Eccesso di capacità e stagnazione secolare. Un nuovo framework per l’analisi

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This paper aims to provide a first conceptual framework within which to explain the phenomenon of secular stagnation, highlighting the tendency towards a “chronic excess capacity” rather than referring, as in the mainstream analysis on the topic, to a “non-temporary excess of savings on the volume of private investments”. Our approach allows us to focus the role of mutual interactions between financial institutions and the real economy, as well as the power relations between the different economic actors.

Il dibattito sulla ‘stagnazione secolare’, animato da economisti di scuole diverse all’indomani della Grande Crisi, sembra oggi offuscato dalle enfatiche analisi delle principali istituzioni internazionali[1] secondo le quali nel 2017 l’economia globale, per la prima volta in un decennio, sta operando in prossimità del suo potenziale (ossia vicino alla sua capacità produttiva massima). L’enfasi in questione sembra già smentita dai dati più recenti[2] e chi scrive ritiene che il tema debba essere collocato dentro un framework molto diverso da quelli fin qui utilizzati. Come noto, il dibattito sulla ‘stagnazione secolare’ ha preso le mosse nel 2013 per merito di Larry Summers il quale, riprendendo una tesi avanzata da Alvin Hansen nel 1939, ha sostenuto che le economie moderne sono destinate a una ‘nuova normalità’ fatta di bassa crescita e di una quota non eliminabile di disoccupazione. Pur nella diversità delle scuole di provenienza, molti economisti hanno ricondotto la lunga fase di debolezza dell’economia all’esistenza di un eccesso non temporaneo di risparmio sul volume degli investimenti privati (vedi ad esempio Bernanke 2005,, Koo 2011, Summers 2013, Krugman 2013) [3]. Comunque, nelle analisi riconducibili a questa impostazione, i reciproci feedback tra istituzioni finanziarie ed economia reale e le relazioni di potere tra i vari soggetti economici non trovano quasi mai rilievo adeguato (sul punto si veda ad esempio Hein 2016). In realtà, proprio il cambiamento di questi aspetti ha caratterizzato l’ascesa del capitalismo finanziario nelle ultime due/tre decadi e ne condiziona pesantemente le sue prospettive di evoluzione.

Diversamente, il framework proposto in questo lavoro pone al centro dell’analisi della stagnazione secolare il problema della cronicizzazione degli eccessi di capacità produttiva, fenomeno diventato sempre più rilevante nella realtà delle economie avanzate del XXI secolo[4]. Questa scelta consentirà, come vedremo, di mettere a fuoco il ruolo delle mutue interazioni tra lato monetario e lato reale dell’economia, come anche dei rapporti di forza tra Banca Centrale, sistema bancario, imprese e lavoratori, nella definizione del risultato sistemico finale. L’auspicio è che il presente paper, pur con tutti i suoi limiti, possa rappresentare uno stimolo per ravvivare su basi nuove il dibattito sulla stagnazione secolare. Il framework proposto è solo in parte formale e cerca di fondare la maggior parte delle proprie assunzioni su una serie di evidenze empiriche disponibili. Esso è propedeutico alla futura costruzione di modelli più strutturati per la valutazione di politiche pubbliche.

Il framework

a) Il modello di produzione delle imprese

Assumiamo di essere in un’economia chiusa dove un certo numero di imprese produce un bene omogeneo con lavoro e capitale. Le decisioni di produzione sono assunte sulla base di segnali di domanda (es. ordini di acquisto dei clienti, aspettative di vendita) con il fine di massimizzare il profitto. Sia il lavoratore l’unità di misura del lavoro. Assumiamo che l’impiego di lavoratori vari proporzionalmente con il livello di produzione. Assumiamo anche che il capitale disponibile sia costituito da unità (macchine) omogenee dal punto di vista fisico. Ciascuna unità è indivisibile economicamente – ossia è impossibile che un’impresa acquisisca meno di un’unità di capitale alla volta – ma è tecnicamente divisibile – ossia l’utilizzazione dell’unità acquisita avviene a ‘moduli’ attivabili su richiesta nella produzione[5]. Ipotizziamo, per semplicità, che ciascun modulo rappresenti la frazione minima dell’unità di capitale che deve essere attivata per produrre un’unità di bene. Quindi, se la domanda fosse inferiore alla capacità produttiva totale, ossia alla produzione che sarebbe ottenuta se tutti i moduli di tutte le unità fossero pienamente attivati, parte del capitale/capacità complessivo(a) resterebbe inutilizzato(a), come anche parte dei lavoratori potenzialmente disponibili non verrebbe impiegata. In questo contesto, il flusso di beni effettivamente prodotto è sempre uguale alla quantità richiesta così da evitare sprechi e scorte indesiderate di beni (vedi nota 5).

b) Il criterio di determinazione del prezzo

Assumiamo che nell’economia sia decisamente prevalente una forma di mercato di tipo oligopolistico. Si può assumere poi che le imprese leader seguano la seguente regola di determinazione del prezzo:

dove p è il prezzo del bene;

 è il livello di produzione dell’impresa corrispondente al grado di utilizzazione ‘normale’ della propria capacità produttiva massima[6];

σ  è il rental cost annuo di un’unità di capitale, definito per contratto dalle banche[7];

k sono le unità di capitale acquisite dall’impresa mediante il ricorso al credito;

w il salario di un lavoratore stabilito per contatto;

πl la produttività del singolo lavoratore data dalla tecnologia e dalla durata della giornata lavorativa;

sm il saggio del profitto minimo che l’impresa accetta di guadagnare per portare avanti l’attività.

Notiamo che la (1), in cuirappresenta i costi fissi per unità di prodotto mentre w/πl il costo unitario del lavoro (per semplicità l’unico costo variabile), richiama la versione del ‘costo pieno’ di Hall e Hitch (1939), rivisitata da Sylos Labini in Oligopolio e Progresso Tecnico (1961). Come sottolinea lo stesso Sylos, questa espressione è analoga al principio per cui i prezzi sono fissati in base a un mark up sui costi marginali ma è più precisa, in quanto è in grado di tenere conto dell’effettivo grado di utilizzazione della capacità produttiva (vedi Sylos Labini 1961, p. 93).[8]

c) Eccesso di capacità e sunk cost

Partendo per comodità da una situazione di equilibrio non inflazionistico dell’economia

[9], assumiamo che a un certo punto si determini un’imprevista e generalizzata caduta della domanda totale che aumenta il grado di inutilizzazione degli impianti (unità di capitale) di tutte le imprese, spinge la loro produzione al di sotto del livello ‘normale’[10] e accresce la disoccupazione (involontaria). In questo caso, il costo fisso per unità di prodotto aumenta e, dato (per ora) il prezzo e il salario monetario, il saggio del profitto effettivo del sistema scende al di sotto del livello minimo (vedi nota 8). La differenza tra i due rappresenta di fatto un sunk cost che emerge ex post (ossia alla fine del processo produttivo) in seguito a un evento contingente: l’imprevista mancata valorizzazione di ciascuna unità di capitale acquisita dalle imprese a fronte dell’impegno contrattuale intertemporale assunto ex ante con le banche (vedi nota 7)[11]. Tale costo, che equivale concettualmente al costo (di un’unità) del capitale inutilizzato, comporta una riduzione dei fondi interni delle imprese determinata dalla necessità di onorare i debiti precedentemente contratti col sistema bancario.

d) La dinamica di prezzi e salari

Cosa succede se le imprese provano a ridurre il prezzo per aumentare la domanda di beni e ridurre il grado di inutilizzazione della capacità/capitale? Per rispondere all’interrogativo faremo riferimento a un argomento congetturale implicito nella teoria della ‘domanda spezzata’ proposta da Hall e Hitch (1939) e Sweezy (1939), e ripreso più recentemente da una serie di autori (vedi tra gli altri Maskin e Tirole (1988)), i quali hanno formulato un’interazione oligopolistica attraverso un gioco dinamico. Un’impresa leader si aspetta che se provasse a ridurre il prezzo allo scopo di aumentare la sua domanda di beni a scapito dei concorrenti, questi ultimi la seguirebbero rendendone vano il proposito. Tale aspettativa spingerebbe la stessa impresa leader, ragionevolmente, a desistere dall’intraprendere la decisione di abbassare il prezzo. Disponiamo ormai di diverse evidenze empiriche che mostrano come nelle economie avanzate, ormai da tempo, gli aggiustamenti della maggior parte dei prezzi siano diventati sempre meno frequenti e i contratti a prezzi fissi comuni (vedi ad esempio Blinder et al 1998). Inoltre la diffusione e la pervasività dell’uso di Internet consente oggi ai venditori di monitorare velocemente e di reagire in tempo reale a eventuali riduzioni di prezzo dei competitori, concorrendo spesso a creare un ambiente in cui le imprese praticano la collusione tacita (si veda ad esempio Arbatskaya e Baye 2004). Osserviamo poi che, così come riformulata recentemente, la teoria della domanda spezzata delinea un tipo di comportamento collusivo in mercati non perfettamente concorrenziali ma non implica necessariamente prezzi fissi. Questi ultimi infatti potrebbero cambiare se, ad esempio, ci fosse una generalizzata riduzione dei salari monetari al di sotto dei livelli precedentemente stabiliti dai contratti. In questo caso il costo unitario del lavoro scenderebbe e le imprese, a fronte di un’azione di riduzione del prezzo da parte dell’impresa leader, sarebbero spinte ad accettare un prezzo di equilibrio più basso. Se facciamo riferimento all’equazione (1), comunque, è facile mostrare (è sufficiente calcolare la derivata del salario reale  w/p rispetto a w) che una generalizzata riduzione dei salari monetari determinerebbe una riduzione meno che proporzionale del livello dei prezzi, riducendo i salari reali di tutti i lavoratori, la spesa per consumi delle famiglie e la domanda totale. In questo modo l’eccesso di capacità complessivo non farebbe che aumentare aggravando pesantemente lo squilibrio iniziale[12]. Generalizzate riduzioni dei salari reali sono avvenute in modo evidente a partire dalla fine degli anni ‘90, in associazione a radicali processi di ristrutturazione organizzativa indotti dalla diffusione delle ICT nell’economia. In una prospettiva macroeconomica è lecito pensare che proprio queste azioni abbiano costituito le premesse dei radicali processi di redistribuzione del reddito e della ricchezza all’interno delle economie avanzate (vedi Piketty 2013, Gallino 2012, Franzini e Pianta 2015) e dello scoppio della Grande Crisi. E’ però probabile che, a un certo punto, la tendenza di salari monetari e prezzi a cadere venga arrestata dalle imprese allo scopo di evitare l’avvitamento completo dell’economia. Questo spiega perché nella realtà delle economie moderne, nonostante il fenomeno della disinflazione sia evidente, quello della deflazione è molto contenuto e si riscontra solo in rarissimi casi, pur in presenza di eccessi di capacità che perdurano da prima del 2000. Negli Stati Uniti, ad esempio, esso si riscontra solo nel 2009, all’indomani della grande crisi del 2007-2008, e nel 2015 (-0,1%) (vedi http://www.thefiscaltimes.com/2015/02/26/America-Deflation-So-What). Ovviamente, il perdurare di eccessi di capacità sopra il normale e ampia disoccupazione evita l’esistenza di pressione verso l’alto sui salari e sui prezzi. Ciò indebolisce di fatto il ruolo delle aspettative di inflazione, che nella attuale realtà di quasi tutte le economie avanzate resta schiacciata su livelli bassissimi. Riteniamo che le considerazioni fatte fin qui, possano essere poste a fondamento della spiegazione del perché la curva di Phillips (ossia il trade-off tra inflazione e disoccupazione) sia più ripida del passato tra il 2000 e lo scoppio della crisi, e sostanzialmente flat (se non addirittura inesistente) negli anni successivi alla crisi stessa (vedi grafico sotto)[13].

curva di phillips

Grafico 1: Curva di Phillips (media pesata Paesi G7). Fonte Thomson Reuters

e) Debito privato, credito e moneta

Poco sopra abbiamo visto come nessuna variazione di prezzi e salari sia in grado di rimuovere la presenza di eccessi di capacità produttiva (oltre il normale) nell’economia ed evitare la riduzione dei fondi interni (free cash flow) delle imprese, conseguente alla caduta del saggio del profitto sotto il livello minimo. Chiaramente il problema della riduzione dei fondi interni ha un diverso impatto a seconda della dimensione e della forza delle imprese. Quelle più grandi e con più potere di mercato avrebbero sicuramente, rispetto alle altre, più disponibilità di fondi interni (dati dalla somma dei profitti pregressi che non sono stati distribuiti agli azionisti) e/o una maggiore facilità di accedere al credito bancario per compensare l’eventuale riduzione. Mentre le prime potrebbero continuare a sopravvivere, le altre potrebbero non farcela e uscire dal mercato. Nel lungo periodo, dunque, parte della capacità produttiva dell’economia dovrebbe essere distrutta, come anche dovrebbe ridursi l’eccesso di capacità totale. Cosa potrebbe evitare questo destino? Ovviamente, che i prestiti bancari vengano estesi anche alle imprese meno forti. La concessione di nuovi prestiti, come mostrato in un recente articolo della Banca di Inghilterra, è il canale attraverso cui le banche commerciali creano ‘dal nulla’ (ex nihilo) gran parte della moneta in circolazione. Ogniqualvolta una banca concede un prestito, essa crea simultaneamente un deposito corrispondente nel conto corrente del mutuatario, a fronte di un suo impegno contrattuale con ipoteche, creando così nuova moneta. Questa moneta (moneta bancaria) può essere utilizzata dalle imprese per onorare i debiti già contratti in precedenza con le banche a fronte dell’insufficiente (rispetto alla capacità) livello di domanda e per continuare l’attività. Attraverso meccanismi analoghi la moneta può essere fatta arrivare anche alle famiglie allo scopo di sostenere i loro livelli di consumo, indeboliti dalla contrazione dell’attività economica[14]. In conclusione è la creazione di nuova moneta a rendere possibile la permanenza in vita delle imprese in presenza di eccessi di capacità al di sopra dei livelli ‘normali, e a fare in modo che quegli eccessi non esplodano quando i consumi sono più deboli. E’ dunque possibile scrivere:

                                 M=M{EC} con M’>0, M’’ <0                        (2)

La (2) ci dice che la quantità di moneta nell’economia aumenta, secondo le modalità appena descritte, al crescere dell’eccesso di capacità produttiva complessiva (EC), la quale genera un aumento dei prestiti richiesti da imprese e famiglie.

In modo opposto a quanto stiamo argomentando, si potrebbe sostenere che al crescere di EC, e quindi al rallentare dell’attività economica, la domanda di nuovi prestiti da parte di imprese e famiglie tenda a diminuire, con un effetto sulla quantità di moneta in circolazione opposto a quello da noi ipotizzato nell’equazione (2). In realtà, se guardiamo alle economie avanzate a partire dalla fine degli anni ‘90, la correlazione tra crescita di EC, crescita del debito privato (imprese e famiglie) e crescita di moneta bancaria appare del tutto confermata (cfr. i tre grafici seguenti che si riferiscono agli Stati Uniti), convalidando piuttosto chiaramente la logica espressa nell’equazione (2). Un’eccezione si osserva solo nel biennio 2008-2010 (si vedano i grafici 2, 3 e 4 in prossimità della colonna grigia), anni in cui si manifestano le conseguenze dello scoppio della bolla dei mutui subprime, che compromette temporaneamente non tanto la necessità di prestiti da parte del settore privato, ma la reale possibilità delle banche di concederli[15]. Tale possibilità viene di fatto ripristinata dopo il 2010 in seguito all’intervento delle Banche Centrali che sarà analizzato nella sezione seguente.

utilizzazione di capacità negli USA

Grafico 2: (In)Utilizzazione di capacità negli USA. Fonte Federal Reserve Economic Data

crediti concessi al settore privato USA

Grafico 3: Crediti concessi al settore privato USA (imprese e famiglie). Fonte Federal Reserve Economic Data

creazione di mezzi monetari in USA

Grafico 4 : Creazione di mezzi monetari (M2) in USA. Fonte Federal Reserve Economic Data

In conclusione, è possibile che la concessione di prestiti da parte del sistema bancario (e quindi la crescita della moneta) tenda a rallentare considerevolmente, fino addirittura a fermarsi, in corrispondenza di una fase di eccesso di capacità molto alto, come nel caso dello scoppio di una forte crisi economico-finanziaria, quando il sistema bancario potrebbe non essere più in grado di fornire, da solo, il livello di liquidità sufficiente ad evitare la bancarotta di imprese e famiglie[16]. In questo caso la dinamica descritta dalla (2) sarebbe temporaneamente inibita.

f) Banca Centrale, Quantitative Easing e investimenti finanziari

Per assicurare o ripristinare la capacità del sistema bancario di concedere prestiti al settore privato (e di creare nuova moneta nell’economia) le Banche Centrali possono creare ‘dal nulla’ moneta elettronica[17] per acquistare titoli obbligazionari detenuti dalle banche allo scopo sia di migliorare i loro bilanci sia di ridurre il costo del credito per famiglie e imprese[18]. Questo non basta, però, a garantire che la liquidità nuovamente creabile torni a circolare effettivamente nell’economia reale e a sostenere la spesa di famiglie ed imprese. Consideriamo ad esempio le famiglie. L’estensione del credito dopo un periodo di grande debolezza dell’economia potrebbe riprendere molto lentamente, nonostante i bassi tassi di interesse, a causa dell’eccessivo livello di indebitamento raggiunto in passato dalle famiglie (vedi ad esempio Antoshin et al. 2017). Inoltre, l’intervento delle Banche Centrali non può avere un grande effetto sugli stock di ricchezza e sui consumi delle famiglie in quelle economie (come il Regno Unito), in cui il possesso di attività finanziarie è comunemente mediato da fondi pensione e assicurazioni, le quali investono decisamente di più in titoli obbligazionari che in azioni (OCSE 2015). Diverso, però, potrebbe essere il discorso per economie, come gli Stati Uniti, in cui il possesso diretto di titoli obbligazionari e di azioni da parte delle famiglie è maggiormente consistente, e in cui anche gli investimenti di fondi pensione e assicurazioni in azioni sono più equilibrati. Secondo la portfolio balance theory (vedi Mankiw 2000), quando la Banca Centrale acquista obbligazioni, gli investitori aumentano la domanda di altre attività, in particolare di titoli azionari, aumentando i loro prezzi e aumentando la ricchezza e la spesa delle famiglie. Ad ogni modo, la forte concentrazione di stock di ricchezza finanziaria nelle mani di un numero ridotto di famiglie, quelle a più alto reddito e con una minore propensione al consumo, può ridurre considerevolmente l’efficacia dell’intervento (vedi OCSE 2015)[19]. C’è poi da dire che, per entrambe i tipi di economia esaminati, un effetto benefico sui consumi delle famiglie potrebbe derivare da una riduzione/ridefinizione del costo del debito che esse hanno precedentemente accumulato (ad esempio per accensione di mutui), ma esso è comunque fortemente limitato dallo scarso potere contrattuale che le stesse famiglie riescono ad avere nei confronti degli istituti bancari.

Effetti ancor più contro intenzionali rispetto ai fini dichiarati dell’intervento delle Banche Centrali riguardano la spesa per investimento delle imprese. Infatti, quanto più la disponibilità di credito per le imprese ridiventa ampia e vantaggiosa, e tanto più le aspettative di ripresa dell’economia si mantengono basse, tanto più è facile che il credito venga impiegato dalle imprese in investimenti finanziari, ossia in acquisto e riacquisto (buy-back) di titoli e azioni, piuttosto che in investimenti produttivi, in vista dei maggiori guadagni prospettici dei primi rispetto ai secondi. Come evidenziato da William Lazonik (2014), sottostante alla pratica del buy-back in particolare, sempre più diffusa tra le grandi corporation statunitensi (che hanno grande liquidità e una maggiore facilità d accesso al credito rispetto alle altre)[20], è l’idea di derivazione neoclassica (Teoria dell’agenzia, vedi ad esempio Jensen e Meckling (1976)) in base alla quale se un’impresa vuole massimizzare il suo valore complessivo, deve necessariamente massimizzare il valore delle quote detenute dagli azionisti[21]. Ora, è chiaro che la destinazione di un considerevole ammontare di moneta liquida al riacquisto di titoli e azioni determina un aumento del loro prezzo a breve termine, e può consentire al manager di raggiungere i propri obiettivi di utili (e di distribuzione dei dividendi tra gli azionisti) ben prima che un qualunque investimento time-consuming generi un eventuale analogo risultato[22]. Questo a maggior ragione è vero per investimenti innovativi che richiedono l’impiego di una quantità consistente di risorse ad attività (come la spesa in R&S) dall’esito fortemente incerto[23].

In termini generali, dunque, l’aumento continuo del prezzo degli stock finanziari può generare per le imprese corporate un vero e proprio drenaggio di risorse dagli investimenti produttivi verso quelli finanziari, contribuendo a gonfiare bolle speculative in quasi tutte le principali borse valori[24]. Le attività speculative consistono nello sfruttamento delle oscillazioni di prezzo degli assetti di ricchezza che vengono comprati e venduti a prezzi diversi in diversi momenti, lucrando i differenziali di prezzo attraverso una pluralità di contratti con caratteristiche temporali definite. L’incremento di guadagno che affluisce ai possessori di titoli e azioni contribuisce significativamente all’accentuazione delle diseguaglianze distributive (vedi Piketty 2013, Gallino 2012, Franzini e Pianta 2015).

g) Velocità di circolazione della moneta, inflazione finanziaria, investimenti reali

In base alla discussione condotta nelle sezioni e) e f) possiamo dedurre tre importanti equazioni per il nostro modello. Per ottenere la prima poniamo e l’equazione (2) all’interno dell’equazioni degli scambi di Fisher[25]. Si ottiene

Tenendo conto della (1), la (3) ci dice che la velocità di circolazione della moneta, V, diminuisce al crescere dell’eccesso di capacità nell’economia e dell’associato processo di creazione di nuova moneta. Questa tendenza è facilmente riconoscibile, a partire dalla fine degli anni ’90, osservando il grafico seguente:

Velocità di M2

Grafico 5: velocità di M2. Fonte Federal Reserve Economic Data

Le misure di QE adottate dalle banche Centrali dopo la Grande Crisi del 2007-2008 non fanno che accentuare la caduta della velocità di circolazione della moneta come il grafico seguente permette di apprezzare con ancora più chiarezza[26]

Velocità di M2 e Quantitive Easing

Grafico 6: Velocità di circolazione di M2 e Quantitative Easing: Fonte Federal Reserve Economic Data

A fronte di una forte creazione di mezzi monetari (in particolare dopo il biennio della crisi), e di un eccesso di capacità che continua a rimanere molto al di sotto del livello normale, la progressiva caduta di V ci indica, probabilmente, che all’interno dell’economia si stanno verificando sempre meno transazioni relative ai beni prodotti. Dove finisce allora la nuova moneta? L’ipotesi di lavoro è che (almeno buona parte) si riversi sui mercati finanziari provocando un aumento degli acquisti in stock di ricchezza (titoli e azioni) e una crescita continua dei loro prezzi medi (il cosiddetto fenomeno dell’inflazione finanziaria). Per verificare questa ipotesi abbiamo correlato, relativamente agli Stati Uniti, la velocità dello stock di moneta M2 sia con l’indice Dow Jones Composite Average (DJCA) sia con il Nasdaq-100. Il calcolo è stato effettuato per i trimestri che vanno dal primo gennaio del 2008 al primo settembre del 2017 (39 osservazioni). Nel primo caso (vedi grafico 7) il coefficiente di correlazione è pari a -0,82; nel secondo (vedi grafico 8) è pari -0, 704. La nostra ipotesi sembra dunque ricevere un qualche significativo conforto.

Correlazione tra VM2 e DJCA

Grafico 7: Correlazione tra VM2 e DJCA. Nostra elaborazione su dati FRED e S&P. Dow Jones Indices LLC (correlazione -0,82)

Correlazione tra VM2 e NASDAQ-100

Grafico 8: Correlazione tra VM2 e NASDAQ-100. Nostra elaborazione su dati FRED e NASDAQ indices (correlazione -0,704)

Assumiamo ora che esista un solo titolo azionario rappresentativo di un’unità del capitale esistente. Essendo per definizione il rendimento di un’azione, ra , il rapporto fra incremento di prezzo (fra l’inizio e la fine del periodo di riferimento) dell’azione e il suo prezzo iniziale[27], la discussione condotta fin qui consente di esprimere tale rendimento come una funzione inversa della velocità di circolazione della moneta; quindi sarà:

                                             ra = v{V} con v’ <0                     (4)

A questo punto, cerchiamo di rappresentare il legame tra investimento in capitale fisico e andamento azionario. Il punto può essere utilmente sintetizzato, a nostro parere, mediante il ricorso alla cosiddetta ‘teoria della q’, formulata dal premio Nobel J. Tobin (1977, 1981) per regolare la dinamica degli investimenti reali. Dalla discussione della sezione e) abbiamo visto che, tanto più aumentano i prezzi di titoli e azioni, tanto più aumentano gli investimenti finanziari delle imprese e tanto maggiori sono le risorse drenate agli investimenti in attività produttive. Questo si verifica perché i fondi esterni e i fondi interni delle imprese sono limitati. In base alla teoria della q, per decidere se accrescere lo stock di capitale fisico al netto degli investimenti sostitutivi, che nel modello di Tobin equivale a decidere se acquistare azioni di nuova emissione, le imprese devono valutare quanto questa decisione farà crescere il loro flusso dei profitti futuri.

In estrema sintesi, assumendo che ciascuna unità di capitale abbia una durata infinita, le imprese hanno convenienza ad investire se il rendimento atteso dall’acquisto di (un titolo azionario rappresentativo di) una nuova unità di capitale (efficienza marginale del capitale),re, è superiore al rendimento (del titolo azionario rappresentativo) dell’unità di capitale esistente,ra. In termini formali dovrà essere cioè

                                           q= re/ ra >1                                     (5)

dove q è l’indice di Tobin. In realtà, però, la formulazione originale della teoria della q non permette di distinguere i rendimenti attesi dal nuovo investimento netto dai rendimenti generati dallo stock di capitale esistente[28]. Questo costituisce un limite importante dell’approccio. In base alla (4) sappiamo, ad esempio, che tanto più cade la velocità di circolazione della moneta V (secondo le linee descritte in precedenza nell’equazione (3)), tanto più aumenta r(equazione (4)). Inoltre, nelle prolungate fasi di incertezza e instabilità dell’economia, è lecito pensare che anche il numeratore della (5) possa drasticamente diminuire. Fenomeni del genere, quindi, potrebbero spingere il valore della q di Tobin molto al di sotto di 1, facendo desistere l’impresa dalla decisione di acquisire una nuova unità di capitale. Alcuni autori (vedi ad esempio Hayashi 1982) hanno sostenuto che è molto più rilevante, ai fini dell’investimento, considerare la variazione marginale di q (anche detta q marginale) piuttosto che il suo valore medio. La q marginale esprime il rapporto tra la variazione nel valore attuale dei profitti derivanti dal nuovo investimento e il rendimento del capitale esistente. Essendo però tale indicatore difficilmente osservabile, a meno di ipotesi molto vincolanti per l’analisi, riteniamo sia più utile studiare il comportamento degli investimenti ricorrendo a proxy indirette della variazione di q[29]. Della variazione di V e del suo effetto sul denominatore della q abbiamo detto in precedenza. Esiste poi un’altra variabile che, come noto, è correlata inversamente con il rendimento delle azioni ed è il tasso di interesse (i): minore è il tasso di interesse maggiore sarà il prezzo delle obbligazioni. Conseguentemente, minore sarà la domanda di obbligazioni a vantaggio di quella delle azioni e maggiore sarà il rendimento delle seconde. Se la Banca Centrale non controlla direttamente la quantità di moneta, essa fissa il tasso d’interesse al quale finanzia le banche con la moneta legale (tasso di sconto) e tale tasso d’interesse influisce su quello effettivamente applicato dal sistema bancario ai clienti. Se la Banca Centrale, al contrario, agisce direttamente sulla quantità di moneta, essa lo fa acquistando (come nelle politiche di QE, vedi sezione f) o vendendo titoli obbligazionari a reddito fisso (prevalentemente pubblici), e determinando una riduzione o un aumento del tasso di interesse. Proprio la necessità delle politiche di QE dopo la Grande Crisi ha determinato una caduta del tasso di interesse fino allo zero, compromettendo di fatto la possibilità delle Banche Centrali di agire discrezionalmente su questa variabile.

Un’ulteriore variabile da considerare, infine, è rappresentata dalla domanda attesa nel lungo periodo (De) che, dato il costo dell’investimento necessario a permettere un’utilizzazione del capitale/capacità vicina al livello ‘normale’ (vedi nota 6), determina il flusso futuro dei ricavi attesi (e, quindi dei profitti futuri attesi). Chiaramente, un peggioramento improvviso delle aspettative sull’andamento generale dell’economia ridurrebbe il livello della domanda attesa, riducendo il numeratore della q e l’investimento. Osserviamo che Ddipende dal modello di formazione delle aspettative di lungo periodo adottato dalle imprese. Qualora quel modello conducesse a valutazioni ex post sistematicamente errate, testimoniate da eccessi di capitale/capacità nel breve periodo molto diversi dal livello ‘normale’, esso sarebbe dismesso o drasticamente revisionato alla luce degli errori.

Da quanto detto si può allora ipotizzare, seppur con la dovuta cautela e la consapevolezza della necessità di adeguata verifica empirica, la seguente funzione degli investimenti (dove le nuove decisioni di investimento sono assunte alla fine del periodo di produzione):

                           I=I{V,i,De} con ∂I/∂V >0                          (6)

Se si assumono come dati il tasso di interesse e le aspettative di domanda nel lungo periodo, la (6) ci dice, come suggerito prima, che tanto più cade la velocità di circolazione della moneta tanto più si riducono gli investimenti produttivi delle imprese. La concordanza dei due andamenti a partire dagli anni successivi alla crisi, con riferimento agli Stati Uniti, è chiaramente osservabile nel grafico seguente.

Velocità di circolazione della moneta e investimenti privati

Grafico 9: Velocità di circolazione della moneta e investimenti privati netti. Fonte FRED data

La riduzione degli investimenti, a sua volta, può dare luogo a due effetti: uno di breve periodo – ossia una contrazione ulteriore della domanda aggregata che riduce il livello di produzione effettiva (e dei risparmi) – uno di lungo – ossia una riduzione della capacità produttiva complessiva-. L’effetto finale sarebbe quello di ridurre il potenziale produttivo dell’economia senza eliminare (se non in parte) la presenza di capacità in eccesso. Questo a lungo andare potrebbe ridurre le opportunità di occupazione con effetti depressivi sui consumi, sulla domanda e sui livelli di produzione, continuando una spirale che conduce l’economia alla stagnazione. Notiamo poi che il processo appena descritto si verifica in presenza di condizioni favorevoli di disponibilità del credito. Se queste venissero a peggiorare per effetto di politiche monetarie delle Banche Centrali meno accomodanti, potrebbe delinearsi concreti rischi di forte correzione dei corsi azionari. A quel punto si manifesterebbero significativi problemi di liquidità, come già avvenuto nel 2007-2008 dopo che la FED ebbe aumentato il tasso di sconto, che diverrebbero particolarmente gravi per le imprese più piccole e potenzialmente insolventi. Aumenterebbe così il rischio di una catena di fallimenti che porterebbero l’economia di nuovo in una fase di depressione e con un livello di concentrazione più alto[30].

Conclusioni

Il framework delineato in questo lavoro mostra come la presenza nell’economia di eccessi di capacità oltre il normale metta in moto una catena di azioni/reazioni da parte degli attori (Banca Centrale, sistema bancario, imprese, lavoratori) che possono addirittura aggravare gli eccessi iniziali, fino a condurre il sistema verso una fase di prolungata stagnazione o, peggio, a ricorrenti fasi di depressione. Tali azioni/reazioni dipendono strettamente dai rapporti di forza dei soggetti in campo e sono proprie della fase storica che sta attualmente attraversando l’economia capitalistica. Essenziale, ai fini di una loro comprensione, è l’analisi delle mutue interazioni tra parte reale e parte finanziaria dell’economia che concorrono a delineare le sue future direzioni di evoluzione. Sebbene il percorso intrapreso costituisca solo un primo passo, ritengo che lo studio condotto possa essere di aiuto alla costruzione di modelli più strutturati per simulare il ruolo dello Stato e dell’azione pubblica, la cui efficacia dovrebbe essere valutata in base alla capacità di armonizzare nel tempo l’espansione della produzione potenziale con il tasso crescita della domanda.

*Fondazione Ugo Bordoni

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[1] Si veda ad esempio “The Global Economics Prospects 2018” report just published by the World Bank, sottotitolato “Broad-Based Upturn, but for How Long?”

[2]A series of downbeat business surveys in the eurozone, plus an unexpected third successive monthly fall in industrial production in February, have cast some doubt on the robustness of the European recovery. Employment in the US has been weaker than expected, as has Japanese consumer spending and wage growth, meaning Japan is likely to remain below its 2 per cent inflation target for some time to come. Activity in the Chinese economy, meanwhile, also appears to be soft. Overall, the global economy is performing below expectations” (The global economic recovery has hit some resistance, Financial Times del 13/4/2018).

[3] Per gli economisti più vicini alla scuola neoclassica questo eccesso è una sorta di fenomeno eccezionale. In condizioni normali, infatti, la riduzione del tasso di interesse permetterebbe di riequilibrare sempre le decisioni relative al risparmio e quelle relative all’investimento. Invece, alti livelli di risparmio (offerta di fondi prestabili) e bassi livelli di investimento (domanda di fondi prestabili) hanno comportato un tasso di interesse vicino allo zero, se non addirittura negativo, rendendo vana l’azione della politica monetaria e persistente lo squilibrio. L’intervento fiscale, d’altra parte, dovrebbe essere rivolto solo al contenimento del debito pubblico necessario per ripristinare la fiducia tra gli investitori. Per gli economisti più vicini alla scuola keynesiana, diversamente, le decisioni relative al risparmio sono indipendenti da quelle di investimento e non c’è alcuna ragione, quindi, perché esse debbano essere compatibili. Un eccesso ex ante di risparmio sull’investimento privato può essere riassorbito allora solo da una caduta della produzione al di sotto del livello potenziale (piena occupazione), fino al livello determinato dalla domanda effettiva (e a una caduta del corrispondente risparmio fino al livello determinato dall’investimento privato). In questo contesto, si sostiene, solo un ruolo attivo della politica monetaria e, in particolare, della politica fiscale (es. aumento degli investimenti pubblici) potrebbe ripristinare l’equilibrio di piena occupazione nel sistema.

[4] A partire dalla fine degli anni ’90, eccessi di capacità (sopra il ‘normale’) hanno teso a diventare sempre più cronici nelle economie avanzate (vedi ad esempio sotto grafico 2). Sulle possibili cause di questo fenomeno, e sui suoi legami con la ‘rivoluzione digitale’ e con il processo di redistribuzione funzionale del reddito, si veda il mio contributo su Economia e Politica al link

https://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/distribuzione-e-poverta/perche-la-crescita-degli-investimenti-non-ci-salvera/ e il mio articolo “Industria 4.0 e disoccupazione tecnologica: né apocalittici né integrati” su Micromega 4/2017 .

[5] L’ipotesi di divisibilità tecnica deriva dall’assumere che gli impianti produttivi delle imprese moderne sono largamente basati su ICT (Information and Communication Technology) e quindi la loro utilizzazione è più facilmente scalabile e adattabile alle dimensioni della domanda rispetto al vecchio modello produttivo della produzione di massa basato sul ciclo delle scorte. Ho affrontato questo punto in diversi contributi (per una trattazione approfondita si vedano ad esempio Marini e Pannone 2007 e Pannone 2010).

[6] Sebbene sia estremamente difficile definire un grado ‘normale’ di utilizzazione della capacità produttiva (e del capitale) di un’impresa o di sistema economico, almeno fino al 2000 numerosi studi effettuati dagli istituti di statistica o dalle società di sondaggio, come dai ricercatori e dagli specialisti, convergevano sul fatto che le imprese operassero solitamente intorno all’82-85% per cento della loro capacità massima, livello che si riteneva compatibile con l’assenza di pressioni inflazionistiche (si veda ad esempio l’ indagine annuale effettuata dall’US Census Bureau, chiamata Indagine sull’utilizzo della capacità di impianto).

[7] Stiamo assumendo che le unità di capitale siano generalmente acquisite dalle imprese mediante ricorso al credito bancario e richiedano il loro impegno intertemporale (commitment) a pagare alle banche una rata di affitto fissa annua, definita per contratto (rental cost). Usando una formula di matematica finanziaria la rata potrebbe essere calcolata in funzione del prezzo dell’unità di capitale, della sua durata tecnica e del tasso di interesse. Per semplificare, assumeremo implicitamente che non esista un mercato per il noleggio (dei servizi) delle unità di capitale (vedi Miller 2000, nota 16) e che quindi sia dato.

[8] Infatti, l’aumento del grado di capacità inutilizzata rende necessario che si tenga conto anche del movimento dei costi fissi medi: il loro aumento, infatti, riduce il saggio del profitto effettivo a parità di mark-up (vedi sezione c), effetto che non può essere colto se si fa riferimento alla formula, più comunemente utilizzata, che definisce il prezzo semplicemente in base ad un mark up costante sui costi marginali.

[9] La condizione di equilibrio è analoga a quella definita nel cosiddetto modello NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), ossia quel tasso di disoccupazione di “equilibrio” di lungo periodo tale da non alterare la dinamica salariale e dei prezzi.

[10] In termini formali è  xi < x ̅per ogni impresa i=1,2,…n e X< X ̅ per l’intera economia, con X=xi  e  X ̅=∑ x ̅i =0,85xi max.

[11] Bisogna dunque distinguere tra ex-ante sunk cost, perfettamente noti alle imprese al momento della stipula del contratto di affitto, e ex-post sunk cost che si verificano inseguito a ‘notizie’ che l’impresa acquisisce alla fine del periodo di produzione su un risultato inatteso. Sulla differenza tra ex-ante e ex-post sunk cost si veda Owen R., Ulph, D., (2002).

[12] Coerentemente a quanto sostenuto da Kalecki (1971), quindi, l’aumento generalizzato dei salari monetari, dando luogo a un aumento meno che proporzionale dei prezzi, accrescerebbe i salari reali, la spesa per consumi e la domanda totale, riducendo l’eccesso di capacità e la disoccupazione e riportando il saggio del profitto verso il livello minimo. Ad ogni modo è del tutto improbabile che ci sia un’impresa che adotti da sola una misura che inizialmente da certamente luogo ad un ulteriore aumento dei propri costi, non avendo alcuna certezza che le altre intendono seguirla.

[13] Nel grafico 1, la curva relativa al periodo 2000-2008 ci dice che l’aumento del tasso di disoccupazione che si è verificato ha dato luogo a un rallentamento della dinamica di salari e prezzi. Al contrario, la variazione (in un senso o nell’altro) della disoccupazione dopo la crisi (periodo 2009-2016) non ha dato luogo ad apprezzabili variazioni della dinamica di prezzi e salari,

[14] Ricordiamo che intorno al 2003/2004 si verifica una forte immissione di liquidità a vantaggio delle famiglie, attraverso la creazione di nuovi veicoli finanziari (subprime) associati alla concessione di mutui (home mortgages), e garantiti esclusivamente da immobili che aumentavano costantemente di valore a causa della bolla immobiliare. Tali strumenti finiscono per costituire, di fatto, dei moltiplicatori del credito.

[15] In seguito allo scoppio della bolla le banche, che spesso hanno garantito una linea di credito ai fondi hedge in caso di carenza di liquidità non superabile altrimenti, cercano di approvvigionarsi sul mercato interbancario ma non ci riescono in quanto anche lì la liquidità è evaporata. Le banche diventano allora molto caute nel concedere credito sia alle famiglie – in primo luogo sul mercato dei mutui – che alle imprese.

[16] Sebbene una banca possa creare denaro senza averlo materialmente a disposizione, infatti, essa è comunque vincolata a fornire contante qualora un cliente richiedesse di riscattare parte o tutto il deposito che detiene presso di essa. Se però molti dei suoi clienti non fossero in grado di restituire materialmente (con interessi) il debito contratto in precedenza, la banca potrebbe non disporre di quel contante e sarebbe costretta a procurarsi all’esterno la liquidità mancante, pena il proprio fallimento. Questo è quello che può verificarsi durante una fase di crisi economica generalizzata.

[17] Questa capacità è ormai chiaramente confermata. Come afferma il documento n° 169 della BCE (aprile 2016) dal titolo “Profit distribution and loss coverage rules for central banks”, alla nota 7 a pagina 14: “Le banche centrali sono protette contro l’insolvenza a causa della loro capacità di creare denaro e possono perciò operare con patrimonio netto negativo”.

[18] Questo è quello che è esattamente accaduto, dopo l’esplosione della crisi dei mutui subprime nel 2007-2008, con l’avvio delle politiche di Quantitative Easing negli Stati Uniti prima, poi in Europa e in Giappone. La moneta creata in questo modo dalle Banche Centrali, con una corrispondente espansione dei loro bilanci, è stata utilizzata per acquistare titoli obbligazionari a reddito fisso (prevalentemente pubblici), ormai considerevolmente ridotti di valore a causa dello scoppio della crisi finanziaria, detenuti dalle banche, rimettendole in condizioni di effettuare prestiti a bassi tassi di interesse e di creare nuovamente moneta nell’economia. Osserviamo anche che già prima ancora che l’Euro cominciasse a circolare, e fino a poco prima dello scoppio della Grande Crisi, la BCE decise di allentare le condizioni del credito ben oltre il proprio target di inflazione, presumibilmente per consentire alle banche di fare prestiti al settore privato nello scenario di forte incertezza determinatosi con l’attentato dell’11 settembre 2001. Già il 17 settembre 2001, a conferma di quanto detto, la BCE abbassò il tasso di riferimento dal 4,25% al 3,75%.

[19] In generale, comunque, come messo in evidenza da Feldstein (2010), “..né la teoria né l’esperienza passata possono rispondere alla domanda: quanto aumenta il PIL? “In effetti, un’ipotesi ottimistica sarebbe che il prezzo delle azioni aumenterà del 10%. Dato che le famiglie hanno circa $ 7.000 miliardi di azioni, ciò implicherebbe un guadagno di ricchezza di $ 700 miliardi, aumentando la spesa dei consumatori di circa un quarto dell’1% del PIL, un effetto gradito, ma banalmente basso, sui redditi e l’occupazione “.

[20] Dal 2009 al 2017, secondo i calcoli di Artemis Asset Management, le sole aziende americane hanno riacquistato in Borsa azioni proprie (buy-back)per un totale di 3.800 miliardi di dollari. Sia nel 2015 che nel 2016, anni da record, hanno speso per comprare i propri titoli e per distribuire dividendi più di quanto abbiano totalizzato come utili.

[21] Secondo i teorici dell’agenzia il rapporto fra consiglio di amministrazione (in rappresentanza
degli azionisti) e management (alla cui testa siede l’amministratore delegato) è assimilato ad un contratto di agenzia dove il principal (l’azionista) affida ad un agent (l’amministratore delegato) la direzione dell’impresa. Il principal e l’agent sono per loro natura soggetti egoisti e perseguono i loro interessi personali: se il primo non riesce a controllare il secondo, questo perseguirà il proprio interesse anche a danno dello stesso. Come riallineare gli interessi degli uni con gli interessi degli altri? Se l’interesse dell’azionista è vedere crescere il valore delle azioni detenute (shareholder value) allora bisogna retribuire il management con la possibilità di acquistare azioni a prezzi scontati incentivandolo a ricercarne costantemente l’aumento di valore (stock options).

[22] Calcola sempre Artemis Am che dal 2012 al 2017 gli utili per azione delle aziende quotate a Wall Street siano cresciuti del 24%; se non ci fossero stati i buy-back l’aumento sarebbe stato solo del 7% (si veda articolo del Sole 24 ore del 21-2-2018 al link http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-02-21/tornano-buy-back-wall-street-cannibalismo-finanziario-che-gonfia-borsa-165543.shtml?uuid=AEVVN13D .

[23] Calcola per esempio Lazonick (2014) che negli Usa le medicine costano molto più che in altri Paesi. Le case farmaceutiche si sono sempre difese dicendo che grazie ai prezzi più elevati possono investire in ricerca e sviluppo. Peccato che Pfizer – per fare un solo esempio – dal 2003 al 2012 abbia usato il 71% dei propri utili per buyback e il 75% per pagare dividendi. Oltre alle grandi case farmaceutiche, tra i più grandi ricompratori di stock ci sono le aziende leader della rivoluzione ICT (vedi Lazonik 2015). Apple, infine, ha da poco annunciato un nuovo piano di buyback “senza precedenti” da 100 miliardi di dollari; quello da 210 miliardi verrà completato nel trimestre in corso.

[24] Le evidenze statistiche in base alle quali le società non finanziarie destinano una quota inferiore dei profitti agli investimenti fisici, mentre aumentano i rendimenti agli azionisti attraverso acquisti e riacquisti di azioni, non sono limitate agli Stati Uniti. Una consistente quantità di dati OCSE mostra come le stesse tendenze siano ormai evidenti in molte economie sviluppate.Vedi Gruber e Kamin 2017.

[25] Ricordiamo che l’equazione degli scambi di Fisher è un’identità contabile per cui si ha , dove V è la velocità di circolazione della moneta che rappresenta la frequenza con cui viene utilizzata un’unità di moneta per l’acquisto di beni e servizi prodotti in quell’anno. L’identità afferma semplicemente che la spesa totale in termini monetari (MV) è uguale al valore monetario dei beni scambiati (PX).

[26] Per quanto detto alla fine della sezione e), e come il grafico 5 permette di apprezzare bene, la dinamica descritta dall’equazione 3) viene momentaneamente inibita dopo lo scoppio della Grande Crisi, per poi riprendere successivamente in seguito all’azione delle Banche Centrali.

[27] L’incremento di valore a numeratore comprende anche il risultato a fine periodo del reimpiego di eventuali frutti generati dal portafoglio (per es., dividendi azionari o cedole obbligazionarie).

[28] Si assume infatti, come noto, che il rendimento atteso di una nuova unità di capitale decresca al crescere dello stock di capitale. Questo perché l’offerta di capitale viene ricavata dalla funzione aggregata di produzione neoclassica, assumendo la monotonicità e la decrescenza della relazione tra la quantità di capitale impiegata e il suo prodotto marginale. In questo quadro di riferimento analitico si decide di investire solo finché il rendimento atteso di un’unità di capitale aggiuntiva supera la profittabilità del capitale associata a un rapporto ottimo capitale/prodotto. Quindi, in realtà, il valore della q tende a coincidere con l’efficienza marginale del capitale.

[29] E’ possibile dimostrare che la q marginale coincide con la q media solo se l’impresa utilizza una tecnologia con rendimenti di scala costanti e se le imprese operano in regime di concorrenza perfetta (vedi Hayashi 1982). Le condizioni suddette sono molto lontane da quelle ipotizzate in questo nostro lavoro. Questo ci spinge a percorrere una strada alternativa per valutare variazioni di q.

[30] Tale processo sembra comunque già in atto da tempo. Secondo un recente studio condotto dal Politecnico Federale di Zurigo esiste un nucleo di solo 1300 imprese che controlla circa la metà di tutte le multinazionali, e la cui proprietà resta perlopiù nel nucleo stesso, attraverso complicati meccanismi di partecipazione reciproca. Cioè esiste un piccolo gruppo di multinazionali, strettamente connesse, che detengono la maggioranza delle azioni l’una dell’altra: 737 dei maggiori azionisti detengono l’80% del controllo di tutte le più importanti multinazionali.

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