Pensioni e teoria economica: liberare il dibattito dai pregiudizi

Scarica pdf Partecipa alla discussione Torna indietro Home

Political and social notes

Il dibattito sulla sostenibilità del sistema previdenziale, negli ultimi anni sempre più orientato verso l’espansione della previdenza complementare gestita dai fondi privati, spesso non fa i conti con alcuni limiti di simili schemi pensionistici. Dal punto di vista della teoria economica, l’origine di certi “equivoci” va ricercata nei poco realistici assunti ereditati dalla tradizione neoclassica che ritroviamo oggi alla base dei ragionamenti che dominano il dibattito sulla previdenza sociale.

La crisi economica innescata dalla drammatica emergenza da Covid-19 sta provocando effetti di breve e di lungo periodo significativi su tutti i “pilastri” del sistema pensionistico: sia sulla previdenza pubblica, tipicamente a ripartizione, e sia sui fondi pensione, tipicamente a capitalizzazione. Per quanto riguarda la prima, la chiusura di molte attività economiche e l’aumento della disoccupazione stanno causando non solo un crollo nella contribuzione aggregata incassata dagli enti previdenziali, ma anche scoperture contributive importanti nei conti assicurativi individuali e sull’entità stessa degli assegni pensionistici futuri. Sul versante della cosiddetta previdenza complementare le cose non vanno molto meglio, dal momento che anche i fondi pensione stanno soffrendo molto l’andamento dell’economia e dei mercati finanziari. Secondo la Banca centrale europea, ad esempio, nel periodo che va dal quarto trimestre del 2019 al primo trimestre del 2020 il patrimonio netto dei fondi pensione dell’eurozona ha subìto una perdita di ben 250 miliardi di euro. Un saldo che pesa molto soprattutto sui fondi a contribuzione definita (quelli in cui il sottoscrittore non conosce prima l’importo della rendita), molto diffusi proprio in Italia. Come spiega anche Maurizio Sgroi su Econopoly, infatti, l’esposizione indiretta di questi fondi pensione verso i mercati azionari provoca perdite importanti che costituiscono comunque un’ipoteca sulle rendite degli assegni pensionistici futuri di molti dei loro sottoscrittori. D’altronde, come spiega la presidente del consiglio degli attuari Tiziana Tafaro a Il Messaggero, anche gli altri fondi, quelli a prestazione definita, possono soffrire di effetti molto negativi sul bilancio tecnico a causa di una crisi sui rendimenti finanziari che, in realtà, è iniziata anche prima della crisi pandemica. Sulle stesse colonne, Luca Di Gialleonardo di Mefop condivide le simulazioni del proprio istituto che, ipotizzando almeno tre anni di effetto negativo della crisi economica, stima una riduzione della rendita tra il 9 ed il 10% per i lavoratori tra i 30 ed i 45 anni ed anche fino al 29% per chi è sulla soglia dei 60 anni.

La fase storica è talmente difficile che non poteva che avere effetti importanti sul mondo della previdenza ma, proprio per questo, contribuisce anche a svelare caratteristiche e verità normalmente ignorate nel dibattito sul sistema pensionistico. La teoria economica ci può aiutare a fare chiarezza in questo senso.

Sistemi pensionistici

Innanzitutto, a seconda del grado di privatizzazione e a seconda del tipo di finanziamento degli assegni pensionistici, esistono diversi regimi pensionistici ed è lungo questi assi che idealmente corre il dibattito sulla previdenza che da anni accompagna i paesi occidentali. Un quadro ben accurato, ad esempio, viene fornito da Palley (1998: 7-8), che classifica i sistemi pensionistici combinando tre gradi di privatizzazione (forte, debole, assente) e tre gradi di pre-funding (pieno, parziale, nessuno), individuando, di conseguenza, nove schemi differenti ben definiti. Per fare un esempio, un classico sistema pubblico a ripartizione (pay-as-you-go) si colloca lungo questi assi in un quadrante corrispondente ad assenza di privatizzazione ed assenza di pre-funding, perché raccoglie contributi sociali che redistribuisce nello stesso periodo di tempo ai pensionati. All’estremo opposto, invece, vi è un sistema in cui sono i soggetti privati a raccogliere e disporre pienamente delle contribuzioni che, con l’obiettivo della maturazione di una rendita, vengono investite sui mercati. Le raccomandazioni di diversi istituti economici e le riforme politiche degli ultimi anni, ad esempio attraverso precise normative o anche semplici agevolazioni fiscali, stanno conducendo il sistema pensionistico progressivamente in questa direzione (OECD 2019; World Economic Forum 2017; Mercer 2019).

La crisi economica che stiamo attraversando sta mettendo dunque in difficoltà un sottofinanziato sistema di previdenza pubblica, ma sta anche svelando alcuni limiti del pre-funding e della privatizzazione delle pensioni che normalmente vengono trascurate nel dibattito pubblico. Le ragioni più profonde di questa assenza si celano negli assunti, figli di teorie economiche mainstream di ispirazione neoclassica, che vengono ormai dati colpevolmente come verità assolute. Si tratta, naturalmente, di assunti che trovano da sempre la condivisibile opposizione del pensiero economico più eterodosso. Proviamo quindi, con l’aiuto della teoria economica, a svelare alcuni di questi “equivoci” che dominano il dibattito sulla previdenza.

Privatizzazione pensioni

Un primo presunto vantaggio della privatizzazione della previdenza che viene dato per scontato da diversi economisti mainstream riguarda il mercato del lavoro: rimuovere o ridurre la contribuzione sociale sulle buste paga dei lavoratori ridurrebbe – nella loro visione – l’effetto distorsivo che essa susciterebbe sul costo del lavoro nel mercato dove si incontrano la sua domanda e la sua offerta e, di conseguenza, aiuterebbe ad incrementare l’offerta di lavoro e l’occupazione (Feldstein 1974; Hausman 1985). Ci si riferisce ovviamente ad una visione neoclassica del mercato del lavoro in cui esisterebbe una disoccupazione volontaria provocata da un salario d’equilibrio non adeguato; una visione, però, già ampiamente critica da Keynes nella celebre General Theory: il livello dell’occupazione non si determina in ultima istanza con l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma dipende principalmente dal livello della domanda aggregata (Keynes 1936)[1]. Inoltre, questo argomento mainstream sarebbe comunque contraddittorio anche all’interno del proprio schema teorico. I movimenti dell’offerta di lavoro conseguenti alla variazione del peso dei contributi sociali assumono infatti implicitamente che i lavoratori non considerino la previdenza come parte della propria ricchezza, ma gli economisti ortodossi sostengono che la previdenza sociale abbia l’effetto di spiazzare i risparmi privati, una tesi sostenibile solo se si assume che essa, al contrario, venga considerata proprio parte della loro ricchezza (Palley 1998: 19-21).

Un secondo presunto vantaggio deriverebbe dalla fiducia che la teoria economica dominante ripone nell’efficienza dei mercati finanziari. In realtà, come sottolineano gli economisti eterodossi, un alto grado di privatizzazione comporta rischi più elevati proprio perché su quei mercati domina, al contrario, un alto grado di incertezza e di volatilità. Tra i meccanismi più pericolosi evidenziati da studiosi come Palley (1998: 12-16) e Weller (2006), con riferimento alla previdenza, vi sono ad esempio: il problema del  “buy high – sell low”, ossia il forte rischio (data la grande entità delle contribuzioni previdenziali) di spingere verso l’alto i prezzi quando si agisce da compratori e di spingerli verso il basso quando si agisce da venditori; in secondo luogo, dato che i prezzi sui mercati finanziari oscillano molto sia su base pluriennale che giornaliera, i lavoratori possono ritrovarsi a fronteggiare una volatilità nei rendimenti decisamente troppo alta rispetto alle proprie esigenze; anche il rischio di moral hazard è più elevato quando il grado di privatizzazione è alto dal momento che alcuni agenti possono compiere scelte di investimento poco avvedute perché contano invece sulle pensioni sociali garantite comunque dallo Stato; infine, non è da sottovalutare il fatto che i costi amministrativi di schemi pensionistici fortemente privatizzati sono ovviamente più alti e, di conseguenza, anche regressivi, proprio perché si tratta di costi fissi che colpiscono tanto i redditi più alti che i redditi più bassi.

Finanziamento pensioni

Per quanto riguarda la fonte di finanziamento delle pensioni, la teoria economica mainstream sostiene essenzialmente che, poiché i contributi sociali raccolti dai sistemi tradizionali finanziano direttamente gli assegni dei pensionati, lo stock di capitale sarebbe inferiore rispetto a quello che si avrebbe con un sistema a capitalizzazione (Feldstein 1974: 923). La tesi generale sostenuta dagli economisti ortodossi è che il tasso di interesse associato a regimi pensionistici con un elevato grado di pre-funding sia maggiore del tasso di rendimento “biologico” associato agli schemi di previdenza pay-as-you-go (cf. Aaron 1966; Samuelson 1958)[2]. Questa tesi ha ovviamente incontrato molte critiche da parte degli economisti eterodossi perché i due sistemi non possono essere semplicemente confrontati con un simile artefizio comparativo, a maggior ragione se non si include nella discussione il problema dei costi di transizione tra i due sistemi e le conseguenti implicazioni macroeconomiche (Michl and Foley 2004; Cesaratto 2002; Lerner 1959). D’altronde, come sostengono anche alcuni tra gli stessi economisti mainstream, tra cui Barr e Diamond (2006: 22), neanche il fatto che i rendimenti sui mercati finanziari siano normalmente più alti del tasso di crescita dei salari implica necessariamente che i sistemi ad alto grado di pre-funding siano più redditizi dei pay-as-you-go.

Alla base di tutti i ragionamenti in favore del pre-funding vi è però anche un’altra ragione di natura teorica: la convinzione che risparmi aggiuntivi si tramutino sempre in investimenti. In realtà, come spiega Cesaratto (2006: 34), anche volendo assumere per un attimo che questa tesi sia sempre vera, bisognerebbe comunque riconoscere che in schemi pensionistici simili la propensione marginale al risparmio dei lavoratori potrebbe non crescere affatto proprio perché i lavoratori devono accantonare somme maggiori del proprio reddito per destinarle ai fondi pensione; inoltre, questi maggiori risparmi correrebbero comunque il rischio di essere compensati dai minori risparmi del bilancio dello Stato che deve continuare ad assicurare il pagamento delle pensioni correnti. Ad ogni modo, si parla ancora una volta di una tesi poco realistica figlia dell’invadente eredità della tradizione neoclassica: il nesso causale tra risparmi e investimenti. Per gli economisti mainstream, infatti, i risparmi S si tramuterebbero sempre in investimenti I grazie al meccanismo di aggiustamento del tasso di interesse (quando S > I, il tasso si riduce, stimolando gli investimenti, e viceversa quando S < I)[3]. Come ha però dimostrato Keynes, al contrario, l’uguaglianza tra risparmi e investimenti è solo un’identità contabile e, dunque, il livello di I è indipendente dal livello di S[4]. Inoltre, applicando il principio keynesiano della domanda effettiva, si può giungere alla conclusione praticamente opposta secondo cui un incremento nella propensione al risparmio condurebbe, ceteris paribus, ad una riduzione dei consumi, della produzione e dell’occupazione. In altre parole, anche ammettendo che il pre-funding riuscisse a far aumentare il livello aggregato dei risparmi non si otterrebbe necessariamente un aumento del reddito pro-capite, ma si potrebbe rischiare addirittura una caduta dei redditi e dell’occupazione (Palley 1998: 99-102; Cesaratto 2002: 171-173).

Sostenibilità sistema pensionistico

La teoria economica ci dimostra dunque che alcuni dei vantaggi attesi da schemi previdenziali ad alto grado di pre-funding e di privatizzazione poggiano in realtà su tesi di ispirazione neoclassica poco realistiche e, proprio per questa ragione, sono destinati molto probabilmente a deludere le più rosee aspettative. Dall’altro lato, ci troviamo invece a fare i conti con un sistema previdenziale pubblico a ripartizione che viene influenzato da diversi fattori come l’andamento demografico, la crescita economica e la distribuzione dei redditi. È vero che il progressivo invecchiamento della popolazione e la frammentazione di percorsi lavorativi sempre più precari stanno influenzando negativamente i bilanci degli enti previdenziali, ma pensare di risolvere questi aspetti puntando solo e soltanto sulla previdenza complementare dei fondi privati può rivelarsi, per l’appunto, non affatto sufficiente.

D’altro canto, può risultare parziale e non sufficiente anche limitarsi alle riforme di carattere contabile sul sistema pensionistico a ripartizione come, ad esempio, l’innalzamento dell’età pensionabile o le ridefinizioni dei metodi di calcolo perché, come emerge dalla letteratura scientifica in merito, la sostenibilità del sistema pensionistico dipende non solo da variabili finanziarie, ma anche e soprattutto da variabili economiche reali (Bell and Wray 2000; Palley 1998). Da questo punto di vista, diventa quindi necessario coinvolgere anche variabili reali come la produzione e la distribuzione dei redditi nell’equazione della sostenibilità del sistema pensionistico. Come sottolineano Bell and Wray (2000: 7), ad esempio, dinanzi a problemi demografici diventa fondamentale puntare sull’incremento della produttività, e quindi della produzione. Inoltre, come spiega Palley (1998: 4-5), i guadagni di produttività conquistati grazie all’innovazione non devono essere destinati solo a profitti e rendite ma devono essere distribuiti anche e soprattutto ai salariati, in modo tale da far crescere anche i contributi aggregati dei lavoratori. Tornano infatti alla mente le parole del matematico Bruno de Finetti (1956), secondo il quale nei sistemi pensionistici si affrontano problemi di ordine sociale ed economico, prima ancora che problemi attuariali. Si tratta di aspetti che i modelli economici eterodossi aiutano a spiegare meglio di quelli mainstream, perché riescono ad evidenziare con più accuratezza le interrelazioni tra variabili reali e finanziarie, a mostrare gli effetti della distribuzione del reddito sia sul sistema previdenziale che sul sistema economico nel suo complesso e a svelare i rischi della diffusione di fondi pensione privati nei paesi finanziariamente più fragili (Viscione 2021).

In conclusione, da un lato abbiamo fondi pensione ad alto grado di pre-funding ed alto grado di privatizzazione che non garantiscono tutti i risultati sperati e che, dunque, non possono essere considerati da soli la soluzione ai problemi di sostenibilità del sistema previdenziale. Si tratta, però, certamente di strumenti di gestione del risparmio che, soprattutto se gestiti dai sindacati dei lavoratori o da enti sotto il controllo pubblico, possono rivestire un ruolo importante nell’impiego di grandi capitali, orientandoli verso investimenti sostenibili e a scopo sociale e perseguendo obiettivi strategici per l’economia nel suo complesso. Dall’altro lato, sul versante del primo pilastro, resta necessario ed imprescindibile un sistema previdenziale pubblico solido e sostenibile. A tal fine, accanto agli aspetti finanziari del bilancio previdenziale, è dunque fondamentale anche garantire politiche economiche di ampio respiro orientate all’innovazione ed alla crescita, così come riforme pro-labour – come quelle orientate ad aumentare i minimi salariali, a rafforzare la contrattazione collettiva e a ridurre la flessibilità nel mercato del lavoro – che siano capaci di assicurare una più equa distribuzione del reddito tra capitale e lavoro.

* Angelantonio Viscione è funzionario pubblico e dottore di ricerca in Economia Politica. Le opinioni espresse nell’articolo sono responsabilità dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione dell’istituto di appartenenza.

Bibliografia

Aaron, Henry. 1966. The Social Insurance Paradox. The Canadian Journal of Economics and Political Science / Revue canadienne d’Economique et de Science politique 32.

Barr, Nicholas and Peter, Diamond. 2006. The Economics of Pensions. Oxford Review of Economic Policy 22: 15-39.

Bell, Stephanie A. and Randall L., Wray. 2000. Financial Aspects of the Social Security ‘Problem’. Journal of Economic Issues 34 (2). 

Cesaratto, Sergio. 2002. The economics of pensions: a non conventional approach. Review of Political Economy 14: 149-77.

———. 2006. The Transition to Fully Funded Pension Schemes: A non-Orthodox Criticism. Cambridge Journal of Economics 30: 33-48.

de Finetti, Bruno. 1956. Sicurezza sociale e obiettivi sociali. In: Un Matematico e l’Economia, ed. Bruno de Finetti. Milano: Franco Angeli Editore. 

Elmendorf, Douglas W. and Louise M., Sheiner. 2000. Should America Save for Its Old Age? Fiscal Policy, Population Aging, and National Saving. Journal of Economic Perspectives 14 (3): 57-74.

Feldstein, Martin. 1974. Social Security, Induced Retirement, and Aggregate Capital Accumulation. Journal of Political Economy 82 (5): 905-926. 

Hausman, Jerry A. 1985. Taxes and Labor Supply. In: Handbook of Public Economics Vol. 1, eds. Auerbach, Alan. And Martin, Feldstein: North-Holland Publishers. 

Keynes, John M. 1936. The General Theory of Employment, Interest and Money, Reprinted in: The Collected Writings of J. M. Keynes, VII, ed. John Maynard Keynes. 1973. London: Macmillan.

Lerner, Abba P. 1959. Consumption-Loan Interest and Money. Journal of Political Economy 67: 512.

Mercer. 2019. Melbourne Mercer Global Pension Index. Monash Centre for Financial Studies. Melbourne.

Michl, Thomas and Duncan K., Foley. 2004. Social Security in a Classical Growth Model. Cambridge Journal of Economics 28: 1-20.

Modigliani, Franco. 1966. The Life Cycle Hypothesis of Saving, the Demand for Wealth and the Supply of Capital. Social Research 33 (2): 160-217.

Modigliani, Franco and Brumberg, Richard H. 1954 Utility Analysis and the Consumption Function: An Interpretation of Cross-Section Data. In: Ed., Post-Keynesian Economics, eds. Kenneth K. Kurihara, 388-436. New Brunswick: Rutgers University Press.

OECD. 2019. Pensions at a Glance 2019: OECD and G20 Indicators. Paris: OECD Publishing. Accessed at: https://doi.org/10.1787/b6d3dcfc-en.

Palley, Thomas 1998. The Economics of Social Security: An Old Keynesian Perspective. Journal of Post Keynesian Economics 21 (1): 93-110. 

Samuelson, Paul. 1958. An Exact Consumption-Loan Model of Interest With or Without the Social Contrivance of Money. Journal of Political Economy 66.

Solow, Robert. 1956. A Contribution to the Theory of Economic Growth. Quarterly Journal of Economics 70 (1): 65-94.

Viscione, Angelantonio. 2021. The economics of Social Security: a Monetary Circuit model. Submitted.

Weller, Christian. 2006. Gambling with Retirement: Market Risk Implications for Social Security Privatization. Review of Radical Political Economics 38 (3): 334-344.

World Economic Forum. 2017. We’ll Live to 100 – How Can We Afford It? World Economic Forum White Paper. Accessed at: https://www.weforum.org/whitepapers/we-ll-live-to-100-how-can-we-afford-it.


[1] In General Theory of Employment, Interest and Money (1936) John Maynard Keynes spiega che l’equilibrio neoclassico può costituire solo un caso speciale, ma non la normalità nelle nostre economie, perché richiede una situazione in cui la domanda aggregata ha già assorbito l’output prodotto. Su queste basi Keynes rifiuta infatti la Legge degli sbocchi di Say. 

[2] Samuelson introduce il concetto di tasso di rendimento biologico assimilando figurativamente gli schemi pensionistici pay-as-you-go ad i sistemi a capitalizzazione nel tentativo di renderli coerenti con la logica della massimizzazione dell’utilità che seguirebbero – nella logica mainstream – agenti economici razionali nei propri comportamenti.  Come scrive egli stesso: “in a stationary system everyone goes through the same life-cycle, albeit at different times. Giving over goods now to an older man is figuratively giving over goods to yourself when old” (Samuelson 1958: 471). Per una critica complessiva si rinvia a Lerner (1959).

[3] Di fatti, gli schemi pensionistici a capitalizzazione si basano su pietre miliari del pensiero mainstream come la teoria del ciclo vitale di Modigliani ed il modello di crescita di Solow. Coerentemente con la prima, gli individui agirebbero assecondando il proprio desiderio di mantenere approssimativamente lo stesso livello di consumi lungo tutta la loro vita (cf. Modigliani and Brumberg 1954; Modigliani 1966); coerentemente con il secondo, tali schemi pensionistici si basano essenzialmente sulla tesi secondo la quale, ceteris paribus, quando si riduce la forza lavoro (ad esempio con tassi di natalità costantemente in riduzione), le dotazioni pro-capite di capitale e di reddito sarebbero destinati ad aumentare (Elmendorf and Sheiner, 2000: 60). Si rinvia a Cesaratto (2002) per una rassegna dettagliata.

[4] Secondo Keynes, i risparmi dipendono dalle decisioni delle famiglie, che a loro volta vengono influenzate dal reddito e dalle proprie aspettative, mentre gli investimenti dipendono da fattori completamente diversi, come i tassi d’interesse e le aspettative delle imprese.

Riforma pensioni: secondo la teoria economica la privatizzazione non è la soluzione

Riforma pensioni Il dibattito sulla sostenibilità del sistema previdenziale, negli ultimi anni sempre più orientato verso l’espansione della previdenza complementare gestita dai fondi privati, spesso non fa i conti con alcuni limiti di simili schemi pensionistici.
riforma pensioni

Riforma pensioni: il dibattito sulla sostenibilità del sistema previdenziale, negli ultimi anni sempre più orientato verso l’espansione della previdenza complementare gestita dai fondi privati, spesso non fa i conti con alcuni limiti di simili schemi pensionistici.

economiaepolitica.it utilizza cookies propri e di terze parti per migliorare la navigazione.