L’euro e la mancata integrazione europea

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One of the causes of the best overall economic performance of the core countries lies in the greater weight of the most innovative sectors. These tend to show higher growth rates than the others and, in this way, positively influence the general development of the economy, since the dynamism of these sectors is also transmitted to the remaining economic sectors. On the other hand, peripheral countries are running the risk of being relegated to the margins of economic development.

L’introduzione della moneta unica europea è data da ormai oltre un ventennio, prendendo come evento iniziale la fissazione delle parità irreversibili tra le valute degli Stati aderenti alla prima fase di questo progetto (1998).

Appare di qualche interesse investigare l’evoluzione economica di alcune tra le nazioni più rappresentative del panorama europeo, analizzandone la composizione per settori del valore aggiunto lordo[1]. Si tratta, a ben vedere, di uno tra i tanti fattori che aiutano a caratterizzare un sistema economico. La molteplicità degli indicatori disponibili (crescita del PIL, tasso di disoccupazione, rapporto debito pubblico / PIL, ecc.) permette di utilizzare diversi punti di vista per qualificare la condizione di un’economia. Tuttavia, la composizione per settori del valore aggiunto si presta più di altre variabili ad essere interpretata come una spia che segnala la convergenza (o la sua mancanza) tra sistemi produttivi. Una delle scommesse esplicitamente dichiarate all’atto dell’avvio della moneta unica europea era proprio quella di una maggiore integrazione economica delle nazioni partecipanti che, pur nelle varie specificità, avrebbe dovuto portare tali sistemi produttivi verso una maggiore uniformità.

I dati su cui è stata condotta l’indagine sono stati ricavati da Eurostat[2]. Sono stati considerati dieci settori: attività primarie; industria; costruzioni; commercio, trasporti, attività alberghiera e ristorazione; information e communication; real estate; attività professionali, scientifiche, tecniche, etc.; pubblica amministrazione, difesa, istruzione, sanità; attività artistiche, di intrattenimento e altri servizi.

Sono state esaminate sette nazioni partecipanti all’Unione Monetaria: Germania, Francia e Olanda, rappresentative del nucleo centrale dell’Unione Monetaria; Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, le cosiddette economie periferiche. Inoltre, il periodo di disponibilità dei dati, che va dal 1998 al 2018, è stato suddiviso in due parti: l’intervallo dal 1998 al 2009, anno della grande recessione alla fine del quale è emerso il problema dei conti pubblici greci (che ha dato inizio alla cosiddetta crisi dei debiti sovrani europei); e il restante periodo, dal 2009 al 2018, in cui si sono manifestate le crisi dei Paesi periferici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro e Spagna).

Nella tabella sotto sono riportati i tassi di crescita medi annui (CAGR[3]) del valore aggiunto totale calcolati sui due sottoperiodi e sull’intervallo totale (ultima colonna).

Tabella 1. Tassi di crescita media annui

 Periodo 1998 – 2009Periodo 2009 – 2018Periodo 1998 – 2018
Germany1,74%3,59%2,57%
Greece5,58%-3,05%1,61%
Spain6,42%0,92%3,91%
France3,49%2,00%2,82%
Italy3,12%1,15%2,23%
Netherland4,31%2,37%3,43%
Portugal4,40%1,27%2,98%

Si noterà come la media dell’intero arco temporale esaminato risulti poco significativa, poiché gli andamenti nei due intervalli sono ben differenziati. Infatti, nel primo periodo la Germania ha espresso la minore crescita del valore aggiunto totale, con l’Italia al secondo posto di questa poco edificante graduatoria. Nel complesso, in questa prima fase, sono cresciuti maggiormente i Paesi economicamente più arretrati (Spagna, Grecia e Portogallo). Si può quindi supporre che fosse in atto un processo di relativa convergenza. La situazione si rovescia nel periodo dal 2009 al 2018: le economie più dinamiche sono, in ordine decrescente, la Germania, l’Olanda e la Francia, con i Paesi meno avanzati che appaiono in evidente difficoltà.

Per mettere a fuoco l’esistenza (o meno) di un processo di divaricazione tra le economie considerate, si è fatto ricorso alla cluster analysis[4], analisi che permette di misurare le distanze tra soggetti statisticamente misurati[5]. La cluster analysis è stata realizzata confrontando le quote di valore aggiunto per settore tra i vari Paesi. Più sono simili i pesi degli stessi settori, più sono considerate vicine le economie. Si è adottato, come base dell’analisi, un sistema di misurazione a metrica euclidea, usato per procedere con un metodo gerarchico aggregativo. In questo modo si sono raggruppati, un passaggio alla volta, gli elementi tra loro più simili, partendo da una prima coppia fino ad arrivare a comprendere tutti i sette Paesi. I dati di ogni raggruppamento (o cluster) che si va via via definendo sono stati ricavati calcolando la media ponderata dei suoi componenti (centroide del cluster). Si è realizzata l’analisi in tre diversi momenti (1998, 2009 e 2018) secondo quanto specificato in precedenza.

Anno 1998

Qui sotto è rappresentato il diagramma di aggregazione gerarchico tra i sette Paesi esaminati calcolato con i dati del 1998.

Figura 1 Diagramma aggregazione 1998

Il primo passaggio vede l’aggregazione tra Spagna e Portogallo. Le due economie iberiche mostrano evidenti somiglianze, come confermato anche dalla modesta distanza che le separa (d = 4,91%). Il passaggio successivo riunisce in un secondo cluster Francia e Olanda. Al terzo passaggio l’Italia viene aggregata al primo cluster, insieme a Spagna e Portogallo. Alla quarta iterazione, la Germania confluisce nel raggruppamento con Francia e Olanda. Successivamente, la distanza minore rilevata è quella che separa i due insiemi precedentemente costituiti. Infine, la Grecia, rimasta finora isolata, si aggiunge agli altri Paesi. Se ne conclude che esistevano analogie regionali tra i Paesi iberici da un lato e Francia e Olanda dall’altro. L’Italia assomigliava alle economie periferiche, mentre la Germania era assimilabile a Francia e Olanda. Nel complesso, però, i due precedenti insiemi erano più simili tra loro che non con la Grecia. Quest’ultima rimaneva a parte (si noti l’ampia distanza che la separava dal gruppo delle altre sei economie, d = 14,12%), sintomo di un sistema produttivo più arretrato rispetto alla maggioranza delle economie europee.

Anno 2009

Lo stesso esercizio, ripetuto per il 2009, è rappresentato nel grafico che segue.

Figura 2. Diagramma aggregazione 2009

Rimane la vicinanza tra i due Paesi iberici ma, questa volta, al secondo passaggio l’Italia si aggrega subito al primo cluster (nel 1998, il secondo passaggio vedeva l’aggregazione tra Francia e Olanda). Poi, via via, arrivano gli altri Paesi: Francia, Olanda, Grecia e, ultima, Germania. In pratica, si ha un processo di arricchimento progressivo di un unico raggruppamento, che vede confluire al suo interno i Paesi via via meno distanti in termini di composizione settoriale del valore aggiunto. In questa fase si conferma l’eccentricità della Grecia, che viene inclusa solo al penultimo passaggio. Ma, fatto nuovo, emerge la condizione eccezionale della Germania, che appare “la più diversa” tra i sistemi produttivi esaminati, in termini di composizione settoriale del valore aggiunto.

Anno 2018

Ecco infine l’anno più recente.

Figura 3. Diagramma aggregazione 2018

Dopo che la crisi dei debiti sovrani ha dispiegato i suoi effetti, la situazione appare, per certi versi, simile a quella esaminata all’inizio del periodo di osservazione, ossia nel 1998. Con alcune importanti differenze. Spagna, Portogallo e Italia sono i primi tre Paesi che tendono ad aggregarsi (con distanze minori rispetto agli anni precedenti). Francia e Olanda tornano a formare, alla terza iterazione, un unico cluster. Poi, però, nel cluster dei Paesi periferici entra la Grecia: per la prima volta si delinea il raggruppamento dei quattro Paesi PIGS. Al penultimo passaggio, si fondono i due cluster esistenti. Rimane fuori, ancora una volta, la Germania la cui distanza dal raggruppamento degli altri Paesi risulta piuttosto rilevante (d = 10,88%, mentre era “solo” d = 8,96% nel 2009).

Alcune componenti settoriali della divergenza

Analizzando le dinamiche del settore primario, si colgono bene i fenomeni di divaricazione tra i sistemi produttivi nazionali.

Figura 4. Agricoltura 1998_2009

Nei due grafici che seguono, sono stati classificati i sette Paesi in funzione di due variabili: la quota del settore agricolo sul totale del valore aggiunto (asse X) e la sua variazione nel periodo esaminato (asse Y). Il primo dei due grafici riporta la situazione al 2009 (asse X), confrontata con la variazione nel periodo che va dal 1998 al 2009[6] (asse Y).  Si noti come i Paesi siano disposti secondo una retta con inclinazione negativa: le economie dove maggiore era il peso dell’agricoltura sono quelle dove tale peso tendeva a diminuire più intensamente. È l’effetto di un processo di convergenza che tende a rendere più simili tra loro i pesi dei diversi settori produttivi nazionali.

Nel grafico rappresentativo del periodo successivo (dal 2009 al 2018), i simboli dei diversi Paesi sono disposti secondo una retta crescente.

Figura 5. Agricoltura 2009_2018

Qui il processo di convergenza ha lasciato il posto ad un fenomeno di divergenza: in generale, i Paesi con una maggior quota di valore aggiunto primario evidenziano un più forte aumento del peso di tale settore sul totale dell’economia. In particolare, si noti il rilevante incremento del peso del settore primario in Grecia (dal 3,14% del 2009 al 4,27% del 2018) e in Spagna (dal 2,42% al 3,09%).

Poiché dinamiche analoghe si ripropongono anche negli altri settori, ne consegue un aumento della distanza tra i Paesi. A titolo di esempio, riportiamo i grafici relativi a due comparti che, verosimilmente, rivestono un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico: il settore del trattamento delle informazioni e delle comunicazioni; quello delle attività professionali, scientifiche, tecniche etc. Anche qui, per ognuno dei due settori esaminati, il primo grafico indica la dinamica del periodo dal 1998 al 2009, mentre il secondo è relativo al periodo 2009 – 2018.

Si vede bene come nel primo periodo, benché i tre Paesi core presentino una maggiore incidenza del settore ICT sul totale (posizione sull’asse X), vi erano degli “sfidanti” (Italia e Portogallo) che stavano aumentando il peso del settore con una dinamica (asse Y) superiore a quella di Germania e Francia. Il secondo grafico racconta un processo affatto differente.

Figura 6. ITC 1998_2009

Figura 7. ITC 2009_2018

Tutti i cosiddetti Paesi periferici mostrano un rilevante regresso del peso del settore tecnologico sul totale del valore aggiunto (variazioni negative sull’asse Y), distanziandosi ulteriormente dalle tre economie core. La posizione dell’Italia appare particolarmente difficile, poiché è il Paese che registra il maggiore decremento e nel 2018 risulta essere stata superata anche dalla Spagna in termini di quota di valore aggiunto del settore ICT sul totale. Si consideri che nel 2009 il comparto ICT contribuiva al 4,40% del totale del valore aggiunto italiano e del 4,64% di quello tedesco: una differenza di appena lo 0,24%. Nel 2018 tale differenza si è portata allo 0,96% (Italia 3,62% contro Germania 4,58%).

Spostando l’analisi al settore delle attività professionali, tecniche, scientifiche etc. il quadro non sembra cambiare molto.

Figura 8. Attività professionali, tecniche, scientifiche 1998_2009

Figura 9. Attività professionali, tecniche, scientifiche 2009_2018

Anche in questo caso, nel periodo 1998 – 2009 Grecia, Spagna e Portogallo apparivano in fase di rincorsa verso le economie più sviluppate (asse Y). Già qui, però, l’Italia mostrava una prestazione deludente, migliore solo di quella della Germania. Nell’intervallo 2009 – 2018 invece, le distanze tra i Paesi periferici e quelli core tendono ad ampliarsi, con la parziale eccezione della Spagna. Ancora una volta, il nostro Paese si presenta come quello meno dinamico, fatto salva la Grecia, la quale evidenzia addirittura una discesa del peso del valore aggiunto del settore sul totale (posizione negativa nell’asse Y).

Qualche considerazione

Un aspetto su cui vale la pena riflettere è che una delle cause della migliore prestazione economica complessiva dei Paesi core si trova proprio nel maggiore peso dei settori più innovativi. Questi tendono a mostrare tassi di crescita più elevati degli altri e, in tal modo, influiscono positivamente sullo sviluppo generale dell’economia, poiché il dinamismo di tali settori si trasmette anche ai restanti comparti economici. Inoltre, occorre tenere conto che, nella maggior parte dei casi, i settori economici più innovativi sono caratterizzati da un più elevato valore aggiunto pro-capite (fattore che influisce non  poco sulla produttività generale).

I Paesi periferici stanno correndo il pericolo di essere relegati ai margini dello sviluppo economico. Agricoltura, attività ricettive e di ristorazione non rappresentano certo il fronte di sviluppo per economie avanzate. Si badi bene, non si vuole sostenere che occorra penalizzare un determinato settore a vantaggio di un altro. Il turismo (come l’agricoltura) va bene, ma sarebbe opportuno che vi fosse una strategia nazionale in grado di gestire lo sviluppo di tali settori e armonizzarne la crescita con i comparti a più avanzata tecnologia. In altri termini, ci si aspetterebbe che, in un quadro di risorse scarse (è il caso dell’Italia), la politica fosse in grado di operare scelte lungimiranti, identificando le priorità di intervento[7]. Senza una svolta a favore dello sviluppo dei settori più innovativi e a maggior potenzialità di crescita, il futuro del nostro Paese difficilmente si discosterà da un declino (ormai non più solo economico) accelerato.

Anche per ragioni di spazio, non si intende qui analizzare in dettaglio i motivi che spiegano la dinamica divergente che affligge i sistemi produttivi europei, anche perché dietro la deludente prestazione economica dei Paesi periferici vi è una molteplicità di ragioni. Tuttavia, con riferimento all’Italia, uno degli effetti più nefasti delle politiche economiche messe in opera nel Paese è stato il calo dell’incidenza degli investimenti sul PIL. In particolare, si è registrata una caduta degli investimenti pubblici, ossia proprio della voce che avrebbe dovuto controbilanciare l’andamento negativo della componente privata[8]. Non stupisce quindi l’impoverimento del tessuto produttivo, specialmente nei settori a maggiore componente tecnologica. Più in generale, il processo di divaricazione tra le economie aderenti alla moneta unica trova spiegazione nella distanza che separa l’area dell’euro da un’area monetaria ottimale. La mancanza di meccanismi di riequilibrio tra le varie regioni, tanto più grave nel caso di shock esterni, ha, di fatto, ampliato gli squilibri territoriali preesistenti. Così come l’impostazione di politiche fiscali inopportunamente restrittive ha determinato un aggravamento delle condizioni di finanza pubblica nei Paesi economicamente più deboli[9]. Si profila, inoltre, il concreto rischio di una sorta di “demographic divide”, strettamente intrecciato con le dinamiche economiche, ma dalle conseguenze assai più persistenti nel tempo[10].

In conclusione, è opportuno avere presente che sistemi produttivi sempre più diversi faticheranno a coabitare sotto una politica monetaria uniforme e in un mercato comune. La divergenza in atto tra Paesi core e periferici non può che complicare la convivenza all’interno dell’Unione Europea. È naturale che sistemi produttivi diversi abbiano interessi diversi in termini di priorità e di policy. Sarebbe quindi necessario pensare a efficaci forme di intervento (a partire da un adeguato rifinanziamento della BEI[11]) finalizzate ad assicurare uno sviluppo più armonico delle diverse aree territoriali europee.

Curiosamente, analizzando la situazione da questo punto di vista, ci si ritrova a constatare come l’interesse nazionale dei vari Paesi dovrebbe coincidere con l’interesse comune, sempre che per quest’ultimo si intenda un maggiore grado di coesione produttiva a livello continentale. Al di fuori di questa concezione, ragioni oggettive determineranno scelte politiche europee sempre meno condivise e porteranno strutturalmente ad approcci nazionali di natura conflittuale.

[1]   Per valore aggiunto lordo, secondo la definizione assunta da Eurostat (ESA 2010, 9.31), si intende il valore della produzione ai prezzi base cui vengono sottratti i consumi intermedi valutati ai prezzi di acquisto.

[2]   In particolare, si è fatto riferimento alla tabella “Gross value added and income by A*10 industry breakdowns” [nama_10_a10].

[3]   Acronimo inglese di Compounded Average Growth Rate.

[4]   In statistica, il clustering o analisi dei gruppi (dal termine inglese cluster analysis introdotto da Robert Tryon nel 1939) è un insieme di tecniche di analisi multivariata dei dati volte alla selezione e raggruppamento di elementi omogenei in un insieme di dati.

[5]   In pratica, si stanno esaminando le reciproche distanze di sette punti (i sette Paesi in esame) in un iperspazio a dieci dimensioni (i dieci settori economici in cui è stato suddiviso il peso del valore aggiunto).

[6]   Per chiarezza di lettura: nel 2009, la quota di valore aggiunto prodotta dall’agricoltura in Germania era pari allo 0,78%; nei nove anni dal 1998 al 2009 tale quota era scesa dello 0,30% (ossia, nel 1998 il settore primario tedesco aveva prodotto l’1,08% del totale del valore aggiunto in Germania).

[7]   Per una disamina più articolata si veda: Enzo Valentini, Riformare l’Europa per far ripartire gli investimenti e salvare l’Europa, economiaepolitica 26 novembre 2019. https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-18-sem-2/politica-fiscale/

[8]   Per un’esauriente trattazione si veda Riccardo Realfonzo, Manovra Conte Bis 2020 | Finanziaria 2020: L’Italia ha bisogno di politiche industriali, economiaepolitica 20 settembre 2019. https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-18-sem-2/manovra-conte-bis-2020-finanziaria-economica-investimenti-pubblici-politiche-industriali/

[9]   Per un riscontro del fenomeno di divergenza, rilevato sulla base di altri indicatori si veda Riccardo Realfonzo, L’Europa malata e le riforme necessarie, economiaepolitica 13 aprile 2019. https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/leuropa-malata-e-le-riforme-necessarie/ . In questo articolo si trova una lucida analisi dei negativi effetti economici e sociali dovuti a scelte politiche permeate da ideologia.

[10] Christian Odendahl, John Springford, Demography could be yet another force for divergence within the EU, The Economist 11 gennaio 2020.

[11] Si veda anche BlackRock Investment Institute, Dealing with the next downturn: From unconventional monetary policy to unprecedented policy coordination, Macro and market perspectives, August 2019.

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