Il diritto al servizio del capitale. Note a margine di un libro di Katharina Pistor

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Political and social notes

Che cos’è il «codice del capitale»?

Ormai anche nella patria del capitalismo contemporaneo, gli Stati Uniti d’America, c’è chi si interroga sulla necessità di tornare a riflettere sulla natura, sul significato e sul ruolo del diritto nella nostra epoca. Lo fa con grande intelligenza la comparatista Katharina Pistor in un libro uscito nel 2019 nella versione originale per i tipi di Princeton University Press e qualche mese fa nell’edizione italiana con il titolo Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza (con postfazione di Francesco Di Ciommo, Sergio Di Nola e Massimiliano Vatiero, Luiss University Press, Roma 2021).

La tesi di fondo della studiosa tedesca che insegna “Comparative Law” alla Columbia Law School è espressa con estrema chiarezza sin dalle prime pagine e resta il filo costante dell’intero volume: «In questo libro sostengo che il capitale viene codificato nella legge, che gli avvocati sono signori del codice, e che gran parte dei signori del codice provengono da un solo sistema giuridico: la common law. Se questo è vero, è ora di rimettere mano al dibattito sull’impatto dei sistemi giuridici»[1].

I nove capitoli di cui si compone il libro sono costruiti con l’intento di dimostrare il fondamento di questa tesi, di rintracciarne le antiche origini, risalenti all’età medievale, e di descriverne i successivi sviluppi fino al diritto commerciale e finanziario dei nostri giorni.

L’ottavo capitolo apre lo sguardo verso un possibile futuro del diritto messo a dura prova dai nuovi codici digitali. L’ultimo capitolo, dal titolo suggestivo Il capitale impera secondo la legge, è dedicato all’elaborazione di possibili rimedi da poter utilizzare per superare le terribili distorsioni prodotte dal codice del capitale che sono ormai tutte dispiegate chiaramente innanzi ai nostri occhi.

La parola codice non è intesa da Katharina Pistor nel senso classico di raccolta di leggi sul modello del Codice Napoleone del 1804. L’Autrice usa questo termine «per mostrare come alcune istituzioni legali sono state combinate e ricombinate con un sistema modulare per codificare il capitale. I principali moduli, anche se non i soli, utilizzati a tale scopo sono stati contratti, proprietà, garanzie, trust e il diritto societario e fallimentare»[2].  

Il codice consiste in un insieme di moduli e di tecniche giuridiche utilizzati da chi dispone delle risorse e della capacità di trasformare ciò che considera una propria fondata e giusta pretesa in capitale giuridicamente protetto: «Una risorsa, una volta codificata legalmente, può generare ricchezza per chi la detiene. La codifica giuridica del capitale è un processo ingegnoso senza il quale il mondo non sarebbe mai arrivato ai livelli di ricchezza attuali, eppure il processo in sé è stato in genere celato»[3].

Codificare il capitale è un’operazione complessa realizzata dai migliori giuristi per trasformare gli assetti del potere privato acquisito con l’attività economica in un diritto universalmente riconosciuto all’interno della sfera pubblica. La codifica del capitale, dunque, non è altro che una sorta di regolamentazione giuridica che viene prodotta dal settore privato e viene, poi, riconosciuta dal potere pubblico come vera e propria legge. Tale attività di elaborazione di nuove regole non si svolge all’interno di un Parlamento o di un’assemblea rappresentativa, ma piuttosto nelle segrete e ovattate stanze dei migliori studi legali, trasformati in moderne law firms, coinvolgendo nella procedura soltanto le persone interessate a ricavare vantaggi da quello che si sta discutendo.

Questa tipologia di normazione privata che proviene da una parte ben precisa della società – e cioè dagli individui e dalle imprese piccole e grandi impegnate nella gara per la produzione del profitto e della ricchezza – non ha bisogno di transitare attraverso un’unica organizzazione istituzionale di tipo statale. Essa si produce in un ambiente complesso che non poggia su un solo ordinamento giuridico, come avveniva in passato, ma attinge a diversi ordinamenti giuridici statali e accordi internazionali conclusi tra Stati a seconda di interessi contingenti oggetto di attività che solitamente rientrano nel diritto internazionale privato, nonché ad arbitrati privati. Questo perché l’economia non è più legata a un unico ordinamento statale, ma agisce su una dimensione necessariamente globale. «La costruzione di un’infrastruttura giuridica per il commercio globale – sono parole della Pistor – ha assunto in genere due forme alternative: l’armonizzazione della legge in stati differenti e il riconoscimento e l’applicazione di una legge straniera. La seconda forma è riuscita molto meglio a proteggere il capitale a livello globale, ma ha richiesto che i vari paesi adottassero le proprie leggi di diritto internazionale per fare in modo che il potere decisionale e l’autonomia dei privati avessero la meglio sulle questioni di pubblica utilità»[4].

La codifica del capitale escogitata dall’abilità degli avvocati ha fatto sì che coloro che detengono il capitale globale abbiano «trovato il modo non solo di piegare la legge ai loro interessi; hanno anche trasformato parlamenti, governi e in molti paesi perfino le corti di giustizia in agenti al servizio dei loro interessi, e non dei cittadini verso i quali dovrebbero essere responsabili»[5].

Insomma la codifica del capitale utilizza diverse leggi statali fino a identificare quella più utile a trasformare precisi interessi di alcune parti ben definite in diritti universalmente riconosciuti.

Dalle origini ai nostri giorni

La codifica del capitale, in realtà, non è una tecnica nuova. Nei capitoli centrali del libro, l’Autrice ricostruisce un’ampia casistica delle forme di codifica legale del capitale a partire dalle origini che risalgono addirittura al Medioevo. All’inizio si trattò di trasformare la disponibilità della terra in un diritto pieno che potesse non solo costituire una solida garanzia per i creditori, ma potesse anche essere ceduto e convertito in denaro nel momento opportuno per soddisfare i creditori. È così che dalla proprietà medievale basata sulla disponibilità della terra e dei sui frutti (dominium utile), si è arrivati al concetto moderno di proprietà assoluta passando per le enclosure cioè per la recinzione delle terre comuni da parte di coloro che pretendevano di esserne gli unici utilizzatori a danno di tutti gli altri. Secondo la Pistor, tuttavia, «non sono stati i princìpi moderni del diritto di proprietà, ma la combinazione di diritti individuali di priorità e di privilegi legali di stampo medievale a rendere tali diritti durevoli, e a trasformare pertanto la terra in ricchezza privata, o capitale»[6].

Ma le cose non si sono fermate qui. L’evoluzione delle tecniche giuridiche di codificazione attraverso l’attività degli avvocati privati, dei solicitors, ha permesso di trasformare anche la proprietà immobiliare e le rendite che da essa derivano in qualcosa che potesse essere oggetto di scambio di mercato attraverso l’elaborazione delle moderne tecniche della cosiddetta cartolarizzazione. «Quando il settore privato ha scoperto la cartolarizzazione, ha cartolarizzato di tutto, dai mutui residenziali ai crediti per prodotti e servizi che andavano dalle auto alle carte di credito fino ai prestiti agli studenti; l’intenzione iniziale di abbassare il costo dei crediti per i proprietari immobiliari portò a coniare tanto denaro privato (o debito) quanto ne richiedevano gli investitori»[7].

Nel proseguire la sua ricostruzione dell’evoluzione storica del codice del capitale Katharina Pistor non poteva non trattare della circolazione dei titoli di credito. In questo campo la codifica legale è servita sostanzialmente a elaborare strumenti giuridici in grado «di trasformare il diritto a un pagamento futuro in asset scambiabili e trasformabili in denaro in qualunque momento» (p. 97). Il primo e più antico strumento di circolazione del debito fu la cambiale tratta. «Di fatto, la diffusione in Europa delle cambiali tratte andò di pari passo con la loro protezione giuridica nelle principali città dove avvenivano gli scambi, segnando l’espansione dei commerci e della finanza. I consigli di queste erano spesso pieni di mercanti, che ovviamente cercavano di difendere lo strumento grazie al quale facevano affari»[8].

Dalle cambiali tratte come strumenti ordinari di circolazione del debito si passa alle forme più sofisticate e moderne di circolazione del debito privato come le Asset-backed security (Abs) o le obbligazioni sul debito garantito (Cdo). I titoli del debito privato cominciano così a circolare e a diffondersi quanto quelli tradizionali del debito pubblico. Solo che, avverte Pistor, mentre nel caso dei titoli del debito pubblico o dei bond societari c’era comunque un’esperienza storica pregressa, non vi era invece alcuna certezza su come sarebbe andata a finire una crisi causata dalla circolazione del debito privato.

Ma la codifica del capitale non si ferma alla circolazione del debito, anzi si estende, con tecniche sempre più raffinate, anche alla giuridificazione e valorizzazione della conoscenza attraverso l’evoluzione della disciplina sui brevetti. La Pistor chiarisce che la «creazione dei diritti globali di proprietà intellettuale può essere infatti fatta risalire direttamente all’organizzazione delle imprese private negli Stati Uniti, e alla loro capacità di mobilitare le loro aziende equivalenti negli altri paesi avanzati. Negli Stati Uniti, le imprese cominciarono a imporsi con la formazione dell’Intellectual property committee (Ipc) nel 1986»[9]. Anche la difesa della proprietà intellettuale e la sua tutela globale sono il frutto della codifica legale che è partita dalle grandi imprese degli Stati Uniti d’America e dalla tutela dei loro interessi economici.

La codifica legale è fondamentale per tutelare gli interessi dei potenti in tutti i settori di attività «Brevetti e asset finanziari vengono in genere descritti come intangibili: non sono oggetti che si possono toccare, ma creazioni della legge. Gli asset finanziari possono essere perfino più imprendibili dei diritti di proprietà intellettuale, visto che non hanno bisogno di un atto ufficiale di uno stato per esistere»[10].

Un codice del capitale per il futuro

Katharina Pistor nei capitoli del suo libro oltre a descrivere le diverse forme di codificazione del capitale consistenti, da un lato, nel trasformare qualsiasi cosa abbia un valore economico, anche solo potenziale, in una cosa da mettere sul mercato e, dall’altro, nelle diverse tecniche per schermare la ricchezza rispetto a qualunque forma di responsabilità che possa svilupparsi in seguito alle fisiologiche crisi di mercato, descrive anche diversi casi emblematici che hanno fatto la storia della codificazione. Tra questi non poteva mancare il caso del fallimento della Lehmann Brothers che ha provocato il cataclisma finanziario del 2007-2008 che viene descritto proprio nella sua dimensione di codificazione del capitale che costituisce la prima e vera causa della crisi.

Vi sono poi ampiamente descritti i casi di successo della tutela del diritto alla terra riconosciuto ai Maya del Belize e altri casi che hanno suscitato grande attenzione nell’opinione pubblica come quello della Myriad Genetics e del suo tentativo di brevettare test genetici o quello delle cosiddette big pharma, come Pfizer o Eli Lilly, di difendere i profitti derivanti dalla tutela globale dei loro brevetti. Altri casi interessanti e di grande complessità tecnica analizzati dall’Autrice, per i quali si rimanda alla lettura del libro, sono quelli delle cartolarizzazioni molto spinte del 2006 come quelle denominate NC2 e i cloni Kleros che sono apparentemente riusciti a creare ricchezza dal nulla, ponendo in estrema difficoltà gli investitori nel momento in cui si sono verificati problemi di convertibilità e di identificazione delle responsabilità ultime nei pagamenti.

Una problematica di grande interesse esaminata dalla Pistor è, senza dubbio, quella trattata nell’ottavo capitolo intitolato non a caso Un nuovo codice? L’Autrice descrive qui la vera e propria lotta che è attualmente in corso tra il codice legale tradizionale e il nuovo codice digitale che avrebbe le potenzialità di sostituire il diritto tradizionale, comunque sottoposto alla necessità di trasformazione e di interpretazione da parte di un essere umano, con un codice digitale a carattere binario, sostanzialmente predeterminato e, pertanto, immodificabile.

La Pistor chiarisce sin dall’inizio che «la legge è codice: trasforma un asset comune in capitale assegnandogli gli attributi di priorità, durevolezza, universalità e convertibilità. È vero però anche che “il codice è legge” come ha suggerito Lawrence Lessig»[11]. Da qui l’Autrice sviluppa un ragionamento importante sul fatto che la codificazione digitale potrebbe alla lunga sostituire i codificatori tradizionali del diritto. E in questo senso ci sono già diversi esperimenti tra i quali la cosiddetta blockchain che, spiega Pistor, «è un libro mastro inalterabile che contiene la storia completa di tutti i cambiamenti nelle transazioni che avvengono su di essa» mentre gli smart contracts «sono pezzi di codice pensati per funzionare su una blockchain»[12].

Si tratta, però, di forme giuridiche che non hanno ancora trovato un assetto stabile proprio perché anche il codice digitale che si pretende immutabile non è immune al mutamento sociale.

Il tentativo delle imprese digitali chiamate anche Digital Autonomous Organizations di lanciare la prima intermediaria finanziaria di natura interamente digitale chiamata “The Dao” è fallito proprio perché, spiega Pistor, anche «il determinismo codificato funziona in un modo imprevedibile» e «ci mostra bene come si evolvono i codici, che siano legali o digitali»[13].

Anche l’esperimento di creare una moneta digitale chiamata Bitcoin, basata su un codice interamente digitale, è tuttora in corso. Tuttavia, secondo l’Autrice, «perché Bitcoin possa evolversi diventando una moneta alla pari con la valuta corrente, è necessario un salto di ordine di grandezza: qualcuno dovrà volere e potere proteggerne il valore. Senza un meccanismo di protezione, Bitcoin e i suoi fratelli prima o poi sono destinati al crollo»[14].

Katharina Pistor si mostra abbastanza pessimista anche sul fatto che il codice digitale possa riequilibrare interessi confliggenti. L’Autrice, infatti, teme che un’alleanza tra gli interessi del capitale già codificato con quelli del codice digitale finirebbe per accrescere e consolidare la concentrazione della ricchezza in capo a pochi già noti privilegiati.

D’altra parte sull’esito della lotta tra codificazione giuridica e codificazione digitale influiranno le istituzioni tradizionali del diritto quali i tribunali e i parlamenti rafforzando il timore già espresso dall’Autrice di un ulteriore rafforzamento del capitale favorito dallo Stato.

Il trionfo di Trasimaco

Dalla lettura del libro di Katharina Pistor emerge una prospettiva prevalentemente giusprivatistica nella concezione della legge. La Pistor sembra essere, infatti, del tutto disillusa sulla possibilità dell’esistenza di una legge che persegua la giustizia sociale, che aiuti chi è in difficoltà, che organizzi i servizi essenziali, che provveda a una qualche forma di redistribuzione della ricchezza e alla tutela delle risorse. Quella analizzata da Pistor è una legge esclusivamente al servizio del capitale e che il capitale, come già ricordato, non sia qualcosa di materiale, ma consista esclusivamente nella codifica legale: «economisti ed esperti di contabilità non si distaccano dalla nozione che il capitale è un input fisico, uno dei due fattori di produzione, mentre in realtà il capitale non è mai stato una cosa, ma la sua codifica legale; non è mai stato una questione di output e input, ma solo di capacità di catturare e monetizzare le rendite attese»[15].  

Se il capitale consiste nella capacità di catturare e monetizzare rendite, l’Autrice ritiene utile ripescare la concezione marxista secondo cui il capitale è «un concetto relazionale» anche se i marxisti finiscono per porre «l’accento sul rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro, ma sottovalutano lo stesso il ruolo della legge nel processo di creazione della ricchezza»[16].

Insomma, semplificando molto e usando l’accetta, si potrebbe dire che secondo Pistor la storia della codifica del capitale è andata pressappoco così: i più ricchi e i più capaci si sono da sempre organizzati per poter sfruttare al meglio le proprie capacità e consolidare la loro ricchezza; lo hanno fatto con l’aiuto di tecniche giuridiche inventate dai loro avvocati che si sono sempre più andate raffinando fino a rendere scambiabili sul mercato beni materiali come la terra e i beni di consumo e cose immateriali come le rendite attese per il futuro, i flussi di denaro e i frutti delle innovazioni in tutti i campi della conoscenza umana strutturati attraverso il sistema dei brevetti e della loro tutela giuridica.

Queste tecniche di codificazione hanno dovuto cedere per qualche secolo e in diverse circostanze storiche alla legge del più forte intesa come sovranità sulla terra o sulla ricchezza di chi era detentore del potere politico e di quelle istituzioni che avevano il monopolio del potere di coercizione (Max Weber). Nel lungo periodo, però, le tecniche di codificazione utilizzate per strutturare e stabilizzare la ricchezza si sono rivelate più efficaci persino della regolamentazione statale e della sua capacità di produrre norme generali e astratte apparentemente nell’interesse di tutti. Le norme statali, infatti, si sono lasciate piegare senza colpo ferire dai detentori della ricchezza e dai loro abilissimi avvocati che hanno superato qualsiasi ostacolo tecnico riuscendo a trasformare e a far circolare come ricchezza crediti cartolarizzati che apparentemente non potevano materialmente circolare come la terra e i beni immobili, rapporti di credito e di debito legati alle relazioni tra le persone (dalle cambiali fino alle Asset-backed security e i loro derivati) incluso il monopolio sulla conoscenza (brevetti). Il codice legale del capitale, dunque, secondo Katharina Pistor, segue la logica del potere e del privilegio.

Insomma sembra quasi che per la studiosa tedesca l’argomento che Platone nella Repubblica attribuisce al sofista Trasimaco e cioè che la giustizia non è altro che «l’utile del più forte» sia diventato una sorta di a priori logico del suo ragionamento sul diritto. Con la differenza che i più forti non sono più quelli che conquistano il potere politico, ma coloro che detengono il potere economico: i ricchi sono quelli che dettano la legge e consolidano la propria ricchezza attraverso il codice del capitale.

Pistor propone alcuni rimedi, ma alla fine il rimedio principale per un cambiamento di rotta consiste nella riappropriazione della legge da parte della politica che faccia finalmente sentire la sua voce sottraendo privilegi ai signori del capitale.

La sottrazione delle politiche economiche pubbliche alle scelte collettive avvenuta negli ultimi quarant’anni e dovuta in primo luogo alla pervasività del mercato e alla debolezza delle classi politiche ha fatto in modo che il codice del capitale riuscisse ad avere la meglio in tutti i settori generando politiche estrattive di risorse a vantaggio di pochi privilegiati anziché redistributive.

Tali politiche hanno ancora di più rafforzato i signori del capitale aumentando la disuguaglianza e concentrando la ricchezza in poche mani come l’Autrice spiega attraverso le ricerche di Thomas Piketty più volte richiamate nel libro.

Quello che Pistor non spiega, però, è perché la legge sia stata ridotta a mera infrastruttura del capitale e perché il diritto non abbia niente più a che fare con la giustizia.

Qualche accenno in realtà c’è quando, nell’ultimo capitolo, l’Autrice ricorda la teoria di Charles Tilly che pone un parallelismo tra la creazione degli Stati agli albori dell’Europa moderna e il crimine organizzato e quella di Mancur Olson secondo il quale alla base dei sistemi politici ci sono banditi itineranti o stanziali e che quelli stanziali sono meno deleteri perché hanno interesse a non distruggere completamente le risorse del territorio in cui decidono di stabilirsi. Ma da questi brevi riferimenti sembra emergere un giudizio complessivo sul concetto di Stato assolutamente negativo aggravato dalla considerazione che gli stati «hanno avuto un ruolo attivo nella trasformazione del capitale stanziale in capitale itinerante abbattendo le barriere giuridiche ed espandendo l’autonomia dei privati. Hanno permesso loro di scegliere da quale diritto fare governare le loro risorse senza smettere di sfruttare l’applicazione coercitiva della legge, hanno offerto le proprie leggi al capitale estero per operazioni on shore e off shore, hanno stretto accordi di riconoscimento e reciprocità con altri stati»[17]. L’autrice si mostra molto critica con gli stati anche quando, parlando dei brevetti, accusa proprio gli stati di avere permesso l’enclosure della conoscenza senza intervenire direttamente nell’applicazione di criteri e limitazioni a vantaggio della collettività.

Nel complesso quella di Katharina Pistor è una visione prevalentemente negativa del ruolo degli stati e delle loro classi politiche se non altro per la debolezza dimostrata nei confronti dei capitalisti senza scrupoli nell’essersi lasciati piegare dai più ricchi senza opporre la necessaria resistenza. Ma su questo punto non si può fare a meno di ricordare la nota affermazione di Sant’Agostino nel De civitate Dei, secondo cui i regni diventano associazioni di briganti quando viene bandita la giustizia.

Nel pensiero di Katharina Pistor la giustizia è praticamente assente dalla concezione del diritto.

La stessa Autrice, inoltre, afferma che «il diritto pubblico e il diritto privato sono indissolubili, e insieme costituiscono quel sistema che chiamiamo capitalismo. Per vederlo con più chiarezza, analizzeremo ora come il processo di codifica e ricodifica nel diritto privato si ricollega alle sue basi nel diritto pubblico»[18].

Ma Pistor dimentica che il diritto pubblico almeno a partire dalla Rivoluzione francese era stato costruito per assicurare, da un lato, un adeguato bilanciamento e una limitazione dei poteri pubblici e, dall’altro, per assicurare a tutti i cittadini prima i diritti civili, poi quelli politici, poi quelli sociali secondo la vecchia classificazione di Marshall risalente agli anni Cinquanta del secolo scorso.

E sì che allora si partiva da una condizione che era quella del cosiddetto ancien régime in cui il potere politico era assoluto senza alcun limite e senza alcun bilanciamento che non fosse il pericolo rappresentato da una potenza straniera o da un esercito invasore.

Non è un caso che anche allora, nel XVIII secolo, il problema centrale ­– sollevato ad esempio da un classico come Rousseau – fosse l’urgenza di fondare un nuovo diritto politico che riportasse giustizia nella società e che sostituisse la teoria del diritto naturale, fino ad allora al servizio dei potenti e dei loro privilegi, con un diritto positivo certo e valido per tutti.

Occorrerebbe, dunque, fondare un vero e proprio nuovo diritto politico adatto al nostro tempo che possa conciliare le esigenze di un’economia sostenibile con quelle della giustizia sociale e ambientale sulla base di precise scelte collettive che non si possono ulteriormente rinviare.

I guasti di un sistema economico che non si preoccupa delle conseguenze che produce negli altri ambiti di attività dell’uomo era stato già denunciato nel secolo scorso da Karl Polanyi uno degli autori cari a Katharina Pistor e più volte richiamato nel libro. L’economista di origini ungheresi aveva denunciato i danni prodotti da un sistema economico che non tiene conto della molteplicità e della ricchezza delle diverse attività umane trasformando l’intera umanità in una società economica dominata dal mercato. Polanyi nel 1947 denunciava la mentalità di mercato come una obsoleta eredità del passato che non permetteva all’umanità di liberarsi dal dominio dell’economia: «Quello che alla nostra generazione sembra il problema del capitalismo, in realtà è il problema molto più grande di una civiltà industriale. Il fautore del liberismo economico non vede questo fatto. […] Eppure i pericoli che oggi fanno tremare i più coraggiosi trascendono l’economia»[19].

Il problema, dunque, è quello di bilanciare il peso dell’economia e riscoprire i nessi che esistono tra politica, economia e società in modo che il diritto non sia più soltanto lo strumento di cui si serve il capitale, ma torni ad essere un meccanismo di equilibrio e di bilanciamento che impedisca la irreversibilità della scelta tra gli interessi in campo. Per realizzare questo obiettivo sarebbe necessario elaborare una concezione complessiva dell’uomo e della società che sappia lasciarsi finalmente alle spalle quella prodotta dall’economia di mercato.


[1] K. Pistor, Il codice del capitale. Come il diritto crea ricchezza e disuguaglianza, con postfazione di F. Di Ciommo, S. Di Nola e M. Vatiero, LUISS University Press, Roma, 2021 [ed.or. The Code of Capital. How the Law Creates Wealth and Inequality, Princeton University Press, 2019], p. 173.

[2] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 24-25.

[3] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 15.

[4] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 141.

[5] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 159.

[6] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 48.

[7] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., pp. 95-96.

[8] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 100.

[9] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., pp. 131-132.

[10] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 149.

[11] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 187.

[12] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 188.

[13] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 200.

[14] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 204.

[15] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 125.

[16] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 125.

[17] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 223.

[18] K. Pistor, Il codice del capitale, cit., p. 213.

[19] K. Polanyi, L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957, a cura di M. Cangiani, Asterios Editore, Trieste, 2019, p. 247.

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