Noi, forza-lavoro del padrone Gafam. Da Raniero Panzieri alla rete-fabbrica-integrata

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Political and social notes

Cambia e continua a mutare – oggi sembrerebbe addirittura smaterializzarsi – la forma della fabbrica. Ma in realtà (e per avere conferma di questa tesi rileggiamo ora il pensiero analitico di Raniero Panzieri, dopo averlo fatto, nelle settimane scorse con quello di Claudio Napoleoni[1]), se sembra cambiare la forma resta invece immutata la norma di funzionamento della fabbrica, cioè: suddividere/individualizzare per poi totalizzare/integrare/connettere ciascuna parte, uomini compresi, in qualcosa di maggiore della semplice somma delle parti prima suddivise.

Una norma appunto sempre uguale, semmai sempre meglio perfezionata, generalizzata e pervasiva/pervadente – applicata all’operaio pre-fordista e poi all’operaio-massa fordista-taylorista come oggi all’operaio massa (o in forma di folla) individualizzato di quella che chiamiamo rete-fabbrica-integrata-globale. Sempre uguale e figlia dell’industrialismo e del positivismo ottocenteschi (e prima ancora, della rivoluzione scientifica), ma soprattutto della totalizzante razionalità strumentale/calcolante che ci domina dall’inizio della rivoluzione industriale al digitale di oggi. Digitale – così come ciò che il neo-operaismo definisce capitalismo cognitivo (Vercellone) o capitalismo bio-cognitivo (Fumagalli: “un concetto del tutto materiale, che nulla ha di etereo o sganciato dalla realtà dei corpi, ma che si incarna proprio nella messa in produzione delle facoltà di vita, dei corpi e della loro trasformazione in parti meccaniche e/o in processi di mercificazione”[2])che non rappresenta però un cambio di paradigma e neppure un momento di rottura con il sistema precedente (come pensano i neo-operaisti, ma non solo), ma solo la sua ultima fase evolutiva secondo l’essenza (infra) di tecnica e capitalismo. Dove si produce una ulteriore scomposizione tecnica (permessa dalla tecnica) del lavoro (la sua individualizzazione e apparente autonomizzazione) e insieme la sua ricomposizione tecnica (permessa dalla tecnica/mezzo di connessione-integrazione in rete, nei social, nell’Industria 4.0, nell’info-sfera magnificata da Luciano Floridi[3], nell’ibridazione uomo-macchina), cioè appunto nella rete-fabbrica-integrata-globale. Mentre si concentra ulteriormente la composizione tecnica del capitale.

La ‘forma’ della fabbrica e la sua ‘norma’ di organizzazione

Una norma normante/normalizzante a cui dobbiamo solo adattarci al mutare delle esigenze produttive e di profitto del sistema industriale/tecnico[4]. E questo ci impedisce di vedere la continuità nella applicazione della medesima norma industriale e del nostro lavorare comunque in una fabbrica: di cui non siamo proprietari (anche se il management vuole farcela vivere come nostra), ma lavoratori comunque subordinati e dipendenti (anche se il management vuole farci credere di essere collaboratori e non lavoratori). Diventa allora sempre più necessario e urgente imparare a vedere/riconoscere l’essenza dei processi industriali (tecnici & capitalistici) e quindi riconoscere nella rete la nuova catena di montaggio/fabbrica/organizzazione scientifica del lavoro digitalizzato, così come la catena di montaggio era l’evoluzione della fabbrica di spilli di Adam Smith, così come la lean production è l’evoluzione della catena di montaggio di Ford (anche Ford sognava qualcosa di lean, gli mancava però ancora un mezzo di connessione e di comunicazione adeguato)[5].  

Noi uomini/bambini – sempre affascinati/sedotti dal nuovo che ci viene incessantemente offerto da tecnica, economia e politica – crediamo oggi che la fabbrica nella sua forma otto-novecentesca sia morta e che il nuovo che avanza e che non si deve fermare sia fatto di virtuosa e modernissima auto-imprenditorialità e di autonomia e libertà individuale, come ieri di capitalismo molecolare/personale e di piccolo è bello e poi, di nuovo oggi, di start-up, smart-working (in realtà: home-working, forma digitale del vecchio lavoro a domicilio), creatività, lavoro immateriale di conoscenza/autonomo/free-lance/uberizzato-gigizzato e poi ancora di soft skills e di info-sfera, eccetera. In realtà, come sosteniamo da tempo anche su queste ‘pagine’[6] e non solo[7], l’uomo è in realtà sempre più subordinato/integrato/connesso e quindi alienato, ma anche e soprattutto sempre più sussunto/identificato nel e con il sistema.

L’uomo nella società-fabbrica: forza-lavoro & mezzo di produzione

E questo per la semplice ragione – come scriveva Jacques Ellul – che ogni processo tecnico è un meccanismo di integrazione dell’uomo[8]; oppure, richiamando Anders: che “l’ideale dell’apparato è tanto più perfettamente realizzato quante più energie e rendimenti una struttura riunisce in sé e quindi la convergenza dei sistemi (cioè la loro integrazione funzionale) è una rivoluzione permanente e crescente[9]. Ieri era la fabbrica con la catena di montaggio, oggi è la rete-fabbrica, dove l’integrazione si chiama connessione e condivisione e soprattutto smart, ma è sempre integrazione e soprattutto sussunzione dell’uomo in un apparato sotto forma di fabbrica, cioè di organizzazione eteronoma di pluslavoro individuale e/o collettivo, sia esso nell’Industria 4.0, nell’IoT o in un social.

Un sistema dove progressivamente – dalla fabbrica di spilli di Adam Smith alla odierna rete-fabbrica-integrata anche di linguaggi, emozioni e di informazioni – la fabbrica si fa sempre più totale e globale e soprattutto totalitaria: dove tutti sono forza-lavoro ma anche mezzo di produzione, ad esempio di dati/informazioni; e se credono di essere imprenditori, tutti in realtà lavorano per il sistema-fabbrica, anche se in una forma diversa, ma molto più pervasiva di ieri nel suo essere norma(zione) del dover vivere funzionalmente, congruamente con la rete-fabbrica e con una società divenuta fabbrica integrata/integrante. Per cui oggi, e oltre i totalitarismi politici del ‘900, si è realizzato un totalitarismo industriale, che ha appunto nella forma della fabbrica e nell’organizzazione industriale (la norma) della vita intera dell’uomo, la realizzazione piena e appunto totalitaria della razionalità strumentale/calcolante-industriale[10]: che è l’ideologia della modernità. E dove “ciò che non è utile non è vero[11].

Totalitarismo industriale, dunque: dove (e già Marcuse scriveva di un sistema produttivo totalitario[12]; e Anders di totalitarismo degli apparecchi[13]), invece di avere un partito con un’ideologia politica che si fa stato e società, modellizzando/ingegnerizzando l’uno e l’altra ma soprattutto gli individui (singolarizzandoli e controllandoli per integrarli/sussumerli meglio nell’apparato totalitario politico), oggi il processo totalitario è prodotto da tecnica e capitalismo e dalla loro comune ideologia che si fanno stato e società, modellizzando e ingegnerizzando il primo e la seconda e soprattutto l’individuo (nella integrazione funzionale  – come abbiamo scritto – di ordo-liberalismo e di ordo-macchinismo[14]).

E se ieri la forza-lavoro e i mezzi di produzione dovevano essere nello spazio chiuso di una fabbrica fisica, oggi possono essere in gran parte esternalizzati grazie a un mezzo di connessione che non necessita (quasi) più di spazi fisici chiusi, potendo essere organizzati in uno spazio apparentemente aperto e libero, quello virtuale, ma dove l’organizzazione e il controllo si fanno tuttavia ancora più stringenti (e lo spazio torna a farsi quindi vieppiù chiuso); il lavoro è quindi ancora più sfruttato e subordinato anche se fatto percepire come libero e autonomo/creativo-intellettuale; e spalmato per un tempo di lavoro/pluslavoro  estensificato e intensificato alle 24 ore – e diceva Marx: le macchine permettono al capitale di abbandonarsi completamente al suo perenne impulso di prolungare la giornata lavorativa al di là di qualsiasi limite naturale; e oggi la macchina si chiama algoritmo/digitale/capitalismo delle piattaforme, eccetera.

Così, quella che per Lukács, nel 1922 era solo una tendenza del capitalismo verso una “completa assimilazione economica della società nella sua interezza”[15], e quella che poteva dirsi in fase di realizzazione ai tempi di Marcuse (e di Panzieri, come vedremo), oggi è pienamente realizzata – aggiungendo però anche una completa assimilazione/sussunzione della società alla tecnica/fabbrica, nella sua interezza.

Noi, proletariato del Gafam

Nome-mantello – quello di rete come fabbrica-integrata-globale – dentro cui troviamo le sue varie declinazioni/reparti e forme, tutte a loro volta integrate tra loro in quanto parti connesse di una unica e totalitaria forma industriale/mega-macchina: il capitalismo delle piattaforme, l’IA, l’Internet delle cose ma soprattutto l’Internet degli uomini[16], gli algoritmi, la machine learning/deep learning, ma anche le tecniche/pedagogie di problem solving e il learning by doing, il dover essere sempre connessi e il dover condividere, il nuovo taylorismo dell’Industria 4.0[17] (detto digitale, ma l’aggettivo è superfluo), il just-in-time e poi il just-in-sequence nelle filiere e nelle catene del valore (e del lavoro) globali e ora nell’info-sfera (parte anch’essa funzionale/integrata – a differenza di ciò che pensa Floridi – della mega-fabbrica detta tecno-sfera, nell’era del tecno-cene).

Una fabbricaintegrata-globale, il cui logo potrebbe essere Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft). E in cui noi siamo appunto e incessantemente, a mobilitazione totale, la forza-lavoro e il mezzo di produzione. E se per Anders “il nostro ruolo storico nei confronti dello sviluppo della tecnica non si differenzia da quello che è stato il ruolo del proletariato nei confronti della storia della classe dominante”[18], ciò che manca è oggi una coscienza di classe o una consapevolezza di essere proletari – e manca e non si crea perché appunto siamo tutti ingegnerizzati a non crederci proletari/operai (come siamo), bensì imprenditori di noi stessi ma sempre più sussunti nella fabbrica (e ibridati con le macchine della fabbrica ma sempre più con la società-fabbrica): che quindi non percepiamo più come mondo altro e diverso/separato da noi e dalla nostra vita, ma appunto come nostra anche se ne siamo vieppiù  alienati (nel senso di Marx ma non solo[19]).

L’ingegnerizzazione dell’uomo e del sociale

Fabbrica di prodotti-merci, ma soprattutto fabbrica di uomini – e torna di attualità il concetto di ingegnerizzazione dell’uomo e del consenso nato negli anni ’20 del secolo scorso – perché si sia sempre più funzionali per l’organizzazione e per il funzionamento della fabbrica e della società trasformata in fabbrica; fabbrica che quindi, per produrre/ingegnerizzare gli uomini funzionali a sé, ha di nuovo specifici reparti (ovviamente integrati tra loro, oggi anch’essi in just in time e in just in sequence) per la produzione e la venditadi immaginari collettivi, di miti e di riti, di eventi, oggi di social e soprattutto di immagini e di spettacolo: dall’industria culturale di Horkheimer e Adorno a Netflix e YouTube, dalla fabbrica-società dello spettacolo di Debord e di oggi, alla fabbricaindustria della felicità secondo Davies, al capitalismo delle emozioni di Han[20].

Gafam – dunque – che è il padrone (usiamo volutamente questo termine antico ma che esprime perfettamente il nostro rapporto psicologico con il tecno-capitalismo) del nostro lavoro, ma soprattutto della nostra vita trasformata in lavoro-forza-lavoro-mezzo-di-produzione – anche se è un padrone paternalista che ci aiuta poi con le assistenti virtuali e le app e che vuole prendersi cura di noi, non lasciandoci mai soli. Oggi assistiamo dunque all’ultima fase di una lunga rivoluzione industriale che solo arbitrariamente distinguiamo in prima, seconda, oggi quarta già fremendo per la quinta – in realtà cambia solo, nel tempo, il mezzo di connessione utilizzato dalla fabbrica nelle sue diverse fasi, che ne trasforma appunto la forma, ma non la norma di funzionamento, semmai la perfeziona, mettendo a profitto privato non più solo il lavoro fisico, ma la vita intera individuale e sociale. Un processo totalizzante che non nasce oggi perché esso è nell’essenza non solo della tecnica – Heidegger: la tecnica ha una sua essenza o dispositivo che incornicia e integra oggetti e processi (ma anche l’uomo) vedendoli unicamente come riserva permanente di altri oggetti e processi, nella riproduzione/riproducibilità infinita di sé come tecnica/apparato integrato e sempre più integrante[21]ma anche del capitalismo, che altrettanto incornicia e integra soggetti e processi (ma anche l’uomo), nella riproduzione/riproducibilità infinita di sé come capitalismoessenze che insieme formano quello che definiamo tecno-capitalismo.

Dove l’uomo, come scriveva Lukács sempre nel 1922, “viene inserito come una parte meccanizzata [oggi digitalizzata] in un sistema meccanico [oggi digitalizzato/algoritmico], che egli trova bell’e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da lui, secondo leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà”. Perché questa meccanizzazione trasforma gli uomini “in atomi astrattamente isolati, che non si trovano più in una relazione reciproca, organica e immediata, per via delle loro operazioni lavorative: la loro coesione è invece mediata con crescente esclusività dalle leggi astratte del meccanismo nel quale sono inseriti”. Di più (ed è appunto dagli anni ’20 che la psicologia diventa mezzo privilegiato per l’ingegnerizzazione dell’uomo): “il frazionamento moderno, ‘psicologico’ del processo lavorativo, questa meccanizzazione razionale giunge al punto di penetrare all’interno della stessa ‘anima’ del lavoratore: anche le sue proprietà psicologiche vengono separate dalla sua personalità complessiva per poter essere inserite in sistemi specialistico-razionali e ricondotte a un concetto calcolistico[22].

Raniero Panzieri e l’uso capitalistico della tecnica

Uno dei pochi, nella sinistra italiana, che aveva ben compreso tutto questo è stato Raniero Panzieri (1921-1964), che qui rileggiamo e attualizziamo usando due suoi testi analitici: Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, pubblicato sul primo numero (1961) di ‘Quaderni rossi’; e Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, uscito sul quarto numero (1964) della rivista; in più sfoglieremo la raccolta di scritti scelti Spontaneità e organizzazione (del 1994 e curata da Stefano Merli) e in particolare Lotte operaie nello sviluppo capitalistico (trascrizione dell’intervento di presentazione a Siena del primo numero di ‘Quaderni rossi’)[23].

Figura complessa, quella di Panzieri, intellettuale e politico e per noi molto francofortese[24]. Soprattutto, spirito critico e problematico, a sinistra della sinistra, quindi amato/non amato. Rinviando il lettore alle esistenti biografie di Panzieri, all’operaismo e al post-operaismo e alla rottura  di Panzieri con Tronti, qui riprendiamo solo le sue riflessioni sulla tecnica e sul neocapitalismo di allora, ponendoci subito una domanda in realtà non nuova (pensiamo a tutto il post-operaismo): se la fabbrica, che Panzieri analizzava anche con i metodi della sociologia e dell’inchiesta/conricerca era per lui il luogo privilegiato della lotta di classe, nella fabbrica cercando una nuova soggettività antagonistica, oggi è possibile rifarci a Panzieri anche per la rete-fabbrica-(fordista)-integrata-globale? La nostra risposta è: no, in termini di ricerca di una soggettività antagonistica collettiva e dotata di una propria coscienza di classe (che noi preferiamo tradurre con: consapevolezza di una comune condizione di sussunzione-assoggettamento) proprio perché il tecno-capitalismo ha ormai (quasi) totalmente realizzato la sussunzione/integrazione/mimesi (Marcuse) dell’uomo in sé e per sé come apparato; , invece, in termini di analisi della rete-fabbrica-integrata, Panzieri attualissimo ancora oggi appunto per provare almeno a generare un po’ di quella presa di consapevolezza di una condizione umana ormai sussunta-ibridata (e l’ibridazione uomo-macchina, oggi così di moda e progressista per la neolingua tecno-capitalista è solo la vecchia sussunzione con altro nome), con l’uso capitalistico delle macchine. Ed è quello che appunto faremo nelle righe a seguire, per provare a ribadire, con Panzieri, la nostra tesi per cui il nuovo apparente di oggi è solo (parafrasando von Clausewitz) la prosecuzione della legge ferrea del tecno-capitalismo e della razionalità strumentale/calcolante industriale, con altre forme e con altri mezzi (di connessione).

Dunque, scriveva Panzieri sull’uso capitalistico delle macchine[25], citando Marx e il Capitale[26]: “Il processo produttivo capitalistico si sviluppa nei suoi vari stadi storici come processo di sviluppo della divisione del lavoro e il luogo fondamentale di questo processo è la fabbrica”. E se la manifattura (secondo Marx)aveva ancora una base tecnica ristretta che “entra in contraddizione ‘coi bisogni di produzione da essa stessa creati’, l’introduzione delle macchine su vasta scala segna il passaggio dalla manifattura alla grande industria” [che dagli anni ’60 ad oggi diventa anch’essa grande in altro modo e forma, esternalizzandosi ma incorporando/sussumendo nella propria organizzazione tutto ciò che viene esternalizzato/autonomizzato, uomini e imprese]. “La tecnologia [in realtà preferiremmo usare il termine di tecnica, le tecnologie essendo le parti del sistema tecnico] incorporata nel sistema capitalistico ‘consolida sistematicamente la divisione del lavoro quale mezzo di sfruttamento della forza-lavoro (…) ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dall’insieme della fabbrica, quindi dal capitalista’. Lo stesso progresso tecnologico si presenta quindi come modo di esistenza del capitale, come suo sviluppo [oggi arrivando appunto a digitale/IA/Industria 4.0/capitalismo delle piattaforme] e nel moderno sistema di fabbrica ‘l’automa stesso è il soggetto e gli operai sono coordinati ai suoi organi incoscienti solo quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati a quella forza motrice centrale’. Si può dunque stabilire” – continuava Panzieri sempre citando Marx – “1) che l’uso capitalistico delle macchine (…) determina lo sviluppo tecnologico; 2) che ‘la scienza, le immani forze naturali e il lavoro sociale di massa… sono incarnati nel sistema delle macchine e…con esso costituiscono il potere del padrone’. Per cui lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione di forme sempre più raffinate di integrazione ecc., un aumento crescente del controllo capitalistico (…) nel progressivo espandersi della pianificazione dalla fabbrica al mercato, all’area sociale esterna” (infra). 

E il sindacato? E la sinistra (di allora e di oggi)? La sostanza dei processi di integrazione nell’impresa, criticava Panzieri, viene accettata “riconoscendo in essi una intrinseca necessità [pensiamo, in tempi recenti, alla accettazione della flessibilità, in nome della nuova razionalizzazione chiamata lean production], che scaturirebbe fatalmente dal carattere della produzione moderna” a flusso continuo e dove quindi l’integrazione della/nella fabbrica (appunto: la fabbrica-integrata) presuppone/impone l’integrazione dei lavoratori, che però doveva [esattamente come oggi, a questo serve il management delle risorse umane] essere ottenuta volontariamente. Al più, “viene richiamata l’esigenza di correggere possibili distorsioni e la stessa organizzazione funzionale della produzione viene vista soltanto nella sua forma tecnologicamente sublimata, addirittura come un salto della precedente organizzazione gerarchica. Non si sospetta neppure che il capitalismo possa servirsi delle nuove basi tecniche offerte dal passaggio dagli stadi precedenti a quello di meccanizzazione spinta (e all’automazione) per perpetuare e consolidare la struttura autoritaria dell’organizzazione della fabbrica”.

Sindacato e sinistra – positiviste per natura – vedono cioè la tecnica come neutra e positiva a prescindere, sognando e credendo che le macchine possano liberare l’uomo dalla fatica e dalla ripetitività e dall’alienazione[27]. Lo si è visto (replicandosi di nuovo la credenza di allora, una credenza che ha la sua base nel surreale Frammento sulle macchine di Marx e nell’idea di un miracoloso general intellect), a partire dagli anni ’90 e dalla credenza che le nuove tecnologie avrebbero liberato l’uomo dalla fatica, dal lavoro, donandogli più tempo libero per le cose belle della vita, in realtà realizzandosi nuovamente esattamente il contrario. Perché – è nella loro essenza (supra) – “la tecnica, come il capitalismo sempre accresceranno lo sfruttamento del tempo e del lavoro e delle risorse, quindi della natura e dell’uomo, perché la loro razionalità solo strumentale/calcolante-industriale non tollera tempi morti e pause di riflessione; sempre produrranno l’accelerazione dei ritmi e dei tempi ciclo grazie all’automatizzazione non solo delle macchine ma della vita e del pensiero; sempre ricercheranno soprattutto l’integrazione/sussunzione crescente degli uomini nell’apparato, muovendosi tendenzialmente verso un post-umano inteso qui come quella realtà che prescinde dall’umano; sempre produrranno l’alienazione degli uomini da se stessi, dal loro lavoro e dalla consapevolezza della valutazione e della decisione e soprattutto dalla responsabilità per gli effetti delle azioni compiute”[28].

Macchine e organizzazione della fabbrica

Come scriveva Panzieri (e siamo sempre nel 1961, ma anche nell’oggi, sessant’anni dopo – e basta leggere un manuale di organizzazione/management delle risorse umane per vederlo), “la concreta realtà storica nella quale il movimento operaio si trova a vivere e a combattere e l’odierno uso capitalistico delle macchine e dell’organizzazione vengono completamente ignorati a vantaggio di una rappresentazione tecnologico-idilliaca”. E quindi si tende “a riconoscere la scomparsa della parcellizzazione delle funzioni e lo stabilirsi di nuove mansioni a carattere unitario, che sarebbero qualificate da responsabilità, capacità di decisione, molteplicità di preparazione tecnica. Lo sviluppo delle tecniche e delle funzioni connesse al management viene [così] isolato dal concreto contesto sociale in cui si produce, cioè dal crescente accentramento del potere capitalistico e perciò considerato come il supporto di nuove categorie di lavoratori (i tecnici, gli intellettuali della produzione)”. Dimenticando che “la convalida piena dei processi di razionalizzazione (considerati come insieme delle tecniche produttive elaborate dal capitalismo” – continuava Panzieri – “è precisamente il ‘dispotismo’ capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica. Nell’uso capitalistico, non solo le macchine, ma anche i metodi, le tecniche organizzative, ecc. sono incorporati nel capitale, si contrappongono agli operai come capitale: come razionalità estranea”.

E conseguentemente, “tutte le contraddizioni che insorgono nell’azienda capitalistica odierna possono trovare soluzioni via via più avanzate [cioè apparentemente nuove] senza toccare la sostanza dell’alienazione [rinviamo ancora a La grande alienazione, 2018], garantendo anzi il mantenimento dell’equilibrio del sistema. In effetti, le ideologie sociologiche e organizzative del capitalismo contemporaneo presentano varie fasi, dal taylorismo al fordismo fino allo sviluppo delle tecniche integrative, human engineering, relazioni umane, regolazione delle comunicazioni, ecc., appunto nel tentativo, sempre più complesso e raffinato, di adeguare la pianificazione del lavoro vivo agli stadi via via raggiunti (…) dalle esigenze di programmazione produttiva”. Anche “scaricando sull’operaio – sempre nel segno delle ideologie della partecipazione tecnica – poteri di decisione tecnica, perché questo rende più funzionale la fabbrica – importante è che l’operaio non abbia mai la possibilità di decidere organizzativamente, cioè di decidere sul capitale”[29].

Ma se questo è vero (era vero ieri, è ancora più vero oggi), come resistere a questa sussunzione/alienazione incessante, a questo human/social engineering tecno-capitalistico? La lotta di classe, scriveva Panzieri, richiede una premessa proprio riguardo alle macchine, cioè alla tecnica: “La lotta operaia si presenta perciò come necessità di contrapposizione globale al piano capitalistico, dove [però] fattore fondamentale è la consapevolezza, diciamo pure dialettica, dell’unità dei due momenti tecnico e dispotico nell’organizzazione produttiva. Rispetto alla razionalità tecnologica, il rapporto ad essa dell’azione rivoluzionaria è di comprenderla, ma non per riconoscerla ed esaltarla, bensì per sottometterla a un nuovo uso: all’uso socialista delle macchine”. Certo, Panzieri riconosceva, ragionando di lavoro nella allora Germania comunista, che anche nella ‘impresa proprietà del popolo’ si producono conflitti e contraddizioni fra gli operai e l’organizzazione, ma sono di tipo diverso da quelli del sistema capitalistico[30]; e che il dispotismo della fabbrica e dell’organizzazione possono assumere aspetti altrettanto crudi di quelli capitalistici. D’altra parte, la storia ci ha confermato – con già Lenin più taylorista di Taylor[31] e oggi con una Cina iper-tecno-capitalista – che un diverso uso della tecnologia presupporrebbe in primo luogo (ammesso sia possibile, questa razionalità essendo infatti l’essenza anche della tecnica in sé) – l’uscita dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale che tuttavia ha dominato (e continua a dominare) anche il pensiero socialista (e quello che ne resta).

Capire il (tecno)capitalismo

Ciò che è comunque importante sottolineare, nel pensiero di Panzieri è l’invito ad acquisire– la classe operaia, il sindacato, la sinistra – appunto la consapevolezza dei modi con cui, per la propria essenza, procede la razionalità capitalistica. Per questo, scriveva Panzieri, ogni lotta operaia deve tendere a proporre la rottura politica del sistema, mettendo in discussione i fondamenti della fabbrica – e oggi, aggiungiamo, anche se abbiamo dubbi che ciò sia davvero possibile – della fabbrica-integrata-globale. Senza lasciarsi sedurre, ogni volta e di nuovo, dal feticismo della e per la tecnica, oggi arrivato a livelli di autentica dipendenza (una forma diversa di sussunzione/ibridazione). E quindi non basta chiedere aumenti salariali  “che di per sé non garantiscono in nessun modo la rottura del sistema”: “solamente investendo le radici dei processi di alienazione, individuando la crescente dipendenza politica dal capitale è possibile [invece] configurare un’azione di classe veramente generale”, non limitandosi a intervenire solo a posteriori e mai a priori delle scelte padronali (in questo senso, la contrattazione d’anticipo che cerca oggi di praticare il sindacato  rispetto a innovazioni tecnologiche e organizzative, è decisamente un passo avanti). Anche perché – Panzieri – dato “l’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà) perché (…) i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive [oggi anche dentro agli uomini, ibridati o meno che essi siano con le macchine], sono state plasmate dal capitale. Una regolazione sociale del processo lavorativo si deve quindi presentare come contrapposta alla pianificazione capitalistica”.

Una uscita dal tecno-capitalismo quindi, se non è più immaginabile come effetto di una azione di classe  potrebbe esserlo oggi (in altro modo contrapponendoci globalmente al piano capitalistico), in termini di sostenibilità ambientale e di sopravvivenza dell’umano e del naturale, per la evidente (ma quanto è evidente?) contraddizione sistemica della tecno-sfera (soprattutto con l’uso capitalistico delle macchine) con la bio-sfera[32]. E qui viene in aiuto un altro elemento da recuperare dall’analisi di Panzieri: “L’errore che tutti quanti facciamo ancora molto spesso è di vedere, di accettare noi stessi il capitale per come esso tende a presentarsi, cioè come un sistema atomizzato di situazioni. Ma se non si vede il livello del capitale nel suo insieme non si può cogliere neanche la realtà delle singole situazioni”[33]. E invece “bisogna andare a vedere come è fatto il capitale”, per decidere poi come agire contro di esso (e contro l’uso capitalistico delle macchine): senza questa consapevolezza/coscienza ogni lotta sarà non solo inutile ma soprattutto la classe (ma noi aggiungiamo: il cittadino, la persona) verrà sempre più sussunta nel capitale e nell’apparato di macchine (“intendo la parola macchina non in senso empirico: le macchine sono  gli impianti, ma sono anche le tecniche, sono anche l’organizzazione del lavoro”[34]) – come appunto verifichiamo oggi. E per impedire di farsi vedere come insieme, e per procedere quindi nella crescente sussunzione dell’uomo nella fabbrica (oggi integrata-globale-diffusa) il capitalismo “atomizza gli uomini” e “impedisce il riconoscimento dell’altro come parte dello stesso capitale, dello stesso ciclo produttivo”[35].

La pianificazione capitalistica

Ma entriamo ora nel secondo punto di riflessione su e con Panzieri, quello della pianificazione capitalistica del mondo (al cui confronto la pianificazione socialista o quella italiana degli anni ’60 sembrano brezze leggere, tanto è potente la sua capacità pervasiva ed emozionale, il suo saper produrre una specifica e funzionale antropologia/ontologia/teleologia/teologia). Una pianificazione (il capitalismo non è infatti anarchico o catallattico, bensì pianificatore/standardizzatore per essenza, dentro e fuori dalla fabbrica – pensiamo oggi agli algoritmi predittivi), che in senso foucaultiano potremmo definire biopolitico[36]; o con Anders scrivere di forme tecniche che si fanno forme sociali[37]; o con Weber parlare del capitalismo come di una sempre più stretta e stringente gabbia d’acciaio; o rifarci ancora alla Scuola di Francoforte e alla sua definizione di società amministrata (supra). Scriveva Panzieri: “(…) ai processi di integrazione della classe operaia, di razionalizzazione del lavoro all’interno dell’azienda, al livello del processo lavorativo, corrisponde una sempre più ampia pianificazione per quello che riguarda la sfera dello scambio, della distribuzione e del consumo. (…) Perché come il capitale ha bisogno di garantirsi sempre di più dall’insubordinazione operaia, così sempre di più nella sfera del consumo ha bisogno di garantirsi una possibilità produttiva a periodo sempre più lungo”[38]. Di più: “la fabbrica si generalizza, tende a pervadere e a permeare tutta la società civile”; si tratta allora (per la sinistra, il sindacato, di allora e ancora di più oggi), “di afferrare il fatto che la fabbrica scompare come momento specifico. Lo stesso tipo di processo che domina la fabbrica, caratteristico del momento produttivo, tende a imporsi a tutta la società e quindi quelli che sono i tratti caratteristici della fabbrica (…) tendono a pervadere tutti i livelli della società”[39]. Cioè il capitalismo cerca in ogni modo di “estendere la sua razionalizzazione oltre i limiti della fabbrica, per ritornare poi a questa”[40].

Un processo, come visto all’inizio, che si potenzia oggi via rete e via neo-liberalismo, con i quali si perfeziona appunto la pianificazione capitalistica dell’intera società, sempre applicando i tre elementi classici del (tecno)capitalismo: direzione, sorveglianza e coordinamento – e che oggi possono essere svolti anche da una macchina/algoritmo/IA. Perché appunto la tendenza del (tecno)capitalismo “è quella dell’integrazione e della pianificazione”[41]. Che ovviamente confliggono con la libertà dell’uomo.

Una fabbrica dove tuttavia – e concludiamo distanziandoci parzialmente da Panzieri – non vi è solo un uso capitalistico delle macchine (cioè della tecnica), ma anche un uso tecnico (da parte dell’apparato tecnico) del capitalismo (del capitale), per sostenere il proprio accrescimento come sistema tecnico. Insieme si sublimano appunto nella forma della fabbrica tecno-capitalista. Dove siamo tutti e sempre più forza-lavoro alienata e mezzo di produzione (di dati e informazioni e non solo). Sempre secondo la norma/comando/dispositivo/dispotismo della fabbrica-integrata-globale: che appunto si chiama rete, ma che è la vecchia fabbrica fordista o di spilli in altra forma.

*Lelio Demichelis insegna Sociologia economica presso il Dipartimento di economia dell’Università degli Studi dell’Insubria. Il suo ultimo saggio è La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, 2018. Per Jaca Book dirige la Collana Dissidenze.


[1] L. Demichelis, https://www.economiaepolitica.it/l-analisi/claudio-napoleoni-attualita-capitalismo-tecnica-ecologia-ricostruire-la-sinistra-scomparsa/

[2] A. Fumagalli, Operaismo, post-operaismo? Meglio neo-operaismo –http://effimera.org/operaismo-post-operaismo-meglio-neo-operaismo-andrea-fumagalli/

[3] L. Floridi (2020), Pensare l’infosfera, Cortina, Milano

[4] Norma che distinguiamo, con Foucault, da legge: la prima, fortemente normativa/normalizzante e personalizzata; la seconda, generale e astratta

[5] L. Demichelis (2008), Bio-Tecnica. La società nella sua forma tecnica, Liguori, Napoli

[6] L. Demichelis: Post-democrazia e fabbrica tecno-capitalista, https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/tecnocapitalismo-lelio-demichelis/; Id.,  Ordo-liberalismo e ordo-macchinismo: l’eclissi della democrazia e della giustizia sociale, https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-18-sem-2/ordo-liberalismo-e-ordo-macchinismo-leclissi-della-democrazia-e-della-giustizia-sociale/  

[7] L. Demichelis (2018), La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano; Id. (2015), La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica, Mimesis, Milano

[8] J. Ellul (2009), Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano, pag. 214

[9] G. Anders (2003), L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino, pag.98 e 99

[10] Rinviamo in particolare a: M. Horkheimer (2000), Eclisse della ragione, Einaudi, Torino; Id. (1979), La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, Einaudi, Torino; Id. (2015), Crisi della ragione e trasformazione dello stato, PGreco, Milano. Più in generale, alla Teoria critica francofortese.

[11] G. Anders (2003), cit., pag. 175

[12] H. Marcuse (2004), L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, pag. 9

[13] G. Anders (2003), cit., pag. 98

[14] L. Demichelis, Ordo-liberalismo e ordo-macchinismo: l’eclissi della democrazia e della giustizia sociale, https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-18-sem-2/ordo-liberalismo-e-ordo-macchinismo-leclissi-della-democrazia-e-della-giustizia-sociale/ 

[15] G. Lukács (1978), Storia e coscienza di classe, SugarcoEdizioni, Milano, pag. 81

[16] L. Demichelis (2018), La grande alienazione, cit., pag. 127 e segg.

[17] M. Gaddi (2019), Industria 4.0. Più liberi o più sfruttati?, Punto Rosso, Milano; Id., Industria 4.0 e lavoro operaio https://www.officinaprimomaggio.eu/industria-4-0-fine-del-lavoro-operaio/

[18] G. Anders (2003), cit., pag. 268

[19] Cfr., L. Demichelis (2018), La grande alienazione, cit.

[20] M. Horkheimer – F. T. Adorno (2010), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino; G. Debord (2004), La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano; W. Davies (2016), L’industria della felicità, Einaudi, Torino; B-C. Han (2016), Psicopolitica, Nottetempo, Roma

[21] Cfr., M. Heidegger (1985), Saggi e discorsi, Mursia, Milano, pag. 5 e segg.

[22] G. Lukács, cit., pag. 114

[23] R. Panzieri (2020), Il lavoro e le macchine. Critica dell’uso capitalistico della tecnologia, Ombre Corte, Verona, molto ben introdotto e curato da Andrea Cengia; Id., (1994) (a cura di Stefano Merli), Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei ‘Quaderni rossi, 1959-1964, BFS, Pisa (dove pure sono contenuti – come nel volume curato da Cengia – Plusvalore e pianificazione e Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo)

[24] Sui rapporti tra Panzieri e pensiero francofortese (con Adorno e Pollock in particolare), si veda: M.G. Meriggi (1975), Raniero Panzieri e il ‘francofortismo’: il movimento operaio dall’apologia del piano ‘socialista’ all’analisi di classe, in aut aut nr. 149/150, del 1975, pag. 103 e segg.; nello stesso numero di aut aut, si veda anche M. Cacciari, Note intorno a ‘Sull’uso capitalistico delle macchine’ di Raniero Panzieri, pag. 183 e segg.

[25] R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in R. Panzieri (2020) (a cura di A. Cengia), Il lavoro e le macchine, cit. pag. 82 e segg.

[26] N.B. In parentesi quadra, nelle citazioni, abbiamo inserito le nostre annotazioni per un aggiornamento a oggi del pensiero di Panzieri

[27] L. Demichelis (2018), La grande alienazione, cit.

[28] L. Demichelis (2020), Sociologia della tecnica e del capitalismo. L’ingegnerizzazione dell’uomo (Nuova edizione aggiornata), FrancoAngeli, Milano (in uscita a fine agosto 2020), pag. 9

[29] R. Panzieri (1962), Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in R. Panzieri (1994), Spontaneità e organizzazione, cit., pag. 81

[30] R. Panzieri (1959), La classe operaia nella Germania comunista, in R. Panzieri (1994), Spontaneità e organizzazione, cit., pag. 15

[31] Cfr., B. Settis (2016), Fordismi. Storia politica della produzione di massa, il Mulino, Bologna

[32] Si rileggano le riflessioni di un grande ambientalista come Giorgio Nebbia, scomparso nel 2019, ora in: G. Nebbia (2020), La Terra brucia. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano

[33] R. Panzieri (1962), Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pag. 73

[34] Ivi, pag. 80

[35] Ibid

[36] M. Foucault (2005), Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano; e soprattutto: Id. (2005), Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano

[37] G. Anders, cit., pag. 99

[38] R. Panzieri (1962), Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pag. 83. Ricordiamo che pochi anni prima (1957) era uscito in America Persuasori occulti, di Vance Packard, dettagliatissima e impietosa analisi di tutte le tecniche di manipolazione/ingegnerizzazione dell’opinione pubblica, nel marketing come in politica.

[39] Ivi, pag. 84

[40] R. Panzieri (1963), Spontaneità e organizzazione, in R. Panzieri (1994), Spontaneità e organizzazione, cit. pag. 113

[41] R. Panzieri (1962), Centro-sinistra e integrazione della forza-lavoro, in R. Panzieri (1994), Spontaneità e organizzazione, cit. pag. 97

Lavoro immateriale di conoscenza/autonomo/free-lance/uberizzato-gigizzato

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lavoro immateriale

Cambia e continua a mutare – oggi sembrerebbe addirittura smaterializzarsi – la forma della fabbrica. Ma in realtà (e per avere conferma di questa tesi rileggiamo ora il pensiero analitico di Raniero Panzieri dopo averlo fatto, nelle settimane scorse con quello di Claudio Napoleoni)

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