Cancellare il debito: il tempo è adesso

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Political and social notes

Con la pandemia è tornata l’inflazione. E con essa il dibattito sugli strumenti da adottare per tenerla a bada. Sarà inflazione transitoria o strutturale? Su un punto tutti, economisti e governi, sembrano concordare: la tendenza rialzista dei prezzi è figlia della ripresa (squilibrio tra domanda e offerta dei materiali di base della produzione). Poi, da ultimi, ma non meno importanti, si sono aggiunte le tensioni geopolitiche che vedono protagonista la Russia e la speculazione finanziaria sui beni energetici e sulle “quote” di CO2[1]. Un’inflazione da costi. Ma se stanno così le cose, che ruolo possono giocare le banche centrali e nello specifico la Bce? Al netto di alcuni significativi cambiamenti che si sono registrati nella policy di Francoforte a partire dal luglio scorso, sull’Eurosistema rimane forte l’impronta del monetarismo. Per questo, l’ala più conservatrice del suo vertice istituzionale ha già iniziato a chiedere una revisione dell’attuale politica monetaria. Alzare i tassi e chiudere il rubinetto dei programmi di acquisto di titoli sul mercato secondario[2].

La tesi è nota: nel lungo periodo l’aumento della base monetaria produce solo una variazione dei prezzi senza effetti rilevanti sull’economia reale. Ne consegue che una riduzione della stessa è la strada maestra per raffreddare l’inflazione. Tesi non certo suffragata dall’evidenza degli ultimi anni, quando, a fronte di un’inondazione di liquidità che ha interessato il sistema, tutta l’eurozona ha dovuto fare i conti con un prolungato alternarsi di deflazione e stagnazione. E adesso? Come può adesso la politica monetaria risolvere i problemi lasciati in eredità dai lockdown e quelli derivanti dalle strozzature nelle catene globali di approvvigionamento di materie prime? Una risposta a questa domanda l’ha data proprio la presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde: “La politica monetaria non può riempire i gasdotti, velocizzare le file dei container nei porti o formare nuovi autisti per guidare gli autotreni”[3]. Si potrebbe aggiungere che né i tassi d’interesse né la propensione al credito stimolano gli investimenti privati, bensì la domanda attesa, come ha insegnato la storia degli ultimi anni. E che una politica monetaria espansiva da sola è inefficace a stimolare la crescita e far crescere l’occupazione.

Di certo, una brusca virata nella politica monetaria di Eurotower avrebbe ripercussioni pesanti sui rendimenti dei titoli dei Paesi ad alto debito come l’Italia (2.678,4 miliardi al 31 dicembre 2021, 150% del pil, anche per effetto dell’inflazione). Nei giorni scorsi, sono bastate alcune dichiarazioni di Francois Villeroy de Galhau, membro francese del Consiglio direttivo della Bce, su un possibile tapering degli stimoli monetari a far schizzare al 2% il rendimento dei nostri Btp decennali (spread a 172 punti base). E’ facile ipotizzare, quindi, che una stretta sui tassi e sugli acquisti metterebbe l’Italia nel mirino della speculazione e, di conseguenza, dei falchi di Bruxelles. Tornerebbero immediatamente la questione della sostenibilità del debito e il tema del consolidamento fiscale per rientrare nei parametri europei e ”tranquillizzare i mercati”. Molto probabilmente farebbe di nuovo capolino lo spettro del Mes. Lo scenario descritto l’anno scorso da Riccardo Realfonzo su questa rivista[4]. E se fosse proprio questo l’obiettivo dei falchi di Francoforte (e di Bruxelles)? Utilizzare lo spettro dell’inflazione per ripristinare le regole di bilancio sospese a causa della crisi pandemica?Non è da escludere.

Dicevamo che la pandemia ha portato in dote anche cambiamenti significativi nella politica di Bruxelles e della stessa Bce. Si pensi da un lato alla reinterpretazione del target di inflazione fissato nello statuto di quest’ultima[5] ed all’emissione di bond comuni per finanziare i programmi di ripresa. Novità importanti, mentre è in atto la discussione preliminare sulla riforma del Patto di stabilità. Non ci sono posizioni concordi, come si può evincere dalla divaricazione tra le tesi franco-italiane e quelle tedesche e dei loro storici alleati. Ma se le posizioni conservatrici di quest’ultimi costituiscono un insostenibile anacronismo, le proposte di riforma dei cugini transalpini non brillano certo per coraggio. Nella lettera di Draghi e Macron pubblicata sul Financial Time[6] si fa riferimento, giustamente, alla necessità di riformare le regole di bilancio Ue perché “troppo opache ed eccessivamente complesse”. Questo perché le sfide che l’Europa ha dinanzi a sé richiedono una rinnovata “capacità di utilizzare la politica di bilancio per proteggere i cittadini e trasformare le economie”. C’è bisogno di “una strategia di crescita dell’UE per il prossimo decennio”, da attuare “attraverso investimenti comuni, regole più adatte e un miglior coordinamento, non solo durante le crisi”. Perfetto. Ma in cosa si concretizzerebbero queste riforme? Nella Lettera c’è un fugace accenno all’ipotesi di scorporare gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit. Seguito, tuttavia, dal solito richiamo alla necessità “ridurre i livelli di indebitamento”, sebbene “non attraverso tasse più alte o tagli alla spesa sociale”. La soluzione, evidentemente, sarebbe quella contenuta nel paper pubblicato dai consulenti dei due governi Francesco Giavazzi e Charles-Henri Weymuller, insieme a Veronica Guerrieri e Guido Lorenzoni, rispettivamente della Chicago University e della Northwestern University dell’Illinois[7]: eliminare il tetto del deficit al 3% e applicare una soglia alla spesa pubblica primaria, senza escludere il conferimento di una parte del debito ad una European Debt Management Agency. Non certo una rivoluzione. Anzi. Tutto il risanamento verrebbe ad essere scaricato sul saldo primario del bilancio statale (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi passivi), con implicazioni nefaste sulle erogazioni dello stato sociale e sulla stessa performance dell’economia (una spesa pubblica inferiore di decine di miliardi alla raccolta fiscale avrebbe inevitabilmente effetti recessivi). Meno spesa pubblica e/o più tasse, insomma, e un debito tutt’altro che sostenibile nel medio periodo (rischio di esplosione del rapporto debito/pil). Proprio quello che Draghi e Macron hanno stigmatizzato con enfasi nella loro lettera.

L’alternativa è una cancellazione o una sterilizzazione di una parte del debito. Attualmente, grazie ai programmi di acquisto di titoli sul mercato secondario (dalle banche), più del 25% del debito europeo è in mano all’Eurosistema. In pratica è come se per una parte gli Stati fossero indebitati con se stessi. La situazione italiana: dal 2009 ad oggi (2021) la percentuale di titoli detenuti da Bce/Bankitalia è passata dal 4,1% al 42,5% (circa 500 miliardi)[8].

E’ vero debito? Di certo si tratta di una massa debitoria contabilizzata ai fini della regola europea sul debito (il 40% del pil europeo), che, per alcuni Paesi, contribuisce all’inflizione di uno stigma possibile insolvenza. Ma anche di una ingente risorsa finanziaria bloccata nel circuito del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). Cancellare questa quota di debito sarebbe il modo migliore per chiudere un ciclo, quello apertosi con la crisi del 2007/2008, ed aprirne un altro all’insegna del sostegno alla crescita e dell’equità sociale. Obiezione dell’uomo della strada: sarebbe come se una famiglia decidesse a piacimento come e quando liberarsi dai debiti contratti per comprare la casa o l’automobile o per far studiare i figli! Ma lo Stato e le banche centrali non sono come una famiglia. Dove li prende i soldi Bankitalia per acquistare, nell’ambito del quantitative easing e del «programma di acquisto per l’emergenza pandemica», i titoli del Tesoro che prima erano stati acquistati dalla banche commerciali? Dalla Bce, dirà l’uomo della strada. Vero. Ma la Bce, a sua volta, da dove li prende questi soldi? No, non li stampa in qualche tipografia di Francoforte. Non c’è bisogno nemmeno della carta. Scrive direttamente la cifra, crea il denaro dal nulla. Con denaro creato ex nihilo vengono liquidate le banche che hanno acquistato i titoli in asta o sul mercato obbligazionario e questi titoli finiscono nel bilancio delle banche centrali. A questo punto lo Stato non paga più gli interessi alla banca commerciale ma alla “sua” banca centrale, che poi li gira di nuovo allo Stato sotto forma di diritto di signoraggio. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2020 gli acquisti sono stati per 175 miliardi (a fronte di un deficit di 159 miliardi), con un recupero di interessi di oltre 10 miliardi[9]. Una partita di giro. Ma cosa succederebbe se la banca centrale trasformasse questi titoli in “titoli perpetui”, senza scadenza? Di fatto sarebbe una cancellazione del debito. Ma Bankitalia e la Bce non rischierebbero certamente di fallire[10].

La situazione eccezionale richiede interventi eccezionali. La crisi pandemica non è un evento passeggero – siamo entrati nell’era delle pandemie? – e i suoi effetti di medio e lungo periodo sono del tutto imprevedibili. Non servirà a molto la letteratura sulle crisi di cui disponiamo per tentare di prevederne il decorso e l’impatto sull’economia e la società nei prossimi anni. Di certo, le sfide che abbiamo davanti rendono del tutto obsolete ed inutili alcune convinzioni. C’è un’economia da ricostruire e da trasformare e una società da curare, nel senso stretto di prendersene cura. L’Europa ha fatto qualche passo in avanti, ma sia l’entità delle risorse a disposizione che la loro natura (per una parte a debito e condizionate dagli stessi vincoli europei) non corrispondono pienamente ai bisogni di questo tempo (il resto lo fanno i programmi neoliberisti come quello italiano[11]). Come hanno fatto osservare gli estensori di un recente appello per la cancellazione del debito, sottoscritto anche in Italia da 21 economisti, “la Bce potrebbe offrire agli Stati europei i mezzi per la loro ricostruzione in chiave ecologicamente sostenibile, ma anche riparare la frattura sociale, economica e culturale dopo la terribile crisi sanitaria che stiamo attraversando”. Un patto, quindi, tra governi è Bce: “Quest’ultima si impegnerà a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si impegneranno a investire lo stesso importo nella ricostruzione ecologica e sociale”. Risorse ben più cospicue di quelle del Next Generation Ue. D’altro canto è paradossale che in una fase come questa far “girare il debito” sia più importante della vita di milioni di persone. Invero il senso di tutto questo si comprende: usare il debito per imporre politiche economiche e riforme “di contesto” neoliberiste. Ma a pensarci bene è solo miopia. Vengono alla mente le parole di John Maynard Keynes: “I devoti del capitalismo sono spesso ec­cessivamente conservatori e respingono riforme nella sua tec­nica, che in realtà potrebbero rafforzarlo e preservarlo”[12]. Infatti, uscire dal capitalismo non è in agenda, ma realizzare una società più inclusiva e più giusta è ciò a cui realisticamente si può e si dovrebbe tendere. Anche per rimuovere quella che Giorgio Lunghini definiva “la contraddizione tra disoccupazione e distribuzione arbitraria e iniqua delle risorse e del reddito da un lato e bisogni sociali insoddisfatti dall’altro”[13]. Laddove tra i bisogni sociali c’è anche quello di un’economia che funzioni nel perseguimento di finalità generali. Il tempo è adesso.


[1] Il cosiddetto “mercato della CO2”, nell’ambito del Sistema Europeo di Scambio di Quote di Emissione (EU ETS), adottato dall’Unione europea in attuazione del Protocollo di Kyoto.

[2] Asset Purchase Programme (APP) e Pandemic Emergency Purchasing Programme (PEPP).

[3] Discorso al Parlamento europeo riunito in sessione plenaria, 14 febbraio 2022.

[4] Riccardo Realfonzo, Finanziamento delle politiche e scenari del debito dopo il covid-19, Economia e Politica, 15 aprile 2020.

[5] Il passaggio dall’obiettivo di un tasso “al di sotto, ma vicino, al 2%” a quello del 2% “simmetrico”, che considera ugualmente indesiderate sia le deviazioni negative che positive rispetto a questa soglia.

[6] The EU’s fiscal rules must be reformed if we are to secure the recovery – intervento di Draghi e Macron pubblicato sul Financial Times del 21 gennaio 2021 ( https://www.governo.it/it/articolo/ue-intervento-di-draghi-e-macron-sul-financial-times/18890).

[7] Francesco Giavazzi, Veronica Guerrieri, Guido Lorenzoni, Charles-Henri Weymuller, Revising the European Fiscal Framework December 23, 2021( https://www.governo.it/sites/governo.it/files/documenti/documenti/Notizie-allegati/Reform_SGP.pdf).

[8] Fonte: Osservatorio sui Conti pubblici italiani (https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-un-aggiornamento-sul-debito-pubblico-acquistato-dalla-bce).

[9] Fonte: Osservatorio sui Conti pubblici italiani.

[10] Luigi Pandolfi, Ora si dice pure che il debito si può cancellare, Il Manifesto, 18.11.2020.

[11] Luigi Pandolfi, Piano di ripresa e resilienza: una nuova fregatura, Volere la luna, 28.04.2021.

[12] John Maynard Keynes, La fine del laissez-faire, in La fine del laissez-faire ed altri scritti economico-politici, Bollati Boringhieri, 1991, pag.43.

[13] Giorgio Lunghini, I nuovi compiti dello Stato, in Sul capitalismo contemporaneo, Bollati boringhieri, 2001, pag.79.

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