Critica della (s)ragione strumentale/calcolante-industriale

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Political and social notes

“Ormai solo un Dio ci può salvare”: è una delle risposte – forse la più famosa (e dalle molte interpretazioni possibili) – date da Martin Heidegger nella sua intervista del 1966 a Der Spiegel e pubblicata nel 1976 solo dopo la sua morte per volontà dello stesso filosofo (Heidegger, 1987: 140). Qui invece, da laici e da illuministi diciamo che solo un’altra ragione – umanistica, riflessiva e sostenibile, quindi non solo diversa ma radicalmente opposta alla razionalità strumentale/calcolante-industriale-capitalista dominante da tre secoli – ci può salvare.

Uscire dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale

E per salvarci (dalla crisi ambientale e da quella sociale), questa nuova ragione deve permetterci soprattutto di riprovare a immaginare – sono passati giusto vent’anni dalla oscena macelleria messicana che lo stato italiano praticò deliberatamente e scientemente a Genova nel 2001 contro i no-global e le loro idee – che un altro mondo sia davvero possibile: un mondo altro dal tecno-capitalismo, altro dall’accumulazione tecno-capitalista, altro dallo sfruttamento dell’uomo permesso dalle nuove tecnologie, altro dallo sfruttamento della biosfera per profitto privato. Con un’economia altra rispetto a quella anch’essa dominante.

Un tornare a immaginare/pensare ancora più necessario quando, come accade da tempo in una sorta di crescendo rossiniano, troppi scienziati (in questo forse non casualmente alleati/allineati con l’ideologia neoliberale e soprattutto con quella tecnologica che ci porta a delegare la nostra vita a un algoritmo e a percepirci come non responsabili di ciò che facciamo), troppi scienziati vogliono farci credere che il libero arbitrio non esiste e che siamo governati da forze deterministiche cieche (cfr., Internazionale nr.1416), alle quali possiamo/dobbiamo solo adattarci senza avanzare critiche e progetti alternativi – e che anche questa economia e questa tecnica sono quindi il nostro destino.

Di più e peggio: oggi, il tecno-capitalismo vuole farci tornare in fretta a come eravamo prima della pandemia. E invece – a contrario – dobbiamo impedirci, usando una ragione diversa, di tornare come prima perché secondo l’ultimo Rapporto dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, la crisi ambientale sta peggiorando rapidamente e avrà un effetto devastante per la vita sulla terra già fra trent’anni (https://ipccitalia.cmcc.it/). Per cui non bastano un po’ di resilienza e di economia circolare e un po’ di green washing e di transizione/finzione ecologica à la Cingolani; serve un radicale cambiamento degli stili di vita, dei modi di produrre e di consumare, di valutare costi e benefici.

Serve appunto uscire dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale-capitalista che produce e incessantemente riproduce invece questo modo di produrre e di consumare, questo stile di vita, questo modo di calcolare (“Nella riduzione del pensiero ad apparato matematico è implicita la consacrazione del mondo a misura di sé medesimo”, cioè la sua immodificabilità – scrivevano già nel 1944 Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo: 34).

Una razionalità totalmente (totalitariamente) irrazionale e irresponsabile verso le future generazioni.

La resilienza per dire adattamento

E poi, la resilienza, nuova parola della neolingua tecno-capitalista, oggi tanto di moda da essere inserita anche nel PNRR. Resilienza che in realtà è un altro modo per dire e imporre di nuovo l’adattamento dell’uomo alle esigenze dell’accumulazione capitalistica e della rivoluzione industriale (qualcosa che accomuna il fordista-taylorista/industrialista Gramsci al neoliberalismo), che per il sistema vengono prima della democrazia, della autonomia dei soggetti, della loro capacità di immaginare; prima della responsabilità verso la biosfera. Resilienza. Secondo treccani.it in ecologia la resilienza è “la velocità con cui una comunità (o un sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione che l’ha allontanata da quello stato; le alterazioni possono essere causate sia da eventi naturali, sia da attività antropiche”; mentre in psicologia, la resilienza è “la capacità [dell’individuo] di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità”.

In realtà – e per comprenderlo basta guardare le strategie di politica economica del governo Draghi e la scelta dello stesso Cingolani come ministro – per il tecno-capitalismo resilienza significa oggi far tornare il sistema tecnico e capitalistico al suo stato normale neoliberale (ma con un po’ di green e di social-washing), dopo la perturbazione prodotta dalla pandemia. Significa far reagire psicologicamente l’individuo ai traumi e alle difficoltà indotte dal Covid-19 riattivando (applicando su scala ampia le tecniche di management delle risorse umane mirate al self-management, all’empowerment di se stessi) la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità del soggetto neoliberale per farlo tornare a desiderare le crescita – e non uno sviluppo sostenibile praticando un agire responsabile.

Ha scritto egregiamente Evelyne Pieiller (Le Monde Diplomatique, maggio 2021: 3): la resilienza “è sulla bocca di tutti: istituzioni internazionali, mondo della finanza, del management, della sanità pubblica, economisti, urbanisti, climatologi. I politici ne vanno pazzi. […] Boris Cyrulnik [uno dei suoi ‘inventori’] definisce la resilienza come la capacità di realizzarsi, vivere e crescere positivamente, in maniera socialmente accettabile, nonostante lo stress o le circostanze avverse che normalmente comportano il rischio di un esito negativo. Guardiamo il lato positivo! [Ovvero], di fronte alle disgrazie della vita, possiamo ricostruirci, rialzarci, persino reinventarci. La sofferenza può trasformarsi in opportunità, attraverso una versione psicologica della distruzione creatrice… […] Si tratta di un’operazione molto indovinata di celebrazione della magia delle nostre risorse, che maschera il permanente adattamento del soggetto a scapito dell’elaborazione delle cause della sua sofferenza, secondo Thierry Ribault. […] La sua estrema valorizzazione è sicuramente in linea con lo spirito del tempo, che invita ognuno a considerare se stesso come un capitale da potenziare. Ma, in termini più ampi, la promozione della resilienza come modello diffuso di attraversamento positivo delle prove, del resiliente come eroe modesto che ha riconosciuto e trasformato le proprie fragilità, è un’arma ideologica e politica ideale. Di fatto, oggi si pone e viene celebrata come la soluzione per superare i tempi difficili”. Ovvero la parola resilienza è funzionale non alla soluzione della crisi climatica e ambientale, non a una vera transizione ecologica (dove persino il nucleare diventa green), ma a permettere un nuovo, ennesimo resettaggio trasformistico del capitalismo. D’altra parte, The Great Reset è una proposta del Wef di Davos per ricostruire l’economia capitalistica e tecnologica dopo la pandemia, oltre ad essere il titolo di un libro di Klaus Schwab (con Thierry Malleret), guru del Wef e del tecno-capitalismo, nonché inventore della definizione di ‘quarta rivoluzione industriale’.

In realtà si cambia il linguaggio, si modifica la narrazione neoliberale (secondo le logiche sottese a ogni produzione industriale di neolingue) per non cambiare nulla. Nella resilienza così come nella quarta rivoluzione industriale: che non è diversa dalla prima (anche se dobbiamo crederlo), essendo anche la ‘quarta’ sempre basata sulla divisione e poi sulla totalizzazione del lavoro in una organizzazione eterodiretta, dove il digitale si aggiunge e si integra con il taylorismo, ma non lo cancella in nome di un lavoro intelligente, semmai lo esaspera nei suoi tempi ciclo, nell’organizzazione, nel comando e nel controllo capitalistico. Resilienza è dunque una nuova parola neoliberale per dire in altro modo adattamento dell’uomo (di un uomo che deve adattarsi, negandosi come uomo, come soggetto pensante/progettante/immaginante – appunto, rinunciando al libero arbitrio), anche alla crisi climatica. Evitando di mettere in discussione la sua causa, cioè il tecno-capitalismo, cioè – ex ante – la razionalità strumentale/calcolante-industriale.

Introduciamo così, dopo questa lunga premessa, le ulteriori riflessioni critiche che seguiranno su tecnica, tecnologia e capitalismo (e che in parte riprendono quelle del passato, anche in queste ‘pagine’), dichiarando immediatamente che la tecnologia è ovviamente anche cosa buona e giusta quando si applica alla cura in senso lato (pensiamo ai mesi di pandemia e alla socializzazione via rete), alla medicina, all’esplorazione scientifica, alla cultura e all’archiviazione del sapere, alla possibilità di fare contro-informazione – ma non è di questo che ci occuperemo. Quanto e piuttosto di una certa ideologia di Progresso che celebra e venera oggi nuovamente la tecnologia e la tecnica (infra) come se fosse un dio capace di infiniti miracoli (compresa la transizione ecologica); tecnologia verso la quale l’uomo ha un atteggiamento tra il feticista e l’infantile/puerile, e che viene usata e vissuta come se fosse un giocattolo, dimenticando che una app, un social e un videogioco non sono come il vecchio ‘meccano’ o il ‘piccolo chimico’, ma mezzi diretti di produzione e di accumulazione capitalistica e soprattutto di ingegnerizzazione comportamentale (mentre il ‘meccano’ e il ‘piccolo chimico’ lo erano in forma indiretta e propedeutica).

Guardare, capire, interpretare

Questo feticismo è un velo tecnologico (Adorno, 1976: 347) che abbiamo davanti agli occhi e che ci impedisce di vedere la complessità della realtà, le sue trasformazioni nel corso del tempo, ma soprattutto la sua genealogia. Per immaginare un mondo altro e crederlo possibile, servono allora tre condizioni.

Prima condizione: che si esca dal determinismo di cui si ammantano le tecnologie e l’industria, l’innovazione tecnologica e il neoliberalismo (Demichelis, 2015; 2018), determinismo per cui non ci sono alternative e l’innovazione tecnologica non si deve fermare. Fonte di questo determinismo è, come anticipato, quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina dall’inizio della rivoluzione industriale (dagli inizi della modernità) e che ci spoglia progressivamente, in nome del calcolo e della sua presunta razionalità/esattezza (oggi algoritmica/digitale), di ogni libero arbitrio, di ogni immaginazione, soprattutto di ogni pensiero meditante e responsabile, noi delegando sempre più alla tecnica l’organizzazione, il comando e il controllo – cioè l’amministrazione e l’automatizzazione – della nostra vita e sognando un algoritmo capace di darci le risposte prima ancora di avere fatto le domande. Una razionalità strumentale/calcolante che è molto più della ricerca del modo migliore per raggiungere un obiettivo e che è invece diventata una ontologia (il senso dell’essere dell’uomo èil calcolo e infatti non siamo più persone ma dati e capitale umano); una teleologia (la razionalità calcolante-industriale ordina e predetermina la realtà perseguendo un fine unico e appunto deterministico: l’accrescimento del tecno-capitalismo e del profitto privato); e una teologia (che non ama il pensiero dissidente, uniforma le molteplicità del mondo e delle persone riducendo tutto al pensiero unico del dio razionale-industriale).

Seconda condizione: che si democratizzino radicalmente i processi economici e soprattutto i processi di innovazione tecnologica, subordinandoli alla scelta consapevole del demos, ben sapendo tuttavia che la democrazia è un processo sempre fragilissimo e soprattutto lento, mentre il tecno-capitalismo (la razionalità strumentale/calcolante-industriale) è un processo potentissimo, veloce, futuristico e incessantemente rivoluzionario. Una democratizzazione che deve avvenire sia all’interno delle imprese, imponendo l’obbligo di una vera partecipazione dei lavoratori alle decisioni che li riguardano e non un loro mero coinvolgimento ex post per condividere le decisioni prese ex ante dall’impresa per interesse privato; sia nella società, costruendo il quadro normativo e le istituzioni per una partecipazione democratica dei cittadini – sempre ex ante – alla decisione su tutte quelle innovazioni tecniche & organizzative che dall’impresa privata/capitalista impattano sempre più, in questa società iper-industrializzata-digitalizzata, sulla  vita delle persone: perché non è ammissibile che in democrazia esista un potere – l’impresa, con i suoi processi di innovazione tecnologica, di profitto privato e insieme di distruzione sociale e ambientale (Demichelis, 2020/b) – non controllato e non bilanciato da un contro-potere (Dahl, 1989; Gallino, 2007).

Terza condizione: che a monte delle due precedenti vi sia una nuova etica capace di contrastare laicamente la metafisica nichilistica e appropriativa/disruptiva della razionalità capitalistica, provando quindi a replicare oggi, contro il tecno-capitalismo il processo sociale-culturale con cui l’etica della democrazia e della libertà aveva sconfitto la metafisica nichilistica del fascismo. Un’etica nuova e fondata sul riconoscimento del concetto di limite (in opposizione alla illimitatezza del tecno-capitalismo), su un principio di responsabilità (Jonas: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura della vita”) e su un principio di precauzione (prima di introdurre una innovazione occorre valutarne, per quanto possibile le conseguenze/effetti anche a lungo termine su ambiente e società), necessari per attivare un nuovo principio speranza (Bartolini-Demichelis, 2021).

La sinistra, l’individuo e il tecno-capitalismo

Se quelle indicate sono le tre condizioni necessarie per poter immaginare e poi realizzare (forse) una società giusta grazie alla tecnologia ma applicando una razionalità  umanistica e ambientalistica tutta diversa da quella strumentale/calcolante-industriale, la prima domanda da porre è se possono realizzarle le sinistre di ieri e di oggi (ammesso che esistano ancora), positiviste e industrialiste più dei positivisti-industrialisti ottocenteschi (e di oggi) e per i quali società, società industriale e industria erano (e sono ancora) la stessa cosa; e sognavano, come Saint-Simon – teorizzatore di un socialismo scientista e tecnocratico – una società governata da scienziati e da industriali quali guide dei lavoratori. La seconda domanda è se può farlo l’idea comunista, ricordando che il general intellect marxiano è sempre smentito dalla realtà, che Lenin era più taylorista di Taylor e i manager sovietici più fordisti di Ford, che per loro era un autentico idolo rivoluzionario perché uomo di scienza (in Settis, 2016: 167); per non dire della Cina di oggi, forse comunista, certamente tecno-capitalista. Un general intellect per di più oggi totalmente incorporato in macchine che imparano da sole e in algoritmi matematici. E oggi – anche a sinistra – non si guarda forse a Bezos, Zuckerberg (che inventa il Metaverso) e Musk come a dei visionari e dei rivoluzionari, quando sono in realtà dei capitalisti autocratici, sfruttatori e disruptivi – oltre che evasori fiscali compulsivi?

E proprio questo uso identico – da destra e da sinistra – della tecnica (della razionalità strumentale/calcolante-industriale) sembra essere la dimostrazione fattuale (terza questione da affrontare) di come essa non sia neutra come troppi continuano a credere, ma sia sempre più forte delle differenze politiche, pre-ordinandosi ad esse con la propria deterministica razionalità, integrata con quella capitalista e che diventa, rovesciando Marx, la vera sovrastruttura della società, determinandone la struttura (economica, sociale, del diritto, dell’istruzione, dei valori e dei comportamenti); facendosi anzi superstruttura integrandosi alla struttura che determina (Demichelis, 2015: 80); o, detto altrimenti, la sovrastruttura della cultura della razionalità “condiziona verticalmente la struttura, la produzione e i rapporti sociali” (Prestipino, 2020: 18).

E questo è un tema che le sinistre non vedono, che anzi si rifiutano di vedere, a parte alcune eccezioni come appunto la prima Scuola di Francoforte e, in Italia, Raniero Panzieri (Demichelis, 2020/a) o Claudio Napoleoni (Demichelis, 2020/c), che scriveva di una sinistra “dove non c’è più l’abitudine a ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto”. La sinistra cioè non vede che la tecnica è dotata essa stessa e per se stessa di una propria essenza – come scriveva Martin Heidegger (1985: 5 e segg.), ovvero la macchina “esiste solo in base all’impiego dell’impiegabile”, quindi diviene produttiva e impiegabileper un fine che tuttavia cessa progressivamente di essere umano e diventa lo scopo dell’impiegabilità della macchina, dove soggetto e oggetto (uomo e tecnica) si devono confondere, convergendo (oggi diciamo: ibridarsi) tra loro – ma dove mezzo e fine si invertono.

Una tecnica moderna (ancora Napoleoni), “concepita come manipolabilità all’infinito della realtà senza alcun argine, senza alcun condizionamento, senza nessun riferimento a valori altri che non siano quelli del progresso tecnico e commerciale”. E ammetteva che “ogni volta che si è voluto stabilire un condizionamento non tecnico sulla tecnica, questa operazione è fallita; ogni volta […] che si è detto: ma qui c’è un difetto di moralità e allora ripristiniamo certi valori morali e poi anche politici, in maniera da dare alla tecnica fini diversi da quelli che essa ha per proprio conto, essa si è rivelata come una operazione che si potrebbe definire assolutamente patetica” (Cercate ancora, 1990: 48-49; Demichelis, 2020/c). Il problema, oggi, è che neppure ci si pone più la questione del difetto di moralità del sistema, lo si accetta nel suo cinismo, nella sua disruption sociale e ambientale e ci si adatta.

Una tecnica che vive di una razionalità che la ‘Scuola di Francoforte’ ha chiamato, ovviamente criticandola ragione-razionalità strumentale (Sadin la chiama ragione artificiale, ma è la stessa cosa) e che noi ridefiniamo appunto come razionalità strumentale/calcolante-industriale. E che si pone sopra di noi ma anche dentro di noi, noi avendola ormai completamente introiettata.

Per comprenderla e per valutare gli effetti antropologici che questa razionalità ha prodotto, dovremmo rileggere molti autori. Anche Marx ed Engels – sempre secondo il principio di cercare nel passato la genealogia dei processi di oggi e smentire la facilità semplicistica di chi afferma che con la digitalizzazione si avrebbe un radicale cambio di paradigma rispetto al Novecento, al fordismo-taylorismo. Marx ed Engels per i quali fin tanto che l’attività dell’uomo non è divisa volontariamente e consapevolmente organizzata, l’azione dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta e soggioga, invece di essere da lui dominata, alla fine non sapendo più da dove arrivi e verso dove si diriga;essa “percorrendo una sua propria sequenza di livelli e di gradi dello sviluppo che è autonoma rispetto alla volontà e all’attività degli uomini e che anzi regola tale volontà e tale attività” (2011: 359 e 363). E questa potenza a noi estranea (che cioè non controlliamo consapevolmente) è oggi la rete che ci sovrasta/avvolge/sussume ma con la quale familiarizziamo e giochiamo come fanno i bambini con i giocattoli, pur essendo sempre una potenza a noi estranea che però crediamo sia nostra, democratica e social perché fatta di parole come economia della conoscenza, condivisione/sharing economy, smart/intelligente, ecosistema digitale. Ma dove l’attività delle persone è in realtà (ancora Marx), sempre “determinata e regolata da tutte le parti in movimento del macchinario e non viceversa” – oggi determinata e regolata da un algoritmo; e l’operaio (e oggi tutti noi siamo operai/proletari nel capitalismo digitale e nel capitalismo della sorveglianza), “è frantumato, sussunto sotto il processo complessivo delle macchine e del macchinario vivente (attivo)”.  Ma a questa condizione di alienazione non è tuttavia subentrato infine (come invece credeva Marx) – e non può subentrare proprio perché negato a priori dalla razionalità strumentale/calcolante-industrialeil libero sviluppo delle individualità, né una società superiore (“ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”) e neppure un mondo diverso, dopo averlo immaginato.

E ciò che sempre Marx aveva già allora ben compreso – e cioè che le funzioni specifiche del capitalismo sono organizzazione, comando e sorveglianza (supra) – si replicano oggi, ma n volte maggiori anche o soprattutto nella rete quale fabbrica diffusa e panopticon digitale, nella Fabbrica 4.0 come nei social (che sono imprese private votate a massimizzare il profitto per sé, senza altro scopo che questo). Un sistema di fabbrica integrata globale governato/imposto da un imprenditore – Marx nel Libro primo del Capitale – che è un fanatico della valorizzazione e che costringe l’umanità a produrre per amore del produrre. E pensiamo ancora a Mark Zuckerberg, a Jeff Bezos, a Jack Ma, per citare solo i più famosi esempi di questo imprenditore fanatico anche di oggi, il cui obiettivo non è quello di soddisfare i bisogni/desideri umani ma di ricrearli industrialmente e in misura crescente per accrescere il proprio profitto privato. E questo mentre lo storytelling tecno-capitalista ci condiziona/motiva (ci ingegnerizza) a vivere invece la digitalizzazione come un grande teatro delle meraviglie e come una potenza seduttiva-erotica alla quale è impossibile (e inutile) resistere (il determinismo tecno-capitalista che ritorna e ingegnerizza i nostri comportamenti).  È quello che definiamo appunto come tecno-capitalismo, dentro al quale siamo oggi totalmente sussunti e alienati e ormai incapaci di praticare un conflitto di razionalità contro la razionalità calcolante.

Il totalitarismo tecno-capitalista

Da questa razionalità strumentale/calcolante-industriale sono nate l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, la psicologia applicata alla gestione delle risorse umane e le retoriche sul capitale umano e sull’auto-imprenditorialità; il coaching e l’economia comportamentale; la pubblicità e il marketing e l’industria culturale e dello spettacolo e i social e le community e i mass media commerciali: tutte tecniche-tecnologie di ingegnerizzazione dei comportamenti umani per renderli appunto funzionaliadattandoli – alle esigenze della rivoluzione industriale.

Così producendosi – ma ormai da lungo tempo – quel tecno-capitalismo (la razionalità strumentale/calcolante-industriale) che dobbiamo chiamare per ciò che è: totalitarismo. Ma lo aveva scritto già il francofortese Marcuse che la società tecnologica avanzata “tende a diventare totalitaria” e questo“nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. (…). La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli. (…). Essa plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative” (Marcuse, 1999: 9 e 10). Mentre Adorno scriveva: “La totalitarietà [il totalitarismo] della società si dimostra nel fatto che essa non soltanto sequestra completamente i suoi membri, ma li crea a propria immagine” (1976: 348; ma anche: 62). Di più, ancora Marcuse: “La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica” e “le tecniche dell’industrializzazione sono tecniche politiche; come tali, esse pregiudicano la possibilità della Ragione e della Libertà” (1999: 32). Che è appunto la perfetta descrizione del mondo anche di oggi (ma peggio di ieri), dove la tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale (il capitalismo della sorveglianza, il Big Data, Cambridge Analytica, tutti che devono essere connessi per essere controllabili) e di coesione sociale (i social, le community, il condividere), più efficaci e più piacevoli.

La tecnica e le tecnologie

Per definire poi cos’è la tecnica e cosa le tecnologie ripartiamo dal filosofo Umberto Galimberti (1999: 34): “Con il termine tecnica dobbiamo intendere sia l’universo dei mezzi (cioè le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini (…) di funzionalità e di efficienza”. Cioè di calcolo e di strumentalità. E questo perché la tecnica – in sé e per sé– non ha altro fine che il proprio incessante accrescimento (come il capitalismo), non si pone e non sopporta alcun limite (come il capitalismo)di carattere etico, morale, antropologico, fisico/ambientale e pretende di funzionare al massimo dell’efficienza e della prestazione che può richiedere agli uomini e alle macchine (come il capitalismo – Chicchi-Simone, 2017).

E un altro filosofo, Aldo Masullo scriveva a sua volta: “il pensiero, senza il controllo del calcolo, è delirio. Ma il calcolo, sottratto al governo della vita pensante, è insensatezza” (2011: 208), e quindi solo il pensiero genera libertà. Non la tecnologia. Non il mero calcolo. E quindi “la tecnica è diventata oggi una sfida continua alla libertà dell’uomo”. Eppure, l’uomo continua invece (ingenuamente) ad associare tecnologia a libertà. E così a perdere progressivamente la propria libertà e la capacità di immaginare altro e altrimenti. Una tecnica figlia a sua volta della rivoluzione scientifica seicentesca e di un illuminismo tradito da se stesso e dal positivismo (cfr., Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo; Marcuse, La società tecnologica avanzata).  

Ancora Max Horkheimer: “la ragione è cioè diventata uno strumento di autoconservazione del sistema industriale”; “il suo concetto generale non è l’universalità della libertà, bensì del calcolo”; e “si riduce a cercare l’adattamento ottimale del mezzo allo scopo, il pensiero è solo uno strumento per risparmiare lavoro. La ragione mira solo all’utile (…). Contravvenire a una simile ragione diventa un sacrilegio. Essa fonda la sottomissione del singolo al tutto. La categoria di individuo alla quale era legata l’idea di autonomia non ha resistito alla grande industria. L’individuo non deve più preoccuparsi del futuro, ma essere pronto a adattarsi (…) ad agire sempre diversamente ma sempre allo stesso modo” (2015: 68, 81).

Per vedere e interpretare meglio la realtà anche di oggi, riprendiamo ancora una volta – rileggerlo è essenziale alla comprensione dell’oggi – ciò che scriveva Raniero Panzieri agli inizi degli anni Sessanta: “Lo stesso tipo di processo che domina la fabbrica, caratteristico del momento produttivo, tende a imporsi a tutta la società e quindi quelli che sono i tratti caratteristici della fabbrica (…) tendono a pervadere tutti i livelli della società”. Cioè il capitalismo cerca in ogni modo di “estendere la sua razionalizzazione oltre i limiti della fabbrica, per ritornare poi a questa” (in Demichelis, 2020/a). Come accade ancora di più oggi, via rete/digitalizzazione/capitalismo delle piattaforme. Che non sono il nuovo che avanza e non si può fermare, ma il vecchio che ritorna – però digitalizzato.

Continuava Panzieri: “Nell’uso capitalistico, non solo le macchine, ma anche i metodi, le tecniche organizzative, ecc. sono incorporati nel capitale, si contrappongono agli operai come capitale: come razionalità estranea”. Non solo, e oltre Panzieri: la tecnica permette al tecno-capitalismo di abbattere il suo avversario di classe, destrutturandolo e dividendolo – e pensiamo alla logistica, all’intensificazione dei tempi ciclo di lavoro, alle piattaforme che permettono di far esplodere la vecchia fabbrica fordista-taylorista senza modificarne l’organizzazione basata sulla divisione del lavoro, pensiamo al caporalato dei riders, pensiamo alle filiere produttive organizzate just in sequence esasperando di nuovo l’organizzazione, il comando e il controllo nel nuovo/vecchio taylorismo digitalizzato e insieme individualizzato, pensiamo all’home-working così simile al vecchio lavoro a domicilio di otto-novecentesca memoria. Importante – ancora Panzieri – “è che l’operaio non abbia mai la possibilità di decidere organizzativamente, cioè di decidere sul capitale”. E invece proprio questa possibilità e poi la capacità di decidere organizzativamente devono essere conquistate, nella vecchia fabbrica e nella nuova fabbrica chiamata rete.

Vecchi e nuovi Dottor Ure

E sembra davvero di essere tornati all’Ottocento descritto da Karl Marx. Dove faceva la sua comparsa anche il Dottor Ure, pesantemente criticato da Marx per il suo cinismo (aveva giustificato scientificamente lo sfruttamento del lavoro minorile, così come richiesto dalle organizzazioni padronali – e oggi molti Dottor Ure giustificano scientificamente la libertà di licenziare, lo schiavismo nella raccolta dei pomodori e l’insicurezza criminale sul lavoro). Scriveva Ure a proposito della self-acting mule(una macchina automatica del tempo): “Questa innovazione conferma la dottrina già da noi sviluppata, che il capitale, forzando la scienza a servirlo, costringe sempre alla docilità la mano ribelle del lavoro” (Il capitale, 2018: 296). E se il libro più famoso di Ure – La filosofia delle manifatture – era anche “una apologia della giornata illimitata” (sempre Marx), oggi si sta realizzando il sogno di Ure, noi lavorando h 24 per sette giorni su sette, dopo che il capitale, forzando nuovamente la mano alla scienza, ha prodotto quelle tecnologie che lo permettono.

Se questo è vero (ed è tutto vero) si impone allora non la nostra resilienza psicologica alla crisi, ma un cambio di paradigma antropologico per una nuova resistenza al tecno-capitalismo (al dominio/egemonia della razionalità strumentale/calcolante-industriale). Lo chiedono, urgentemente, la crisi ambientale e climatica e quella sociale e per le cui soluzioni non basta un resettaggio green o social del tecno-capitalismo (della razionalità industriale-industrialista). Senza questo cambio antropologico, allora (Max Horkheimer, La società di transizione: 168 e 174) “la società si trasformerà in un mondo totalmente amministrato. (…) Tutto potrà essere regolato automaticamente (…), tutto si ridurrà al fatto di imparare come si usano i meccanismi automatici che assicurano il funzionamento della società”. Anche o soprattutto quando la crisi climatica esploderà in tutta la sua evidenza.

Una amministrazione automatizzata della vita oggi già quasi compiutasi (quindi resistere diventa più difficile, ma anche più urgente) e dove – scrive a sua volta Sadin – il digitale si erge “a potenza aletheica, a un’istanza destinata a mostrare l’aletheia, la verità nel senso definito dalla filosofia greca antica. […] prende la forma di un techne logos, un dispositivo artefattuale dotato del potere di dire, con sempre maggiore precisione e immediatezza, lo stato teoricamente esatto delle cose. [..] Questa logica è pensata per essere applicata, sul lungo periodo, a tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva. […] I dispositivi aletheici sono destinati, per via della loro crescente sofisticatezza, a imporre la loro legge, orientando dall’alto della loro autorità le situazioni umane. [Questo grazie anche] alla generalizzazione della nozione acritica di rivoluzione digitale e, conseguentemente, al movimento in corso di digitalizzazione integrale del mondo […] con l’obiettivo di raggiungere un’amministrazione indefinitamente massimizzata delle cose. […] che dà nuovamente corpo alla prospettiva di una sorta di compimento della Storia, secondo la visione escatologica occidentale dell’avvento di un regime compiuto di perfezione” (Sadin, 2019: 10, 12, 13, 14 – corsivi nostri).

De-industrializzare la società

Conseguentemente, se vogliamo provare, di nuovo, a immaginare altro – se non l’uscita dal tecno-capitalismo (sempre auspicabile), almeno una vera sostenibilità ambientale e sociale e una vera responsabilità verso le future generazioni – occorre de-industrializzare la società (Demichelis, 2013). Cioè bloccare la trasformazione ulteriore della società non tanto in mercato (secondo il neoliberalismo), quanto in fabbrica, oggi digitalizzata e globale – considerando la fabbrica come la sublimazione della tecnica intesa nel senso di Galimberti.

Bloccare. Per poi invertire o almeno deviare la rotta che ci sta portando a sbattere contro l’iceberg della crisi climatica (e sociale), mentre l’orchestra mainstream suona la musica della resilienza.

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Lelio Demichelis insegna Sociologia economica all’Università degli Studi dell’Insubria. Si occupa di sociologia del lavoro e della tecnica. Da poco è uscito – scritto a quattro mani con l’analista filosofo Paolo Bartolini – La vita lucida. Un dialogo su potere, pandemia e liberazione, Postfazione di Miguel Benasayag, Jaca Book.

Bibliografia di riferimento

Adorno T. W. (1976), Scritti sociologici [1972] (trad. di A. M. Solmi), Einaudi, Torino

Anders G. (2003), L’uomo è antiquato, I e II [1963 e 1992], Bollati Boringhieri, Torino

Bartolini P. – Demichelis L. (2021), La vita lucida. Un dialogo su pandemia, potere, liberazione, Postfazione di M. Benasayag, Jaca Book, Milano

Chicchi F. Simone A. (2017), La società della prestazione, Ediesse, Roma

Dahl R. A. (1989), La democrazia economica [1985], il Mulino, Bologna

Demichelis L. (2020), Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene, FrancoAngeli, Milano

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