche di privatizzazione e di esternalizzazione viene attribuita soprattutto a chi ha governato le politiche pubbliche negli ultimi trent’anni. Il Collettivo rivolge un duro atto di accusa alla classe politica. I politici europei sono definiti «nuovi fisiocrati», i quali si sono convinti «che le attività del settore privato fondate sul mercato creino ricchezza, mentre la sanità, l’assistenza e altri servizi pubblici consumano surplus»[4]. Il tutto senza tener conto del fatto che il confine «fra produzione e consumo di gettito fiscale può essere modificato per volontà del legislatore, attraverso lo spostamento di attività fra lo Stato e il settore privato, tramite privatizzazioni o nazionalizzazioni»[5].

Insomma è la politica che ha ridefinito i confini del mercato e lo ha fatto perseguendo esclusivamente lo schema semplificato dell’estensione delle regole della concorrenza senza riflettere in alcun modo sul fatto che sarebbe stato «più sensato pensare l’”economia” come un sistema di circolazione di reddito orientato alla diffusione del benessere, piuttosto che come un sistema di creazione di ricchezza guidato dal settore privato»[6].

La storia dell’economia fondamentale, dopo il suo consolidamento attraverso un accordo progressista tra mano pubblica e impresa privata durato dal secondo dopoguerra agli anni Settanta del secolo scorso, è stata esclusivamente la «storia di una cessione di monopoli, sulla base di obiettivi politici non dichiarati e sullo sfondo di un pensiero economico superficiale»[7].

L’intento del Collettivo per l’economia fondamentale non è quello di scoprire qualcosa di nuovo, ma di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica su ambiti di attività in cui la ‘filosofia’ dell’impresa privata è stata quella di considerare le bollette pagate dalle famiglie come un interessante flusso di cassa da gestire non tanto per assicurare la qualità dei servizi e per ridurre le tariffe, quanto per ricavarne i più alti rendimenti finanziari.

Individuare l’economia fondamentale significa, in sostanza, cambiare prospettiva nel modo in cui guardiamo all’attività economica riportando al centro della nostra attenzione «i tanti beni e servizi che sono alla base della nostra vita, ma ai quali giorno dopo giorno quasi non pensiamo»[8].

Il Collettivo identifica la radice intellettuale della teoria dell’economia fondamentale nel pensiero di Fernand Braudel e, in particolare, nel suo libro “Civiltà materiale, economia e capitalismo” del 1981. Il grande storico francese descriveva allora le strutture del quotidiano «affermando che dal XV al XVIII secolo erano esistiti altri due livelli economici oltre al mercato, uno “al di sopra” e uno “al di sotto” di esso» e deducendone che «la maggior parte della popolazione mondiale viveva in un’infraeconomia di “vita materiale”, basilare e lenta, organizzata intorno alla produzione e al consumo immediati, piuttosto che intorno allo scambio»[9]. Insomma ecco giustificato, attraverso il riferimento al pensiero di Braudel, il sottotitolo del volume che individua nelle attività dell’economia fondamentale proprio le infrastrutture della vita quotidiana.

Se si guarda alla storia dell’economia fondamentale, si può dire che essa si sia formata negli anni del secondo dopoguerra attraverso le politiche keynesiane che hanno dominato la scena politica nei ‘trent’anni gloriosi’ tra il 1945 e gli anni Settanta del secolo scorso. Al contrario nei trent’anni successivi si è assistito a un fenomeno di generalizzata espansione dell’economia di mercato: «ampi settori dell’economia fondamentale, sino a quel momento costruita e gestita a livello pubblico» sono stati «privatizzati, esternalizzati o comunque riorganizzati, in un processo che la politica ha guidato senza remore e gli economisti mainstream hanno trattato benevolmente»[10].

Tuttavia la privatizzazione dei settori dell’economia fondamentale ha segnato il passaggio di tali settori da un assetto in cui i rendimenti attesi erano di poco superiori a quelli dei titoli di Stato, a una situazione in cui le imprese coinvolte cominciavano a tenere comportamenti di tipo estrattivo e predatorio diretti a raggiungere rendimenti finanziari anche a due cifre. E ciò, secondo gli studiosi del Collettivo, non si spiega in nessun modo: «non vi è alcuna valida giustificazione sociale di natura (re)distributiva per le operazioni predatorie dell’ingegneria finanziaria nell’economia fondamentale»[11].

I modelli tipicamente commerciali applicati ai settori dell’economia fondamentale tendono sostanzialmente a consumare risorse piuttosto che a crearne di nuove. Contribuiscono a distruggere la vita delle comunità piuttosto che a rafforzare i legami sociali di solidarietà e di pacifica convivenza.

In altre parole, per il Collettivo, l’economia fondamentale era «un’impresa morale» che teneva conto della necessità di produrre ricchezza, ma anche di produrre beni e servizi che potessero oggettivamente migliorare le condizioni di vita dei cittadini.

Si potrebbe dire che l’economia fondamentale non è solo economia, ma «è uno spazio che abbraccia tecnica, storia, economia e filosofia morale in una relazione mai del tutto pacificata: le questioni di economia morale e di filosofia politica, perciò, sono elementi imprescindibili del “pensiero fondamentale”»[12].

Ma oggi, al punto in cui siamo giunti nell’espansione del pensiero unico del mercato, è necessario cominciare a porsi degli interrogativi. Si sta sviluppando, infatti, un problema «di ordine eminentemente costituzionale: come si possono controllare i nuovi corporate powerholders, i detentori del potere d’impresa?»[13].

La costituzione dell’economia fondamentale non nasce dall’alto, come nel costituzionalismo moderno, ma dal basso, dai cittadini e dalle loro esigenze. Secondo gli studiosi del Collettivo, la dimensione morale dell’economia fondamentale «non è assicurata soltanto dalla disponibilità materiale di beni e servizi, ma anche dalla regolamentazione di questi settori economici e dai loro assetti proprietari»[14].

Indicazioni per una possibile riforma del sistema economico

Il Collettivo per l’economia fondamentale non si limita alla critica, radicale e scientificamente fondata, della situazione attuale di prevalenza del pensiero unico del mercato dominato da imprese ispirate da intenti speculativi, ma fornisce anche alcuni possibili rimedi per una situazione divenuta ormai insostenibile.

Il principale rimedio proposto è quello di imporre una «licenza sociale» a tutte le imprese impegnate nei settori dell’economia fondamentale dal momento che esse sono in grado di incidere con la loro azione sulla qualità della vita dei cittadini. L’idea è quella di prendere come modello le antiche licenze delle imprese minerarie che dovevano limitare lo sfruttamento eccessivo dei lavoratori e delle risorse. Tale modello andrebbe aggiornato e adattato alle attività delle moderne imprese dell’economia fondamentale: «Un sistema formale di licenze potrebbe quindi vincolare il diritto a operare all’offerta di un servizio e alla soddisfazione di precisi criteri di responsabilità nei confronti della comunità su questioni quali i rapporti con i fornitori, la formazione del personale, il trattamento salariale»; tale licenza potrebbe riguardare anche le pratiche finanziarie impedendo quelle meramente speculative e potrebbe riguardare o interi settori di attività oppure riguardare separatamente più operatori diversi e di diverse dimensioni che operano in uno stesso settore[15].

L’economia fondamentale finisce così per diventare non solo un’economia morale, ma anche un’economia politica che tiene conto delle esigenze e del benessere dei cittadini. Insomma le attività economiche ricomprese nell’economia fondamentale devono rispettare i principi costituzionali. Solo in questo modo si possono evitare comportamenti speculativi diretti esclusivamente all’estrazione di profitti laddove invece è necessario tener conto innanzitutto dei diritti dei cittadini.

L’affondo contro il mainstream liberoscambista della teoria neoclassica da parte degli studiosi del Collettivo è netto: «Il modello che affida gli effetti benefici della concorrenza alla capacità di scelta del consumatore si fonda, infatti, sull’idea bizzarra che i cittadini non siano impegnati tutto il giorno con le esigenze quotidiane del lavoro e della vita familiare, ma siano invece macchine “razionali”, monodimensionali e calcolatrici, utenti appassionati dei siti web per il confronto dei prezzi»[16].

Bisogna, dunque, tornare a rivolgere l’attenzione alle vere esigenze dei cittadini così come sono nella realtà quotidiana e non come individui razionali astrattamente descritti nella teoria economica neoclassica. Per far ciò, secondo gli studiosi del Collettivo, occorre «chiedere ai cittadini quali siano le loro priorità fondamentali; riportare il mondo delle imprese entro il controllo della società, elaborando una sorta di licenza per le grandi imprese e al contempo promuovendo le piccole e medie imprese con un forte radicamento sociale; reinventare il sistema di tassazione per assicurare ai settori fondamentali entrate e investimenti; infine, creare alleanze politiche ibride, orientate al cambiamento, che guidino le politiche pubbliche»[17].

Le teorie elaborate dagli studiosi dell’economia fondamentale sono supportate da diversi casi di studio: la privatizzazione delle ferrovie inglesi, l’esternalizzazione dei servizi del National Health Service inglese, ma anche il caso delle ferrovie italiane o quello della privatizzazione dell’acqua e della sua rimunicipalizzazione in diversi Stati europei. Non mancano esempi storici come quelli della costruzione di alloggi popolari nella Vienna governata dai socialdemocratici negli anni tra le due guerre o quello dello sviluppo di cooperative edilizie, dell’organizzazione del trasporto pubblico e di interventi di medicina preventiva promosso dalle amministrazioni rosse a Bologna negli anni Settanta del secolo scorso.

Insomma, secondo gli studiosi del Collettivo, la proposta dell’economia fondamentale non ha l’obiettivo di tornare al passato, ma di riformare un sistema di produzione di beni e servizi nei settori essenziali per la qualità della vita delle persone. Gli studiosi del Collettivo per l’economia fondamentale sono convinti che ciò sia possibile e necessario soprattutto perché si tratta di scegliere tra l’aumento indiscriminato delle diseguaglianze e l’opzione esattamente opposta di «favorire lo sviluppo delle capacità e della prosperità umane»[18].

Economia fondamentale e Stato moderno

Il lavoro del Collettivo per l’economia fondamentale si inserisce in quel filone della letteratura scientifica, divenuto ancor più ampio a partire dalla crisi finanziaria del 2007-2008, che sta cercando di evidenziare l’irrimediabile crisi del paradigma neoclassico che ha dominato le scienze economiche a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.

È ormai chiaro, infatti, che il pendolo dell’economia sta cambiando il suo corso: i trent’anni di neoliberismo spinto e di dominio del pensiero unico del mercato che hanno seguito i ‘trent’anni gloriosi’ di economia mista in Occidente stanno per finire e per lasciare spazio a forme di produzione di beni e servizi più attente alla sostenibilità sociale e ambientale.

Un segnale in questo senso proviene anche dall’assegnazione del premio Nobel per l’economia a studiosi critici del paradigma neoliberista, come Amartya Sen, Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Daniel Kahneman o Elinor Ostrom[19].

D’altra parte è ormai evidente, come ha scritto ad esempio Paul De Grauwe, che il mercato ha raggiunto i suoi limiti interni perché l’eccesso di diseguaglianza prodotto in questi anni potrebbe riaccendere una reazione sociale anche violenta; mentre la minaccia del mutamento climatico costituisce un limite esterno non più eludibile dell’attività economica[20].

È verosimile, dunque, attendersi se non una vera e propria inversione di rotta, almeno una profonda correzione degli attuali assetti della teoria economica.

In questo panorama appare di grande interesse la proposta scientifica, ma anche profondamente politica, portata avanti dal Collettivo per l’economia fondamentale di tornare a mettere al centro dell’interesse della politica e dell’economia, ma anche delle scienze sociali in generale, l’insieme delle attività che hanno a che fare con la qualità della vita quotidiana e che quindi non possono essere lasciate esclusivamente al mercato.

D’altra parte è evidente che lo squilibrio nel rapporto tra la prospettiva economica e la prospettiva politica, con un netto appiattimento della seconda sulla prima, ha dato luogo a conseguenze negative che è necessario correggere in tempi brevi.

Quel che forse occorre meglio definire è quale sia l’organizzazione politica che deve provvedere alla riforma dell’economia fondamentale. Gli autori, infatti, riprendono la definizione di Stato nazionale data da Charles Tilly nel 1985: «un “racket di protezione” che offre sicurezza in cambio di gettito fiscale; ma l’assicurazione sociale permise allo Stato centrale liberal-collettivista di garantire una protezione attiva contro i rischi che il capitalismo aveva creato per una nuova classe lavoratrice urbana industriale»[21]. Tale definizione era già fortemente influenzata dal pensiero economico neoclassico che ha poi ulteriormente condizionato il dibattito successivo sul concetto di Stato.

Se lo Stato moderno non è più la dimensione istituzionale ottimale per rispondere alle esigenze provenienti dalla società, allora l’obiettivo dovrebbe essere quello di proporre una possibile alternativa. Il problema centrale è oggi proprio quello di trovare la dimensione istituzionale più appropriata per accogliere le istanze di protezione che provengono dalla società.

In questo senso vanno interpretati, infatti, i rigurgiti sovranisti e populisti da parte di coloro che non riuscendo a trovare nelle classiche funzioni esercitate dallo Stato moderno un’adeguata protezione sociale cercano nel recente passato forme che assicurino loro un più elevato grado di sicurezza. La debolezza dei singoli individui in assenza di una significativa azione dello Stato si esprime in termini populistici ovvero chiedendo un deciso ritorno della sovranità nazionale.

Dal punto di vista individuale, ognuno si sente esposto a rischi dai quali non riesce a difendersi. Per dirla con Elliott e Lemert la domanda che la politica deve cominciare a porsi è: «come sopravvivono e prosperano gli individui all’interno e contro i mondi mortali che si porteranno via tutto?». E tale domanda non se la pongono soltanto coloro che vivono ai margini dello sviluppo economico, ma comincia a configurarsi come «una domanda universale, che riguarda l’uomo»[22].

E ancor prima anche Cristopher Lash aveva chiaramente identificato il pericolo che la vita quotidiana potesse ridursi a un mero esercizio di sopravvivenza che induce gli individui a vivere alla giornata dal momento che gli uomini «raramente guardano al passato, perché temono d’essere sopraffatti da una debilitante ‘nostalgia’, e se volgono l’attenzione al futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono»[23].

Sui possibili rimedi

Inserire nel settore pubblico le grandi imprese private che agiscono nell’ambito dell’economia fondamentale per sottoporle alla Costituzione e a un nuovo tipo di regolamentazione come proposto dagli autori del Collettivo per l’economia fondamentale appare un’operazione rischiosa. Ciò significherebbe, infatti, da un lato, confermare l’idea strisciante che il privato sia in realtà il nuovo pubblico e, dall’altro, arrendersi al pregiudizio nei confronti dell’offerta pubblica di beni e servizi, rassegnandosi all’idea che una gestione pubblica efficiente non può essere possibile nella realtà contemporanea.

Inoltre, come hanno evidenziato Berle e Means già negli anni Trenta del secolo scorso, «lo Stato cerca di disciplinare taluni aspetti dell’attività della società per azioni, mentre questa, diventando costantemente più potente, fa ogni sforzo per sottrarsi a tale disciplina, ed anzi, quando si tratta dei suoi interessi, cerca perfino di dominare lo Stato»[24].

È vero però che il problema del ritorno al pubblico di interi settori di attività e dei cosiddetti monopoli naturali, come previsto dalla Costituzione italiana del 1948, presenta aspetti indubbiamente problematici che bisognerà prima o poi affrontare. Emblematico da questo punto di vista è il caso della rimunicipalizzazione della gestione dei servizi idrici dopo il sostanziale fallimento della privatizzazione del settore idrico decisa con il Water Act del governo Thatcher nel 1989.

Ma è vero anche che inserire le grandi imprese private che operano nel settore dell’economia fondamentale all’interno del settore pubblico in considerazione della funzione sociale da loro svolta non fornisce sufficienti garanzie che le stesse non perseguano esclusivamente il profitto.

Sicuramente interessante è il riferimento degli studiosi del Collettivo per l’economia fondamentale al ritorno di interesse per forme di reddito di base universale e di infrastrutture e servizi universalmente accessibili.
Si tratta di un dibattito vivo a livello internazionale che non è ancora sufficientemente conosciuto in Italia che pure sta cercando di realizzare interventi in tal senso finanziati con l’aumento del deficit e non con un intervento fiscale di natura redistributiva.

Interessanti, infine, le proposte di rifinanziare lo Stato con una generale riforma dei sistemi di tassazione e quella di favorire alleanze politiche inedite anche ibride orientate al cambiamento.

La proposta dell’economia fondamentale va sicuramente nella giusta direzione e, con altre iniziative, come quella dell’Economics for Inclusive Prosperity di Dani Rodrik, costituiscono la speranza che si affrontino finalmente i grandi problemi che sono innanzi a noi a cominciare dalla disuguaglianza e dalla insostenibilità ambientale degli attuali standard nella produzione di beni e servizi. Solo in tal modo potrà ristabilirsi un ordine economico e politico internazionale orientato al progresso che tenga conto anche degli interessi delle generazioni future. Siamo ancora in tempo, ma occorre muoversi senza ulteriori indugi.

*Università Suor Orsola Benincasa

[1] Collettivo per l’economia fondamentale, Economia fondamentale. L’Infrastruttura della vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2019, p. 26.

[2] Ibid.

[3] Ivi, p. 6.

[4] Ivi, p. 24.

[5] Ivi, p. 25.

[6] Ibid.

[7] Ivi, p. 75.

[8] Ivi, p. 38.

[9] Ivi, p. 26.

[10] Ivi, p. 60.

[11] Ivi, p. 91.

[12] Ivi, p. 103.

[13] Ivi, p. 105.

[14] Ivi, p. 111.

[15] Ivi, p. 130-131.

[16] Ivi, p. 126.

[17] Ivi, p. 136.

[18] Ivi, p. 186.

[19] Si veda E. Brancaccio e G. Bracci, Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica, Il Saggiatore, Milano, 2019.

[20] Si veda S. Marotta, Paul De Grauwe e il pendolo dell’economia tra mercato e pianificazione, in questa rivista.

[21] Collettivo per l’economia fondamentale, Economia fondamentale, cit., p. 44.

[22] A. Elliott-C. Lemert, Il nuovo individualismo. I costi emozionali della globalizzazione, Torino, Einaudi, 2007, p. 212 s.

[23] C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 7.

[24] A.A. Berle jr e G.C. Means, Società per azioni e proprietà privata, Einaudi, Torino, 1966, p. 336.

Che cos’è l’economia fondamentale
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